Memorabilia, tre. E’ il 14 maggio 1986. L’idea di un Masterpiece, talent show per scrittori (in arrivo su Rai Tre) è più lontana di Plutone. Beniamino Placido dice la sua su libri e televisione. Il “what if?” è inutile, ma inevitabile.
Come si mortifica un libro. E’ domenica pomeriggio. Getto un’ occhiata a “Domenica in” e vedo lo scrittore Raffaele La Capria. Anzi, no. Vedo, prima di La Capria, qualche scena da “Natale in casa Cupiello” di e con Eduardo De Filippo. Ma che c’ entra? Chiedo a me stesso. Che c’ entra Eduardo con La Capria? Sono tutti e due napoletani. E con ciò? Esiste forse una sola Napoli? Certamente no. Ovviamente no. Esiste una Napoli di Eduardo, che può piacere o dispiacere. Ed esiste una Napoli di La Capria (fin dai tempi di “Ferito a morte”), che può dispiacere o piacere a sua volta, ma è irrimediabilmente diversa. E allora?
Un anno fa cominciammo a leggere – sul “Corriere” e su altri giornali – alcuni articoli di Raffaele La Capria su Napoli e sulla napoletanità. Erano articoli di rara finezza, di rara penetrazione, di rara originalità. La Capria raccontava la storia di una Napoli devastata da un trauma. Il trauma della Rivoluzione del 1799. Che fu una vera e propria guerra civile, risoltasi con lo sterminio della grande borghesia illuminista. Rimasero sulla piazza a guardarsi – con sospetto – la piccola borghesia e la plebe. Tutta la “napoletanità” che nasce dopo – con il suo uso ed abuso del dialetto, con il suo uso ed abuso della cordialità, è un espediente, una tattica adottata dalla piccola borghesia per tener buona la plebe, di cui ha un sacrosanto terrore. Suvvia, siamo tutti uguali! Siamo tutti buoni, allegri e furbissimi! Siamo tutti napoletani! Leggendo quegli articoli di La Capria abbiamo capito finalmente perchè – pur essendo sudditi per nascita del Regno di Napoli – una certa napoletanità demagogico-folkloristica che si ritrova a volte anche in De Filippo, non ci convince, non ci piace.
Raffaele La Capria raccoglie i suoi articoli in un volume che ha anche un bel titolo “L’ armonia perduta” (Mondadori 1986) e va, per presentarlo in televisione, a “Domenica in” dove è intervistato da Elisabetta Gardini (dopo un bel po’ di “Natale in casa Cupiello”, si intende). La Capria fa il suo discorso, espone le sue ragioni, descrive il suo libro. Lo ascoltiamo con attenzione. Però, c’ è qualcosa che non va. Siamo o non siamo in televisione? E la televisione non è fatta – come ci ripetono almeno una volta al giorno – di immagini? E dov’ è l’ immagine di quel portone? Quel portone, sì. Esiste a Napoli un famoso palazzo nobiliare il cui portone è sempre chiuso. Sempre: dal 1799. Perchè in quell’ anno mirabile, in quell’ anno fatale il figlio – patriottico e liberale – dei nobili proprietari del palazzo fu fatto impiccare dal Re. Allora è vero che a Napoli il passato dura e conta ancora oggi. Allora ha ragione La Capria. Ma oggi, guarda che strano, in quel palazzo ha sede l’ Istituto italiano per gli studi filosofici. Un’ iniziativa tutta napoletana (Gennaro Marotta) che è assurta a livello internazionale. Allora non è vero che a Napoli si suona e si canta soltanto. Ecco una di quelle iniziative che fioriscono numerose oggi a Napoli, fra le imprese della Camorra, il ricordo del colera, le macerie del terremoto. E che fanno di Napoli la città più curiosa, più misteriosa, più minacciosa – anche – d’ Italia. Ha scritto Peter Nichols, conoscitore attento e acuto del nostro Paese: “quelli a cui non piace Napoli hanno paura di qualcosa”. E sapete come esorcizziamo questa Napoli plebea ed aristocratica, decrepita e vivace, rassegnata e indomabile? Proponendo a noi stessi ed agli altri l’ immagine della Napoli mandolinara.
