Una strada bianca che esce dal bosco e risplende sotto la luna, alla sua destra cespugli di more, addormentati in una notte d’estate. La luce della luna è così forte che si distinguono le varie gradazioni di verde, quello scurissimo dei cespugli, quello più tenero del prato, quello nero del bosco di faggi, sullo sfondo. Sulla destra, c’è una figura che esce dal bosco, sta avanzando sulla strada. E’ una donna. Si possono vedere i lunghi capelli neri. Ha un abito a fiori, stretto in vita, che le ondeggia sui polpacci. Ha scarpe con i tacchi, sembrano troppo grandi perché il passo appare incerto, un piede si curva verso l’esterno, come se la donna stesse per inciampare. Si intuiscono il pallore del viso, la luce degli occhi.
Se devo immaginarti, ti immagino così, in un luogo che conosco, e dove un anno fa, quattro giorni dopo la tua morte, ero andata a guardare le stelle cadenti. Non ne ho vista neanche una, a differenza degli altri, che si indicavano stelle enormi, mai una così grande, hai espresso un desiderio? Invece, pensavo a te, e ti pensavo mentre esploravi il bosco, incerta, provando a prendere confidenza con il dopo, qualunque cosa fosse, anche se l’avevi raccontato tante volte.
Il problema, con i morti che abbiamo amato, è che non riusciamo a pensarli. Nei fatti, ci sfuggite mentre cerchiamo di mettere a fuoco il suono di una risata, un profumo, il gesto della mano (quando fumavi, per esempio, come tenevi la sigaretta? Fra l’indice e il medio fino a che la cenere non forma un cilindro grigio e cade, come faccio io, che sono sempre stata maldestra? Lasciavi che si consumasse nel posacenere? Non ricordo, non più). Così, finisce sempre allo stesso modo, e con le stesse immagini: il momento esatto in cui ho letto il messaggio di tuo marito (passeggiando in una sagra di paese, al mattino presto, prima che il sole diventasse troppo caldo, uno stupido vestito a fiori nella busta di plastica appesa al braccio). Due libri che ti avevo portato, che non sei riuscita a leggere e di cui ho dimenticato il titolo. Il sole che tramonta sul Subasio, dove ero andata a dirti addio. Questa sono io. E tu, dove sei?
Bisognerebbe riavvolgere il nastro, ogni volta. Andare indietro dagli ultimi giorni di quell’infame estate di un anno fa fino a un inizio di primavera del 2005, ma ci sono ancora una volta io, e sempre nelle Marche, la copia staffetta di “Non mi uccidere” fra le mani e la luce del comodino accesa fino a tardi perché, diamine, esiste qualcuno che scrive horror come si deve, esiste la King italiana, e che lingua, che densità, che storia, che testa.
Ma ancora una volta sono io, non tu. Perché se cerco di rimettere insieme gli anni della nostra amicizia, frammento dopo frammento (lo zainetto nero, la pizza a via Barberini, il modo in cui, quando finivi un libro, andavi ogni tanto a rileggerlo “come si guardano i neonati nella culla, per assicurarsi che vada tutto bene”, il pasticcio di pasta che preparavi nella cucina stretta a lunga, la poltrona dove leggevi) restano frammenti e non riesco a pensarti tutta intera. I morti che abbiamo amato ci pongono questo dilemma, il caro vecchio dilemma dell’Altro che è stato nei secoli una goduria filosofica, e che con la morte diventa un tormento, perché l’Altro (l’Altra, tu) rimane dietro il vetro, e a ogni anno che passa il vetro si appanna e la distanza aumenta.
Non è così, in effetti, non del tutto. La distanza che brucia, quella dell’assenza, non si placa mai. E in realtà si ricorda. Conosco gli occhi, i gesti, le risate dei morti che ho amato e che continuo ad amare. Un’immagine su tutte, magari. Mio padre che si volta e allarga le braccia in un gesto d’impotenza. Graziella (abbiamo quattordici anni, passeggiamo per via Asmara, abbiamo jeans a zampa d’elefante) che parla dei doveri e dell’impegno dell’amicizia. Sandro, già a letto, già negli ultimi giorni, che progetta di scrivere insieme la sua biografia, e mentre io spulcio in una grande scatola di ritagli e fotografie chiede, per favore, una ciliegia. La tua fronte calda mentre ti davo un bacio e sapevo che non ce ne sarebbero stati altri.
Cosa possiamo fare, per i morti, se non pensarli, anche se sfuggono, anche se corrono via, e amarli ancora, e desiderare per loro l’impossibile: più tempo? Tempo in cui mio padre avrebbe conosciuto i suoi nipoti, Graziella sarebbe diventata una delle giornaliste più brave e coraggiose dei nostri tempi, Sandro avrebbe continuato a cantare Abat-jour per la gioia delle signore che affollavano i teatri e tu avresti continuato a scrivere, un romanzo dopo l’altro, uno più bello dell’altro.
Così non è, così non accade.
Cosa possono fare i morti per noi, se non scompigliarci i capelli nelle notti di vento, come – non me lo toglie dalla testa nessuno – hai fatto tu per me qualche settimana fa, per dirmi che il mondo va avanti, anche nel dolore, anche nel rimpianto?
Ciao, Chiara. Continuo a volerti bene, allo stesso modo.
Semplicemente mi manchi.
Non riesco a non pensare a te, alle sofferenze dei tuoi ultimi giorni e mi arrendo di fronte alla tua consapevolezza di allora nell’accettare serenamente ciò che, ne sono certa, sapevi stesse accadendo.
Tutto mi parla di te, tutto chiede di te, e il vuoto che provo nella mia anima è incolmabile. Sono svuotata. Tutto il mio amore per te e l’intensità di questi ultimi mesi mi scoppiano nel petto e non mi fanno respirare. Le domande e le ansie più assurde mi assalgono: se stai soffrendo, se t’imbarazza trovarti ora a dover riposare in mezzo a così tanti estranei… tu, così discreta e riservata.
Il mio cuore è colmo di te, ma ancora non riesco a farti rivivere. Ti ho sempre augurato il meglio… e ora che forse finalmente hai “quel meglio”, sento solo il vuoto della tua assenza.
Vivere con te quest’ultimo viaggio, percorrere insieme i passi rimanenti sapendo che quando saremmo arrivate, tu avresti dovuto fermarti ed io continuare ancora… un’esperienza dolorosa, intensa, silenziosa.
Tutto è finito, ormai, tra mille affanni. Resta il vuoto di quello spazio che neanche più il tuo silenzio potrà riempire.
Che cosa dire ancora?
… Ti voglio bene, e semplicemente mi manchi.
Ecco… Altre persone… Grande dolore e vuoto, il timore delle immagini che spariscono e dei ricordi che spesso si legano a anche a persone che belle non sono e tu vorresti invece conservare solo la bellezza di quell’incontro unico, imperfetto ma infinito. Ti capisco.
Si cristallizzano i ricordi, si rapprendono come stelle in cielo.
Diventano solo quello che si può trattenere, diventano un compendio del nostro tutto. Diventano quello che serve, quello che ci serve davvero per avviarci lentamente lungo la stessa strada. Il nostro pan di via, non più elfico, forse, ma necessario.
Per loro e per noi.
Loredana. Non sempre non riuscire a mettere a fuoco e’ un male..a volte quei gesti e la potenza delle memorie che ti si affollano nella mente – la loro fisicita’ quasi..- ti fanno vacillare come ubriaca. Ma comunque. Ciao loredana.
Ciao dolce, cara Serena. Ci sono parole che vi accomunano, è una piccola (grande) consolazione.