Chiacchierando con un gruppo di ragazze e ragazzi intorno ai vent’anni, di questi tempi, capita di sentirsi dire: “Perché non dovremmo essere d’accordo con quelli che hanno spaccato tutto? Cosa hanno ottenuto quelli che sfilavano col sorrisone e magari col filo di perle?”. Capita, anche, di sentirsi indicare i coetanei londinesi (e greci, e tunisini) come modelli. Capita di sentirsi tacciare di ipocrisia, più o meno apertamente.
Quando è capitato a me, ho fatto la prima cosa che mi è venuta in mente, e non è affatto detto che sia quella giusta.
Per esempio, ho raccontato loro di Charles Boycott, l’amministratore terriero di Lord Eme che venne inviato in Irlanda, nella contea di Mayo, e che nel 1880 cercò di contrastare la campagna della Irish Land League (“Fair rent“, cioè giuste condizioni affittuarie, “Fixity of tenure“, la fissità del possesso e “Free sale“, la libera vendita). Nessuno attentò alla vita di Boycott, nessuno alzò la mano su di lui. Fu la comunità intera ad agire, decidendo che ” i vicini non gli avrebbero parlato, i negozi non l’avrebbero servito, i carpentieri locali non gli avrebbero aggiustato la casa ed i postini si sarebbero rifiutati di consegnargli la sua posta”. Boycott fu costretto a lasciare l’Irlanda.
Cos’altro? Ho raccontato di Rosa Parks, del suo rifiuto di cedere il posto sull’autobus a un bianco, in quel 1 dicembre 1955 che fece entrare la città di Montgomery, Alabama, nella storia. Ma soprattutto ho raccontato quel che seguì il suo arresto: i 381 giorni di boicottaggio della comunità nera, che si rifiutò di salire su un mezzo pubblico finché l’azienda dei trasporti venne messa in crisi. Nel 1956, la Corte Suprema degli Stati Uniti dichiarò incostituzionale la segregazione.
E’ un racconto lungo. Include le tecniche di combattimento nonviolento del satyagraha gandhiano nella lotta per l’indipendenza indiana (non acquistare liquori e tessuti provenienti dall’impero britannico, non iscrivere i figli alle scuole inglesi, non investire i propri risparmi in titoli di stato britannici, non accettare incarichi militari e civili o titoli onorifici dall’amministrazione coloniale britannica) e la disobbedienza civile (non pagare le tasse, obiezione di coscienza al servizio militare, violazione delle norme che limitano la libertà).
Include gli scioperi alla rovescia di Danilo Dolci (e la sua maieutica, e il lavoro di formazione e di educazione che fece). Include il pensiero di Aldo Capitini.
E include anche una storia recentissima, quella dell’Isola dei cassintegrati: leggetela in un libro uscito per Bompiani, Asinara Revolution di Michele Azzu e Marco Nurra. Racconta come si trasforma una protesta nonviolenza e misconosciuta in un caso mediatico. Poco, forse: ma è un inizio.
Include, insomma, tutto ciò che è stato rimosso, o è passato in secondo piano, negli ultimi vent’anni di questo paese: e ancora una volta è una questione d’immaginario. Sarà anche semplificante, ma in cinque lustri dove ad avere forza è stata la cultura della rissa e dell’insulto in quanto indispensabile accessorio del vincente, altre pratiche sono uscite dalla cornice fino a sparire. Il dettaglio fa l’insieme: leggete anche un altro libro, Razzisti a parole (per tacer dei fatti) di Federico Faloppa. Vi dimostrerà come la minuzia di una frase costruisce il mondo in cui viviamo oggi.
Dunque, a racconto finito, cosa cambia? Forse poco, forse niente: magari, però, suggerisce l’idea che possano esistere scelte, e che anzi il cuore di ogni azione e di ogni esistenza è proprio nella scelta. Ma nessuna scelta è davvero possibile se non si conoscono le strade che si hanno davanti. Questo, per me, è il compito non dei generici “intellettuali”, ma di chiunque abbia a cuore il concetto stesso di comunità.
