Diecimila.
Diecimila come gli spettatori di Checco Zalone ad Arezzo nella settimana di Capodanno. Diecimila come i partecipanti a uno spettacolo folk, a una serata con fuochi d’artificio, alla festa dell’olio, della bruschetta, alla tombola di San Settimio, alla gita di Pasquetta a Castelgandolfo, alla degustazione di prodotti tipici ai piani di Bobbio.
Diecimila.
Che volete che siano, diecimila persone? Riempiono meno della metà dell’ippodromo di San Siro e entrano giuste nella discoteca Privilege di Ibiza. Non fanno numero, diecimila persone: sarebbero quasi un flop per una manifestazione, in tempi di grandi, grandissimi numeri, veri o falsi che siano. Sarebbero un discreto successo, in tempi di piccoli, piccolissimi numeri, per un libro.
Diecimila bambini, allora.
Sono i minori migranti che, secondo Europol, sono entrati in Europa lo scorso anno e sono scomparsi. Save the Children racconta che fine fanno, quando si riesce a capirlo. Schiavismo, in molti casi: in Europa come altrove, come quello che riguarda le bambine che cuciono e attaccano bottoni per la “fast fashion” europea, e che magari restano sepolte dal crollo di un palazzo dove lavoravano (sì, c’erano anche minorenni al Rana Plaza), solo per citare un caso (ma sarebbero tanti, riguarderebbero il Congo e la Cina e luoghi molto più vicini a noi).
Diecimila, ma non fanno effetto. O a volte non producono che uno sbuffo di insofferenza, perché ancora con questi migranti, ancora con il senso di colpa, non abbiamo già pianto per Aylan, ci voleva anche Ai Wei Wei adesso? Abbiamo dato, ci siamo espressi con dolore e contrizione, abbiamo diffuso meme su Facebook, abbiamo posato la tazzina di caffé scuotendo la testa. E siamo passati ad altro.
Come faceva la mia generazione quando le mamme ci dicevano finisci quel che hai nel piatto, pensa ai bambini del Biafra. Come faceva la generazione successiva quando qualcuno, sempre scuotendo la testa, diceva pensa ai bambini in Ruanda. Come facciamo ogni 27 gennaio commuovendoci davanti a un paio di scarpine rosse (numero ventiquattro, quasi nuove) come fece Joyce Lussu.
Non è tristemente naturale? E’ “sana biologia” come scriveva qualche minuto fa un commentatore su Facebook. Ci occupiamo di ciò che abbiamo davanti agli occhi, non di ciò che è lontano. E, certo, ci sta. E, certo, questo è il dilemma antico, il dilemma del male, il dilemma lacerante del testimone che apprende attraverso i media, il dilemma, non risolvibile, della letteratura (mettiamo la maglia, che il sole va via, e Fortini lo sapeva e lo sapeva).
E allora cosa dobbiamo fare? Oh nulla, e tutto, certo. Anche se i migranti li abbiamo qui, non così lontani come i bambini del Biafra e del Ruanda. Li vediamo, no? Ma non meritano la nostra attenzione di bianchi e benestanti, oggi tutti tesi a spostare il dibattito altrove, su altri bambini da difendere e proteggere, perché in fondo povero Aylan è morto da un pezzo, e se altri ce ne sono, pazienza, non è nelle nostre mani.
Ma almeno una parola. Che sia anche retorica, inutile, noiosa, ripetitiva, prevedibile, politicamente corretta, seccante. Una parola che magari si traduca in pressione, in settimane dove i muri tornano ad alzarsi. Una parola che magari diventi una piazza, e due e tre e cento, ma chi se la sente, oggi, di scendere in piazza per i bambini migranti? O anche, soltanto, di ripetere “la poesia non serve a nulla, nulla è sicuro, ma scrivi”?
Loredana è giusto e profondo quello che tu scrivi. Ma come fare a combattere contro questo? L’impotenza è un sentimento che annichilisce
Ma almeno una parola, Silvia. Una, fra i milioni di parole pronunciate in questi giorni. Una sola.
Sono rimasto di pietra nel leggere il primo commento su FB all’annuncio della puntata di ieri… ma ho capito molte cose sui nuovi razzismi “tribali”. A proposito, gran bella trasmissione!
Io sono stupita dal livore dei commenti letti ieri in radio.
Per il resto mi sento pietrificata e quante volte mi chiedo cosa posso fare. Parlarne si è già tanto.
C’è un problema di fondo nel suo discorso: l’aspettativa a solidarizzare davvero, e non ipocritamente, con sconosciuti, fossero anche bambini.
L’essere umano non può soffrire per chi non conosce se non attraverso una finzione, anche artistica, che per quanto ben riuscita è sempre un’impostura.
La stima sulla scomparsa di 10000 minori “non accompagnati”, come recita la velina, è puerile nella sua ingenuità (sempre numeri tondi, tra l’altro).
