ULISSE, TELEMACO, IL MIRACOLO RASIGLIA, CURARE LE RADICI.

Appartenere. Ritrovare. Custodire.
Non molto tempo fa ho discusso con un amico su come la cura delle radici potesse essere considerata un’inversione di marcia, persino un’involuzione conservatrice, dal momento che essere cittadini del mondo è l’obiettivo comune. Sì, ho risposto io, teoricamente hai ragione. Purché l’obiettivo, che è e resta comune, non cancelli il passato, con furia. Purché di quelle radici si conservi memoria, e appunto si prosegua la cura. Tornare in quello che viene chiamato cratere, e che include un territorio vastissimo, e per quanto mi riguarda è la marca maceratese, e constatare che il desiderio neanche troppo taciuto di chi dovrebbe averne appunto cura è spopolarlo, mi fa insistere sul desiderio di diffondere quell’attitudine di cura.
Nel suo bellissimo “Il ritorno”, Hisham Matar racconta dei sentimenti contrastanti che prova tornando in Libia dopo decenni:
“Sono viaggi senza dubbio temerari, e quello cui mi accingevo avrebbe potuto privarmi di una capacità che avevo coltivato con enorme fatica: la capacità di vivere lontano dai luoghi e dalle persone che amo. Joseph Brodsky era nel giusto. E anche Nabokov e Conrad. Artisti che decisero di non tornare. Avevano tentato, ognuno a suo modo, di guarire dal proprio paese. Ciò che ti sei lasciato alle spalle è dissolto. Torna e dovrai affrontare l’assenza o il disfacimento di ciò che piú amavi. Ma anche Dmitrij Šostakovič, Boris Pasternak e Nagib Mahfuz erano nel giusto: mai lasciare il proprio paese. Parti e ogni legame con l’origine sarà reciso. Sarai come un tronco morto, duro e cavo. Cosa fai quando non puoi partire e non puoi tornare?”
Scrivi, per esempio.
In questo agosto ho appreso con stupore che il mondo sta scoprendo Rasiglia, e Facebook fiorisce di fotografie dei luoghi che conosco da anni, e c’è chi parla di “miracolo Rasiglia” sui giornali. Rasiglia è in territorio umbro, ma per me, fino a Foligno, è tutto territorio comune. Siamo tutti Plestini, dice sempre Laura Picchiarelli che si occupa del parco di Colfiorito, e ha ragione.
Scrissi un tempo di Rasiglia e delle sue leggende, e richiamarle alla memoria forse contribuisce ad averne cura, perché è questo che si può fare, solo questo almeno per ora, finché qualcuno non deciderà o verrà costretto infine a decidere che il cratere non deve morire, come avviene ora.
“Erano santi d’acqua, quelli che passavano di qui, o qui nascevano e morivano. Qui si venera soprattutto il Beato Angelo da Acquapagana, che riuscì a trasformare i suoi luoghi da demoniaci in santi. Perché tutto è doppio, nei confini, e ad Acquapagana c’era una sorgente di acqua maledetta, così gli abitanti intimoriti la ostruirono con balle di lana e le acque ricomparvero a Rasiglia, dove si fermò cocciutamente una Madonnella di terracotta. Il beato Angelo era un frate laico converso che pregava molto nel monastero di Valdicastro e infine decise di rifugiarsi in eremitaggio in una grotta, ignorando le tentazioni di Satana, e ignorando anche la lunga e dolorosa malattia salutata anzi con grida di gioia, perché il Signore lo aveva fatto degno di soffrire e infine qui morì inginocchiato davanti al crocefisso e le campane del monastero suonarono da sole e infine venne sepolto nella chiesa di Acquapagana, tranne una tibia, che venne portata a Matelica”.
Quanto alla madonnina, la storia è questa:
“A Rasiglia sgorgano le acque pagane poi convertite, e a Santa Maria delle Grazie la madonnina di terracotta volle fermarsi invece di andare a Verchiano che era la sua destinazione, e un tempo proteggeva dalla peste e oggi riceve ancora gli ex voto. Uno “per pioggia”, il 20 maggio 1865, un altro, collettivo, dai ventidue ostaggi catturati dai tedeschi il 18 giugno 1944 e miracolosamente liberati dagli inglesi a tarda sera, un altro perché si è usciti vivi dalla carrozza investita da un treno. L’acqua della fonte di Rasiglia guarisce e fino a non molto tempo fa era una donna, Clara, a ricoprire il ruolo di eremita nel santuario, e dunque sorella Clara mandava l’acqua ai malati o toccava con un oggetto del malato la veste della madonnella. Che era potente, perché un giorno, si dice, una donna di Roviglieto soffocò involontariamente nel sonno il bambino che dormiva fra lei e il marito e invece di strapparsi i capelli, mise il cadaverino in una cesta e si avviò in piena notte verso Rasiglia, e non appena dalla strada si vide il campanile del Santuario della Madonna delle Grazie il bambino resuscitò”.
Finché Ulisse è perduto, Telemaco non può andarsene di casa. Finché Ulisse non è a casa, rimane sconosciuto ovunque. (Hisham Matar, Il ritorno)

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