Ho appena letto l’articolo di Fofi su l’unità al riguardo, lui parla di mancata trasmissione da una generazione politica all’altra, non so forse si tratta di qualcos’altro. http://www.unita.it/commenti/goffredofofi/se-in-italia-tornano-i-forcaioli-1.344875
La distorsione dei media passa anche nel sentirsi nella stessa situazione di un ragazzo o ragazza che scende in piazza a Tunisi o al Cairo, ma anche ad Atene o a Londra. Insomma, siamo un po’ tutti oltre il senso del luogo, come scriveva quello.
E poi non mi è ancora chiaro cosa sia “ottenere”, quale sia l’obiettivo? quale sia l’oggetto ottenuto che placa la rabbia di un ventenne. Sinceramente non lo ho ancora messo a fuoco.
Non solo il metodo – che, come scrivi anche tu, mi pare importantissimo – ma anche il merito va approfondito. E non solo dai ventenni, ma da tutti. (insomma, le scelte, appunto).
Ottimo intervento, condivido l’ultimo paragrafo parola per parola.
Putroppo sèmini su terra bombardata; non farlo, però, significherebbe aver gettato via la speranza.
A proposito dell’effetto Rosa Parks e del fatto che in Italia in questo momento non potrebbe mai verificarsi nulla di tutto ciò mi è venuto in mente questo pezzo di Sergio di Cori Modigliani http://sergiodicorimodiglianji.blogspot.com/2011/09/leffetto-rosa-parks-in-italia-non-e-il.html
Purtroppo la maggior parte degli esempi riportati da Loredana Lipperini non solo sono rari nella storia dell’umanità ma da contestualizzare in un periodo e in un luogo preciso.
In Italia non esiste neppure lontanamente una massa consapevole in grado di seguire un Gandhi e di fare paura al potere, anche ieri osservavo che i giovani seguivano su twitter la diretta notav mentre la maggior parte delle famigliole e pensionati stava davanti alla tv a guardare l’Arena di Giletti con Sacconi che vomitava bestemmie sui “teppisti”. Se fossimo meno schizofrenici forse. Se.
è chiaro che non è il momento per sviluppare un dibattito sincero sul tema(pena la forca.A meno di non essere dei rappresentanti politici della lega a cui è concesso farfugliare qualsiasi minaccia in barba alle leggi che moderano la libertà di espressione).A me torna solo in mente un brano del libro “costretti a sanguinare” in cui a una manifestazione dei punk italiani per diritti civili(forse proprio a Pisa) gli astanti furono invitati a sciogliere le righe dal capo delle forze dell’ordine,allorchè un rappresentante di quella muta di inquieti rispose con un “voi fatte il vostro lavoro che noi facciamo il nostro” e la protesta proseguì succeduta dalle cariche annunciate.Non ricordo cosa ne fu dello status quo
Il post e i racconti sono bellissimi e danno speranza: però c’è anche un po’ da diversificare e chiedere responsabilità politica – quando si chiamano fratelli soggetti che combattono in altre circostanze ben altre battaglie. Agli occhi di certi fratelli per esempio tra la collana di perle e il jeans strappato per la simulazione della povertà c’è una differenza relativa, come mi fece notare piuttosto affettuosamente e duramente un mio amico uruguaiano anni e anni fa, fresco fresco di fame e di dittatura. Questo naturalmente non va detto col tono di uh cattivaccio uh superficialone, neanche pensandolo, ma come dire nel tentativo di avviare una consapevolezza della differenza di contesto, la quale rende in realtà meno urgente l’uso dell’arma, più frutto di altro che di realistica disperazione. Questo passa anche da un discorso che separi la nostra specifica situazione storica e politica ed economica, da altre con cui ci piace confrontarci. Ma qui si finisce su campi già battuti. In ogni caso ottima strategia la tua.