È ovvio a qualunque intelletto non ottuso dalla patosensibilità che un rifugiato (diritto d’asilo) o un profugo (protezione sussidiaria) dovrebbero registrarsi nel primo Paese confinante in cui entrano, e non mirare alla Svezia, attraversando illegalmente e per motivi economici gli altri Stati. Taciamo sui migranti economici (i più), contrabbandati dai media alla stessa stregua degli altri. Pensare a bambini che viaggino da soli passando le frontiere interpretando come schiavismo il fenomeno lascia perplessi, non trova? Molto probabilmente i genitori vogliono sfuggire alla registrazione cosicché in presenza dei figli, difficilmente occultabili, si dissociano e li fanno dichiarare sotto falso nome e non accompagnati, in modo da riunirsi subito dopo il passaggio illegale dei primi a una frontiera delicata.
Non capisco perché il cervello debba sempre rimanere in stand by affrontando da più parti l’immigrazione con paraocchi ideologici.
Un problema che esiste sopratutto da noi a sinistra dove, appiattiti su identità valoriali sulla base antitetica di ciò che dice(va) la Lega, si è malinterpretata per anni la bussola che diceva (magari per caso) il vero e che ci ha condotti all’opposto di dove volevamo andare credendo il viceversa. Così siamo diventati cerebralmente orfani e non capiamo più cosa (razionalmente) facciano la Svezia o la Danimarca e le chiamiamo naziste quando fino a qualche giorni fa erano il punto di riferimento.
No, mi dispiace, io non soffro per quei bambini e provo indifferenza nel momento in cui scatta la retorica della foto dello spiaggiato. Non sono responsabile per loro, i genitori che li hanno messi al mondo, e i loro destini. So perfettamente che ciò mi espone alla critica di chi ritiene di sentirsi moralmente superiore per il fatto che crede che la sua disposizione alla sofferenza per interposta persona conduca a un miglioramento del mondo.
Ma io so tristemente che non è vero, per ragioni difficilmente riassumibili in un commento, quindi preferisco la qualifica dell’arido a quella del babbeo.
Questa indifferenza è la stessa che ha guidato i volenterosi carnefici di Hitler.
Dal punto di vista umano cambia qualcosa se i minori sono mandati dai genitori per riunirsi oltre frontiera?
Dal punto di vista umano cambia qualcosa se una persona fugge perché è disperata? Dobbiamo sindacare su cosa sia la disperazione? Se possiamo accettarla solo in caso di guerra e non in caso di motivazioni economiche?
E’ così difficile vedere gli altri?
Non faccio la maestrina: sono gli stessi interrogativi che mi pungono la coscienza. Ma dire semplicemente che non esistono non li fa scomparire.
Ciao Loredana, grazie per questo post.
Io e la mia cara amica pensiamo ogni giorno a questo tema. Qualcuno crederà che non sia possibile provare vera empatia… Io posso parlare di noi che spesso ci confrontiamo su questa dolorosa impotenza, qs tragedia; preghiamo e parliamo e piangiamo, abbracciamo i nostri figli prima di dormire e pensiamo a chi non li rivedrà o li perderà o li patirà.
Ne parliamo, sensibilizziamo chi abbiamo vicino, preghiamo, ricordiamo, anche se qs vuol dire anche soffrirne ogni giorno. Ci sembra meglio che nulla, ci sembra una fiammella di sentire tenuta accesa.
Hommequirit, è lei, vero? Il merito di quanto afferma non lo commento, mi limito a dire che dissento totalmente e può inferire da solo le mie motivazioni. Diciamo che mi iscrivo volentieri alla categoria di quelli che lei definisce “babbei”. Ma “La stima sulla scomparsa di 10000 minori ‘non accompagnati’, come recita la velina, è puerile nella sua ingenuità (sempre numeri tondi, tra l’altro)”, proprio da lei un commento così? Capisco la necessità retorica di screditare l’interlocutore a partire dai dati tecnici, ma suvvìa: certo che sono numeri tondi, che si aspettava? Che le scrivessero 10302? Sulla base di che? Giusto conoscendoli per nome e cognome, si potrebbe scrivere un numero così. E comunque non dia per scontate le sue bizzarre teorie antropologiche su cosa l’essere umano è non è in grado di sentire. Conosco tanta gente che la potrebbe stupire, lei e i suoi autori di fiducia in materia di antropologia e psicologia. A cominciare dalla signora che ha commentato subito dopo di lei.
Purtroppo Hommequirit ha messo (malamente) il dito su una piaga esplicitata meglio da ElenaElle: l’indifferenza o la non-conoscenza o la testa sotto la sabbia possono nutrire carnefici. Ma anche la “banale” disumanizzazione: se davanti a me non ho più un essere umano bensì una “categoria”, posso eliminarlo senza tanti pesi sulla coscienza! I peggiori massacri e genocidi sono potuti avvenire grazie a questo meccanismo, amplificato da eventuali risvolti religiosi che facevano sentire queste persone “la mano di Dio”, e dunque totalmente irresponsabili.
Il peccato più difficile da individuare e da combattere è proprio quello di omissione, non c’è nulla da fare… ed è anche quello gravido di peggiori conseguenze.
L’ indifferenza fa piu’ paura della morte cantava Guccini. Che messaggio diamo agli adulti di domani?
Grazie Loredana.