MICHELA E LA SPERANZA

Michela Murgia è la donna più coraggiosa e più viva che abbia mai conosciuto. E’ un’amica, fra le più care e amate, è una compagna di strada e di scrittura: dunque la mia opinione verrà giudicata parziale. Sia. Non ho intenzione di discutere sul punto: chi trascina la sua esistenza discettando di “amichettismi” continui pure a fornirsi alibi. Qui posso ripetere quel che ho detto centinaia di volte: le persone che ho care sono tali perché le stimo. Non vale il viceversa.
Detto questo. Michela ha il coraggio di mettere in secondo piano una posizione acquisita di scrittrice premiata, tradotta, amata, stimata, e di portare il suo coraggio, la sua passione, la sua onestà e la sua vitalità in politica. Non, come in altri casi è avvenuto, come fiore all’occhiello di un partito: ma come portatrice di un progetto comunitario. Da non sarda, posso solo prefigurare che quel che è stata ed è per i libri una straordinaria iniziativa come Liberos, possa essere il modello per la politica di un’intera Regione. Da non sarda, non posso votarla: ma sostenerla in ogni modo. Perché incontrare persone come lei significa incontrare la speranza di una politica (e anche di una scrittura, checché ne pensiate) diversa.
Qui, l’intervista che Michela ha rilasciato sabato a Concita De Gregorio per Repubblica.