Sono perfettamente d’accordo con Jo. Gli esempi che ho fatto appartengono a un momento storico che non è quello di oggi. Infatti, non li ho proposti affinché vengano seguiti pedissequamente come modelli, ma come narrazione espulsa. Nessuno, oggi, potrebbe pensare di fare le stesse cose di Danilo Dolci: è un’altra Italia, ha altre sconfitte alle spalle. Eppure, quella narrazione va proposta in quanto scomparsa. In quanto dimenticata. E qui, esattamente come è avvenuto con il movimento delle donne, sta la grande colpa della mia generazione: non aver saputo trasmettere memoria. E senza memoria non si riparte. Le pratiche dovranno necessariamente essere diverse: ma vanno almeno conosciute, è questo il punto che mi sta a cuore.
amo molto questo racconto di buone pratiche perchè credo di averle proprio dentro l’anima; condivido anche l’analisi sulle diverse epoche (con infinita tristezza).
Per quanto riguarda la memoria, la trasmissione, le fondamenta sulle quali possano costruire le nuove generazioni, ho una domanda antica per tutti noi: cos’è la memoria? basta radunare (come diceva Ungaretti) “i mille pezzettini di ogni uomo” per rendere il senso a generazioni nate “senza” determinate cose e “con” determinate altre?
Io trovo che in Italia la memoria si cancelli metodicamente quando si spazza via il passato per costruire il nuovo. In Italia non si stratifica più da troppi anni. Tutto quello che è precedente, viene ricoperto da quintali di biacca per dare la sensazione che tutto sia nuovo. Succede nelle ristrutturazioni degli edifici, ma anche in quelle delle motivazioni, dei saperi, dei diversi modi di sentire.
Ogni volta è come se dovessimo ricominciare da capo. Altrove non è così. Ma, senza scomodare le storie degli allievi che uccidono i maestri, la vita è ovunque una sovrapposizione. Altrimenti che senso avrebbe lo scrivere, il raccontare?
Forse il problema sta nel capire qual è “la memoria giusta”, quella da trasmettere, compito assai arduo.
mi domando cosa resta sul campo di battaglia della nostra storia dopo lo scontro tra ideologie (ora si dice non esistano più e pare sia un bene)? che società sognavano i miei genitori comunisti trentenni nella milano degli anni ’60-’70? cosa resta dei loro sogni? delle loro idee? delle centinaia di cortei, scioperi e manifestazioni a cui parteciparono? a me personalmente rimane una piccola semplice lezione “Non lasciare mai che qualcuno sfrutti la tua rabbia per i suoi scopi.”
a tutto il resto della mia generazione, precaria a vita, solo tanta, troppa, frustrazione e l’impermeabilità a qualsiasi tipo di narrazione. purtroppo.
O forse la troppa permeabilità? Non è semplicissimo difendersi dalle narrazioni dominanti: bisogna avere gli strumenti per farlo. Vengono forniti, questi strumenti? Come si decifra il “mainstream” che dilaga anche nella rete? Ecco, penso che occorra provare a partire da qui…
potrebbe essere anche che i ragazzi, ma tutti noi in generale non siamo più abituati ai pensieri complessi e concatenati? per attuare un boicottaggio occorre capire il rapporto fra le cause e le conseguenze di un fenomeno, occorre studiare, capire, ragionare.
per spaccare una vetrina ci vogliono due secondi e diventi un idolo per cinque minuti.
in politica sono i primi a dare l’esempio: pare che paghi di più ripetere uno slogan vuoto e violento mille volte che mettersi lì a ragionare con calma.
roma? ladrona.
gli scienziati? vogliono sostituirsi a dio
e via dicendo.
di questo passo avremo una società nella quale il sentire comune farà pensare che in italia hanno governato i comunisti negli ultimi cinquant’anni, che gli albanesi stuprano le donne, i musulmani sono terroristi e le donne sono buone o per il letto o per l’acquaio…
Post prezioso.