Se i libri in televisione fossero considerati con rispetto, qualcuno avrebbe letto attentamente il libro di La Capria prima di invitare l’ autore in trasmissione. Quindi avrebbe avuto – perchè è impossibile non averla – l’ idea di quella storia allucinante, di quel portone chiuso da due secoli, di quella Istituzione internazionale che usa adesso quel palazzo, passando per un portone laterale. E invece no. Canta Napoli! Non fa che cantare Napoli, con accompagnamento di mandolino e di chitarra: a scelta, in Tv. Subito dopo La Capria è stato presentato il cantante Bruno Venturini, reduce dai trionfi della Cina, che ha cantato – indovinate un po’ – “Quando spunta la luna a Marechiaro”. Quella sera poi giocava al San Paolo di Napoli la nazionale cinese. Come vedete: tutto torna. E il cantante Venturini ha cantato “Torna a Sorriento” in cinese (sì, in cinese). Infine, per dimostrare che si può essere napoletani anche cantando in italiano, il cantante Bruno Venturini ha cantato “Non ti scordar di me”. Cantava “non ti scordar di me” il cantante Bruno Venturini (“la vita mia è legata a te”) ed aveva – credetemi – le lacrime agli occhi. Con la conseguenza che gli spettatori di “Domenica in” sono corsi il giorno dopo a comprare l’ ultimo suo disco: non so se in napoletano, in cinese o in italiano. Non il libro di La Capria, che è rimasto seppellito sotto la colata di lava di quella napoletanità convenzionale e tradizionale che può essere dignitosissima intendiamoci (il cantante Bruno Venturini è bravo e simpatico) ma che non ha nulla a che vedere con la napoletanità in cui La Capria si riconosce. Gli editori dicono che solo così si vendono i libri. Solo portandoli in televisione. Non ci credo. Comunque, non mi interessa. In ogni caso, non mi piace. Questo metodo di promozione libraria generica farà vendere qualche libro in più, farà contento per un giorno qualche editore, qualche scrittore, ma non fa crescere l’ attenzione per i libri. Non entra in comunicazione con la richiesta di emozioni, con la richiesta di emozioni culturali serie. Un esempio “a contrario”? Quello che ha offerto RaiTre sabato sera con un “Profilo della casa editrice Einaudi” disegnato dal regista torinese Bruno Gambarotta, bravissimo. In questo programma televisivo la storia di ogni libro diventava la storia di un’ avventura appassionante, quale in effetti sempre è. Una storia fra le tante: quella di Fruttero e Lucentini. Come costruirono le loro famosissime antologie della fantascienza, che costituiscono oggi un fiore all’ occhiello dell’ editoria Einaudi? Le costruirono andando a raccattare sulle bancarelle di piazza San Carlo i volumetti di “Scienze Fiction” svenduti dagli impiegati dell’ ambasciata americana. Perchè ogni vero libro è davvero un’ avventura eccitante. Non un nuovo tipo di pasta al dente da pubblicizzare (spesso inutilmente) mentre i mandolini suonano con le lacrime agli occhi e la luna spunta implacabile (dove? indovinate) a Marechiaro.
Scusa se mi permetto di mettere qui il link al mio blog ma ho scritto un pezzo proprio sull’idea di “scrittura e fama” e sulla necessità di avere “lettori” e non “scrittori” spinti magari solo dal desiderio di andare in TV.
http://cronachedallalibreria.blogspot.it/2013/08/masterpiece.html
Grazie dei tuoi preziosi interventi
Marino
C’è un nemico oggi contro il quale occorre lottare: il luogo comune.
Tutto viene semplificato e ridotto a una sottile immagine bidimensionale, il linguaggio rinuncia alla semantica e alla sintassi, si trasforma in una pragmatica enunciazione di luoghi comuni: l’uomo non cambierà mai, i ricchi rimarranno ricchi e i poveri resteranno tali, la donna è fragile e deve essere protetta, gli immigrati sono violenti, gli ebrei sono avidi, se metti la gonna corta te la cerchi, tutti i politici sono ladri, il mondo si divide in furbi e in stupidi, tutti possono scrivere un buon libro ma solo i raccomandati pubblicano, i napoletani sono “mandolinari”…
Il luogo comune non si può confutare, perchè dà un senso di fratellanza, di sicurezza e chi lo confuta e disvela viene considerato un folle, un disturbatore o un mentitore.
La televisione è ormai il mezzo deputato alla diffusione del luogo comune, è costruita sul luogo comune.
Dunque alle reti televisive non resta che un modo per farsi concorrenza e aumentare i profitti, proporre programmi privi di qualunque spessore, di ogni ragionamento, destinati a fare ascolto solo se i “mi piace” saranno maggiori dei “non mi piace”. Un buon modo per raggiungere lo scopo è suscitare la simpatia dei teleutenti, quindi cosa importa del testo proposto, la vera selezione sarà fatta guardando le foto dei giovani scriventi. Poi, se c’è tempo, si verificherà quanta ovvietà e luoghi comuni ci saranno nelle loro opere.
Non sono del tutto d’accordo Valbè.
Il luogo comune è indispensabile al linguaggio. Senza, sarebbe impossibile cominciare la comunicazione linguistica e la sua stessa comprensione.
Il tanto vituperato “una volta qui era tutta campagna” continua a essere una frase iniziale irresistibile ed efficace. Il problema non è usarla; è andare oltre.
Come tutte le parti del linguaggio, anche per il luogo comune è determinante l’uso che se ne fa. Se chi produce la televisione (strumento che usa altri strumenti) vuole continuamente, ripetutamente, ossessivamente, solamente cominciare la comunicazione – perché così è tutto “novità”, è tutto attraente, è tutto vendibile come “mai visto prima” – allora usa solo il luogo comune, e guai a chi va oltre.
Il problema continuano a essere le persone che vogliono solo strumenti per fare profitti semplici e veloci, e che quindi non possono ammettere che si vada oltre i livelli iniziali di comprensione, interesse, partecipazione.
Ecco perché, imho, ci sono in giro soprattutto ‘questa’ televisione, ‘questa’ editoria e ‘questi’ luoghi comuni – che tu descrivi benissimo.
Sarà, ma io la domanda di partecipazione la mando, dato che il romanzo ce l’ho e non riesco a infrangere il muro di carta composta da migliaia d’altri manoscritti. Non è che possiamo tirarcela con la grande arte di massa e la letteratura di genere e che non ci devono essere distinzioni fra cultura alta e bassa e poi facciamo gli schizzinosi con i libri in tivù, no?
Ma mandala pure, Sascha, e che la sorte ti sorrida. Nessuno fa lo schizzinoso sui libri in tv. Ma sul concetto di popolarità che sovrasta e sostituisce la qualità, sì.