“Per me scrivere e fare politica sono la stessa cosa. Cominciare a raccontare è stato un gesto violento di reazione. Come fa il topo quando è nell’angolo, ha mai ucciso un topo? Nelle case di paese quando c’è un topo in casa le donne sanno che bisogna stancarlo. Allora cominciano a battere per terra con la scopa, e lui scappa, e loro battono, e lui scappa, e loro battono ancora finché non si stanca. Quando si stanca rallenta, e finisce in un angolo. Proprio un momento prima di essere colpito il topo, vinto, fa una cosa in apparenza insensata, l’unica che può fare: attacca.
Non importa se tu sei cento volte più grande di lui e stai per ucciderlo: lui ti si avventa contro, attacca. Io ero quel topo. La mia storia è quella della mia generazione. Ho lavorato in una centrale termoelettrica e ho fatto il portiere di notte, ho insegnato a scuola e ho venduto aspirapolveri al telefono in un call center. Ti dicono che è flessibilità, diventi un saltimbanco del precariato. Scadeva un contratto e loro battevano, compromessi, battevano, umiliazioni e ricatti, battevano e battevano. Allora ho fatto l’unica cosa che potevo ancora fare. La scrittura come ribellione, un gesto politico. Se non puoi fare più niente almeno dillo. Poi sono stata fortunata, certo. Ho trovato chi ha letto, ho potuto scrivere ancora”.
Michela Murgia ha 41 anni, da sette anni scrive. Da venti cerca un posto nel mondo e un senso a quella frase che ha scritto nella sua biografia: sono una donna di sinistra.
“Dire sono di sinistra ha senso nel mio ordine interiore, in quello esteriore no. Non trovo più il posto che la sinistra si è data, non lo vedo. Scrive una storia senza trama. Ha perso il coraggio, vuole accontentare chiunque. Dovrebbe essere il luogo dei diritti ed è sovente su questo terreno superata a sinistra dalla destra. Dovrebbe portare la bandiera della liberazione: dai poteri, dal controllo. Lo dico semplice, non bisogna avere paura di sembrare ingenui: il controllo del mercato, per esempio, sulle nostre vite. Chi indica un’altra strada, oggi, alla dittatura del mercato? Chi dice che legare il destino delle aziende a quello dei lavoratori è un errore? Perché le aziende falliscono ma le persone no”.
È nata e cresciuta a Cabras, in Sardegna. Era nell’Azione cattolica. Dopo il call center ha scritto un libro, Il mondo deve sapere, da cui Paolo Virzì ha tratto un fortunato film. “Arrivavano dalle segreterie dei partiti politici i fax coi nomi delle persone da assumere. Il sindacato era colluso”. Con Accabadora, il primo romanzo, ha vinto il Campiello. Poi Ave Mary, un saggio sulle donne e l’educazione cattolica.
“Mi dicevano sei pazza, scrivi un racconto, capitalizza il successo. Ma a me del mio successo personale non m’importa niente. È un principio di necessità, la scrittura. È un modo per occupare uno spazio pubblico e dire cosa c’è che non va. Ora con Loredana Lipperini ho scritto L’ho uccisa perché l’amavo. Questo, per me, è dire qualcosa di sinistra. Non avere paura dell’impopolarità, avere il coraggio di indicare una rotta. Se penso a cosa è stato Berlusconi in questi anni, l’ottimismo fasullo, la realtà finta e rosa. E all’epilogo, ammesso che lo sia: era tutto già scritto, già noto. Che ipocrisia fingere indignazione adesso senza aver reagito prima allo scempio. La destra ha fatto il suo lavoro. Compito della destra è non spostare equilibri, mantenere i poteri in mano a chi li stringe. In questo senso anche il Pd è stato di destra. Forse è stato anche più grave perché non te lo aspetti da lì. In Sardegna la coincidenza di interessi Pd-Pdl è impressionante. Gli stessi orizzonti. Significa che destra e sinistra sono uguali? No. Significa che Pd e Pdl hanno interessi comuni. È evidente dal governo attuale, del resto”.
Michela Murgia stasera a Nuoro dirà della sua decisione di candidarsi a governatrice della Regione con una lista indipendente. Rappresenterebbe la terza possibilità davanti a cui le segreterie politiche sono molto in apprensione.
“Ho ascoltato e girato molto e ho cercato soprattutto di capire i bisogni veri delle persone. Mi dicono che i partiti hanno paura e lo vedo dalle loro scelte. Il consiglio regionale sardo ha votato lo sbarramento al 10 per cento. Pd e Pdl dentro e fuori tutti gli altri. Nella stessa legge è stavotata col 94 per cento di voti la doppia preferenza uomo donna. A voto segreto, 94 per cento: tutti. Perché hanno paura, lo sanno che le donne – certe donne – sono il cambiamento. Penso a Paola Natalicchio sindaco di Molfetta a 34 anni, nonostante i partiti. Quando vinci è così: nonostante i partiti, devi farli dimenticare. In Sardegna il Pd ha preferito perdere con Cappellacci che vincere con Soru. C’è una mediocrità delle classi dirigenti alla quale ci siamo arresi e che grida vendetta, invece”.
Bisognerebbe raccontarla, dice. Lo storytelling politico è un genere letterario.
“Lo è. Il Pd ha smesso di scrivere la sua storia da tempo. Ricordo quando Bersani disse agli industriali veneti: la Lega vi ha promesso il federalismo fiscale ma non ve lo ha dato, lo faremo noi. Ricordo quando Rutelli, per reagire alla campagna sulla sicurezza imbastita da Alemanno, fece i manifesti che dicevano “Né quartieri alti né quartieri bassi solo quartieri sicuri”. “E mo’ te svegli”, gli ci scrissero sopra. Questo ha fatto la sinistra, usare le storie degli altri. Il problema è che non si fidano delle persone. Non si fidano, hanno paura. Il consenso si costruisce sulla consapevolezza degli individui, e nelle persone ci devi credere. C’è una formazione di popolo da fare, la devi fare. Una pedagogia di popolo. Non puoi delegarla alla tv, che è di Berlusconi: è una resa totale. Ad Arborea, da noi, c’è un comitato di cittadini compatto e motivato contro la trivellazione della piana che i Moratti vorrebbero fare per cercare il gas. La Saras, un’azienda privata. Il Pd regionale cosa fa? Ascolta le popolazioni, indica un’idea di mondo e di futuro? No, sta con gli interessi dei privati. Dice trivelliamo la piana. Ha paura di perdere l’appoggio economico che lo tiene al potere “.
Poi certe volte la vita cambia in un minuto, e allora capisci che non c’è tempo da perdere.
“La mia vita è cambiata, sì, per ragioni molto personali. Ne ho una nuova davanti e non voglio sprecarla. Per un certo periodo ho pensato che scrivere romanzi fosse inutile. Non posso perdere tempo con la finzione mentre intorno tutto crolla, pensavo. Però Gomorra ha ridato nerbo alla figura dello scrittore che parla della realtà usando la sapienza narrativa. D’altra parte penso anche che Kafka, col Processo, ha cambiato il mondo più di quanto possa fare Bauman. Abbiamo permesso che la parola intellettuale diventasse un insulto, è vero. Abbiamo lasciato crescere una generazione di intellettuali che non stanno nella realtà. Però raccontare per me resta l’unico modo di dire quel che non puoi spiegare. Bisogna accettare di essere transitori. Di essere utili per il presente. Senza l’ambizione narcisistica di dire ma io, fra cento anni, sarò ricordato. A me basterebbe che fra cento anni dicessero c’era da assumersi una responsabilità e l’ha fatto. Sì, Pasolini ha saputo fare le due cose insieme ma non siamo tutti Pasolini”.
E poi c’è il tema dell’eredità da portare. Il più importante di tutti.
“In Sardegna la nostra tradizione è di racconto orale. Da secoli abbiamo affidato ai narratori e ai poeti il compito di portare la voce della gente. Chi scrive ha un mandato anche politico, io mi sento in quel posto. Qui nell’isola non mi chiedono mai quando scrivi un altro libro, mi chiedono perché non parli di questo? Mi dicono tu che hai voce per farti ascoltare, dillo. In Italia se ho lavorato bene mi dicono brava, in Sardegna mi dicono grazie. I popoli devono riconoscere i loro narratori, noi abitiamo le loro storie. Ora che la politica non ha più una trama la gente va ai festival letterari a chiedere risposte. Ma il compito degli scrittori non è dare risposte, è tenere aperto lo spazio delle domande. Ecco, alla fine è questo. C’è un’eredità di responsabilità da raccogliere. Una eredità di responsabilità. Fare un gesto di sinistra è prendersela in carico e portarla. L’Italia si salverà da sola, nonostante la politica. A dispetto della politica. Lo sta già facendo”.