@loredana forse hai ragione tu siamo talmente colmi delle narrazioni dominanti, siamo continuamente circondati da messaggi subliminali e bisogni indotti e non abbiamo gli strumenti necessari per codificarli, non abbiamo le chiavi per aprire le gabbie (anche quelle che stanno nella nostra testa come la pigrizia o il conformismo) e ci sembra sufficiente sfogare la nostra rabbia indistintamente verso coloro che secondo noi detengono le chiavi, coloro che creano le narrazioni dominati, coloro che piegano i nostri desideri e i nostri bisogni. come se questo potesse bastare.
oppure adattarsi perfettamente alla narrazione dominante, diventarne parte e trarne il massimo vantaggio, finché dura però…
Il problema è che i giovani non vedono uno spiraglio di futuro nemmeno a cercarlo bene bene. L’impotenza è il motore della rabbia e in taluni casi della rivolta violenta. Altri giovani invece vivono l’impotenza come Cioni Mario in Berlinguer ti voglio bene: bestemmie, parolacce, speranze in entità astratte, ma poi quando “ti trombano la mamma” sotto i tuoi occhi non sai come reagire.
Stanno rendendo impotente una generazione intera.
E almeno Cioni Mario aveva un lavoro.
Non che la narrazioni costituiscano la salvezza: ho citato il caso dell’isola dei cassintegrati, e gli stessi autori di “Asinara revolution” sono perfettamente consapevoli che l’iniziativa, che ha sfondato il muro dei media “mainstream” (diciamo così), non ha però portato alla soluzione del problema concreto. Una narrazione aiuta ma non risolve, ecco. Però, continuo a trovarla indispensabile: perchè la riduzione al semplice, cui stiamo assistendo anche nelle discussioni post-15 ottobre, è la gabbia in cui ci muoviamo oggi.
Il problema delle chiavi, posto da Laura, è enorme. Perchè un bel pezzo della generazione che doveva trasmettere anzitutto sapere, e poi prospettive, si è fatta allegramente i fatti propri. Alcuni sono morti, altri hanno semplicemente dimenticato, altri ancora tentano di resistere. Ma a livello generale ha ragione Gaber: “la mia generazione ha perso”. Il punto è far sì che non perda quella dei figli e dei fratelli e sorelle minori.
Intellettuali razza cannata! Prima ti dicono che fanno la prima cosa che gli è venuta in mente, poi ti spiegano che per fare una vera scelta bisogna conoscere le strade che si hanno davanti. Grazie, so sbagliare da solo. Serve coraggio, autostima, fiducia (quella vera) nel futuro, motivazioni. Serve sapere che è possibile sbagliare se poi si sanno riconoscere i propri errori, serve giustizia, onestà, fiducia e soprattutto qualcuno che la racconti non importa se in un blog o intorno al fuoco. E se questo fuoco è quello di una Marcedes è solo perchè gli alberi servono a tutti.
http://www.youtube.com/watch?v=aKHmos-tsU0&ob=av2n
Falqui, da “razza cannata” ti ringrazio per il video: Aretha che canta “Let’s have some culture” è impagabile! 🙂
Gran bel post, ma incompleto: portando solo alcuni esempi ci si dimentica tutta una serie di casi in cui è andata in tutt’altro modo. Ci si dimentica della rivoluzione americana, che fu una vera e propria guerra, e di quella francese, in cui tagliarono la testa al Re, e fecero bene; ci si dimentica che fare la nonviolenza è semplice contro gli inglesi degli anni ’40, “belle anime”, meno contro gli Zar della Russia per-sovietica (o contro i francesi, vedi Algeria).
Non dovremmo dimenticare i tanti casi casi in cui la non-violenza ha portato indubbi vantaggi e successi – e non dovremmo però farne un’ideologia monca, dimenticando che, come tutte le strategie, dipende dalla situazione e da chi si ha di fronte, e che, in altri casi, la violenza è stata molto più utile.
