TORNANDO A GALLA: NOTE A MARGINE DELLA LETTURA DI ATWOOD

Ho finito di leggere “Tornare a galla” di Margaret Atwood. E’ il suo secondo romanzo, uscito nel 1972, dunque aveva 33 anni, ed è impressionante per costruzione narrativa, per linguaggio, per la capacità di tirarti in questo caso a fondo, in acque oscure, man mano che procede la storia della protagonista, che torna nell’isola sul lago dove ha vissuto da bambina sulle tracce del padre scomparso, e quel che infine conta è essere là, è essere dentro quella foresta, e lontana da un certo tipo di rapporti umani, esili, chiusi, egoisti.
Ora, la domanda che mi faccio è banale, e altre volte l’ho formulata: cosa è successo da allora, letterariamente parlando, almeno in Italia, e forse non solo in Italia in verità, per far sì che man mano si sia ristretto così tanto lo sguardo? Salvo eccezioni, i romanzi coincidono con la propria storia o la storia della propria famiglia, sempre di più, oppure con vicende strettissimamente generazionali, lievi o drammatiche: un modo di parlare, di ubriacarsi, di assumere droghe, di disamorarsi, di fare sesso, di trovare e perdere lavori che fanno da specchio a se stessi e ai propri coetanei.  Un tempo Ralph Waldo Emerson scrisse: “E poi, a poco a poco, i romanzi cederanno il passo ai diari, alle autobiografie: libri avvincenti, purché chi li scrive sappia scegliere, fra ciò che egli chiama le sue esperienze, quella che davvero è esperienza, e il modo per raccontare veramente la verità”.
Sto parlando da lettrice, intanto, lasciando fuori la parte scrivente, perché non è giusto né tanto meno elegante: però questa malìa letteraria provata leggendo un libro scritto dalla giovane donna di quarant’anni fa non riesco a provarla ora, se non molto, molto raramente. E forse è un mio problema.

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