5 pensieri su “MICHELA E LA SPERANZA

  1. la candidatura di Michela è una di quelle cose che non fanno venire voglia di alzare il volume dell’ipod quando si sente parlare di politica.Ma c’è un punto che a un’osservatore distratto come me potrebbe essere sfuggita in cui sarebbe meglio schiarirsi le idee.Quando il movimento dell’irs guadagnava terreno sotto i migliori auspici delle persone di buona volontà e con il plauso della parte migliore di ogni coscienza,anche sotto i riflettori della stampa nazionale che vedeva nello stesso un esempio da seguire ci fu una scissione chiacchierata in cui personalmente non sono mai stato capace di discernere le responsabilità.Visto che in quell’occasione Michela fu una delle parti in causa mi piacerebbe conoscere la sua enumerazione

  2. Seguo con molto interesse l’azione di ProgReS e la candidatura di Michela. Siamo in sintonia su molte cose, anche se divergiamo fondamentalmente su un punto, io sono internazionalista.
    Sono convinto che in Sardegna stia accadendo qualcosa di molto importante e credo che possa essere un “inizio”, indipendentemente dalla vittoria di Michela, qualcosa che non sia limitato dall’ indipendentismo, ma che invece riesca a contagiare, a propagarsi al di fuori dell’ isola. Per questo “faccio il tifo” per lei e per il suo partito, perchè c’è un estremo bisogno di persone che fanno, che agiscono in mezzo alla gente, che siano d’esempio, che dimostrino che è possibile cambiare le cose.
    E c’è una cosa di Michela che mi piace molto, il modo con cui si esprime, un linguaggio sempre ricco e preciso, chiaro e comprensibile, ma che non si “abbassa” mai. Non cerca narrazioni semplificate, non fa sconti a chi ascolta e questo, in questi tempi di politici che parlano per slogan demagogici, mi dice molto sulla sua onestà e capacità.

  3. Questa intervista dà speranza, ossigeno. Io la vedo una mossa ardita, che non tutti potrebbero permettersi. Ho quasi l’impressione che ci sia bisogno di essere dei veri rivoluzionari per diventare politici essendo scrittori, rivoluzionari in senso puro. Mi chiedo se probabilmente il passato nelle associazioni abbia aiutato la Murgia nel portare avanti questa scelta; o quel senso di comunità particolare che hanno gli isolani e chi vive nei piccoli centri. Spesso consideriamo, io per primo, l’arte come un oggetto rivolto verso l’interno, narcisisticamente ripiegata; il mondo dal buco della serratura, mai come il falegname che ha costruito tutta la porta.

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