Altrimenti, secondo me, ricordare questi esempi serve solo a sentirci più buoni, indipendentemente dal fatto se sia utile o no per uscire da questo casino.
Clà, ma quella è la narrazione più nota. E, come detto, non è affatto un invito a riproporre, tal quali e qui e ora, quelle pratiche. Ma a sapere che esistono (e non è una questione di bontà: le pratiche nonviolente sono tutt’altro che buoniste. Anzi).
Sarebbe già un successo far nascere nei giovani la curiosità di conoscere e capire, la voglia di analizzare anche le narrazioni più note per sentirne le voci in sottofondo, che non significa fare sempre della dietrologia o fomentare le teorie dei complottisti e certo neppure confondere la non-violenza con il buonismo perché come si dice “l’importante non è sembrare buoni ma fare il bene”. possibilmente il bene comune.
Oh, infatti! Il discorso sul bene comune è quello che dovrebbe, secondo me, spezzare la dicotomia violenza/nonviolenza. Non era quello il senso del post (noi buoni-voi cattivi): era ed è il tentativo di inserire un’altra narrazione sul piatto (senza filo di perle) 🙂
E’ giusto ricordare che le opzioni sono molte, che le pratiche di lotta mutano a seconda dei contesti storici e politici. Giusto ribadire che si tratta di scelte e che in base alla scelta che si fa si deve sempre cercare il massimo livello di consapevolezza per il massimo numero di persone.
Tuttavia non vorrei che tutto questo concentrarsi sulle pratiche finisse anch’esso per andare a colmare il vuoto lasciato dalla politica. E’ quello a cui abbiamo assistito in questi giorni. Perché purtroppo enunciare che ci si è uniti per l’alternativa non significa già rappresentarla concretamente questa alternativa, ma tutt’al più evocarla. Però è ancora poco: resta tutto da dimostrare che si sia davvero altro dal dato e che si sia in grado di impostare un’azione politica. Ricordavo insieme a un paio di amici proprio ieri che negli anni Novanta l’alternativa era ben più tangibile: esisteva un cultura alternativa che ruotava intorno ai centri sociali e insieme al conflitto produceva musica, cinema, teatro, autoproduzioni editoriali, etc. Oggi la situazione mi pare diversa, com’è inevitabile che sia, dati i tempi. In questo senso quoto l’intervento conciso di corpo10 qua sopra. Ci sono più frustrazione e disperazione diffuse… e va a finire che chi di questi sentimenti fa bandiera diventa più attrattivo di quanto immaginiamo.
Perfettamente d’accordo: come si fa a restituire attrattiva all’azione politica, dunque? Perchè il punto mi pare questo. Qualche post fa, a caldo, condividevamo l’angoscia perchè narrazioni e rete non riuscivano a infrangere questa barriera (e l’esperienza dei cassintegrati dell’Asinara, in parte, lo conferma). Eppure, da qualche parte occorre cominciare.
Loredana ti volevo segnalare che un libro sui Cassaintergrati dell’Asinara e sulla loro lotta c’era già ed è questo: http://www.agenziakalama.it/news/100giorni.html. I proventi sono già andati in beneficenza.
E sicuramente è un ottimo libro. In questo caso, però, mi riferivo all’esperimento mediatico de L’isola dei cassintegrati, come ragionamento su forme di protesta e rappresentazione della medesima. Grazie, comunque, per aver segnalato il testo.
bah, mi lascia perplesso il riferimento ai “ragazzi intorno ai 20 anni”, che purtroppo è l’incipit del post… (Chiacchierando con un gruppo di ragazze e ragazzi intorno ai vent’anni, di questi tempi, capita di sentirsi dire).
semplicistico il discorso! 😉
come se io dicessi Chiacchierando con un gruppo di donne intorno ai 50 anni, di questi tempi, capita di sentirsi dire:
Forse avrei dovuto dire: “mi è capitato, giusto sabato, di parlare con…”. E’ quanto è effettivamente avvenuto, peraltro.