WINTER IS COMING

Girolamo De Michele su Il Manifesto.

Provo a buttar giù alcune note, nella condizione di parziale autocensura cui si è costretti per solidarietà, o come riflesso delle altrui ipocrisie: un dispositivo di assoggettamento che pesa tanto quanto la “delazione partecipata”, e forse più.
La prima è sulla “sbalorditiva” prima pagina del manifesto del 16/10: titolo, editoriale e foto. Che dicono qual è lo scenario di scontro generalizzato e incontrollato che ci aspetta se la lettera della Bce dovesse trovare ascolto in Italia. La “lettera alla Bce” spedita il 15/10 pone due domande: sul corteo – perché chi contesta la dittatura della finanza accetta di esprimersi all’interno dei vincoli del sistema che contesta?; e sugli scontri – è davvero negli interessi del movimento questa modalità di contestazione?

Sulla gestione del corteo ha pesato il tentativo di egemonia esercitato da “Uniti per l’Alternativa”, che ha cercato di sovradeterminare un movimento ancora nascente senza averne la capacità organizzativa e programmatica. L’egemonia è un progetto politico che assorbe e incanala le potenzialità plurali. A fronte della radicalità della crisi, quali risposte, quali parole d’ordine erano proposte? L’indignazione di massa l’ha auspicata a “Matrix” Paolo Bonolis. La dittatura della finanza che uccide i diritti la denuncia Cirino Pomicino. No alla Bce, a Draghi, a Trichet lo stanno dicendo i duri del liberismo governativo, da Martino a Straquadanio. Davanti all’assenza percepita di futuro non basta dire “NO Bce”, se non si assume in concreto la proposta di praticare il diritto all’insolvenza da parte di uno Stato o un ente locale. Se questa proposta viene taciuta per giochi di mediazione politica, resta solo l’illusione che lo strapotere della finanza si combatta spaccando i vetri della Goldman Sachs. Non si evocano i simboli invano, e non si trasformano le cose in simboli, perché i simboli hanno il malvezzo di prender vita autonoma – e chi fa ricerca filosofica dovrebbe saperlo. Hic Rodhus, hic salta.
Sugli scontri: a cosa fanno segno? Il 14 dicembre scorso ci ha mostrato la novità dal “pischello riottoso”, soggetto del tutto nuovo, sfuggente, irrappresentabile: rieccolo, sotto altre forme. Qualunque forma organizzativa abbia assunto, questo pischello parla di una rabbia, di una violenza, di una criticità (nel senso letterale del termine: del punto prossimo di deflagrazione) diffusa, che è destinata ad aumentare. Eccede un movimento che non coincide con la somma delle sue componenti organizzate. Si manifesta in forme politiche di mera reattività, resistenziali? È passibile di “delirio soggettivistico”? Vero. Ma è il sintomo di una malattia, e il movimento (scrive Bifo) non è un prete né un giudice: è un medico che non giudica la malattia, la cura. Decidere che la malattia non esiste decretandola “estranea” o “fascista” è facile. Che sia anche utile, è tutto da dimostrare. Utile sarebbe invece domandarsi, come fanno i Wu Ming, perché a questa generazione non abbiamo saputo diffondere una visione più articolata e strategica dello scontro sociale. Per parte di questi ragazzi la lotta è solo scontro. Il conflitto è vissuto con modalità da stadio (e qui bisognerebbe riprendere le ricerche di Valerio Marchi sul mondo ultras): quindi lotta fisica, tattica, armamenti, velocità, mordi-e-fuggi. Se porti a casa la pelle hai vinto: fine della storia. È il problema di un filo tra generazioni che si è interrotto, e ha interrotto la trasmissione dei saperi parziali, di classe: delle pratiche di lotta, in una parola. Non basterà il lavoro di una generazione a ricucirlo, questo filo: ma è necessario cominciare.
Come? In primo luogo, sarebbe bene chiudere con i Grandi Eventi Epocali e con i “palazzi del potere” come obiettivo finale: che i movimenti vengano liberati dalla necessità di “andare a Roma” e di assoggettarsi a pratiche e mediazioni i cui esiti sono noti in partenza. E ragionare sull’esaurimento della forma-corteo. Serve un’autocritica radicale, da parte di tutti: che le organizzazioni politiche si mettano al servizio – nei termini di agenzie di servizio ed elaborazione – dei movimenti, delle piazze davvero plurali nei tempi, nei luoghi e nei modi. Che la malmasticata nozione di egemonia non sia più declinata in termini di sovradeterminazione delle pratiche altrui. Ci sono ampi spazi politici che si aprono tra la politica delle mediazioni e il culto del riot: bisogna agirvi dentro, prima che queste praterie si trasformino in deserti. Perché quando il deserto crescerà, servirà a poco maledire chi favorisce i deserti. È prossima l’edizione italiana della serie “Game of Thrones”, tratta della saga di G.R.R. Martin: suggerirei di studiarne le dinamiche che portano i soggetti alla catastrofe senza rendersene conto. Come dicono laggiù, a Winterfell: Winter in coming.

46 pensieri su “WINTER IS COMING

  1. il diritto all’insolvenza è una cazzata in termini. Se hai soldi riesci a pagare i debiti, se non ce li hai non li paghi, ma chiamarlo diritto, è troppo.

  2. E i debiti che altri hanno fatto per conto tuo, senza dirti una sega? Per quelli c’è il diritto all’insolvenza, c’è eccome.

  3. In poche righe, Girolamo De Michele è riuscito a fissare alcuni punti importanti. In particolare, mi convince la necessità di agire nello spazio compreso tra “la politica delle mediazioni e il culto del riot”. Farlo, per di più, senza accodarsi agli squallidi inviti alla delazione o alla criminalizzazione dei “violenti”, è un merito di non poco conto. Io sono convinto che il 15 ottobre ci offra una grande opportunità; proprio per le contraddizioni che ha evidenziato, ci costringe, se davvero vogliamo che le cose cambino, a porre sul tavolo “contenuti radicali” cercando le forme adatte per ottenere un consenso il più largo possibile. Se non saremo in grado di andare in questa direzione, allora vince la BCE.
    Nevio Gàmbula

  4. Questo pezzo è la riduzione in 4800 battute del mio post su Giap.
    Sul diritto all’insolvenza (o al default), se interessa, rimando a un pezzo pubblicato su carmilla ad agosto, qui, e soprattutto alla partecipazione di Andrea Fumagalli a questa puntata de L’infedele (i primi 20 minuti circa).

  5. Il diritto all’insolvenza lo applichi se sei fallito, se l’Argentina o la Grecia tra un mese. Se sei l’Italia che ancora non è fallita, devi ancora ragionare di ricontrattazione unilaterale del debito e di metodi per stabilizzare il debito, altrimenti, come segnalava qualche giorno fa Vladimiro Giacchè vai a fottere per primi i piccoli risparmiatori (http://www.ilfattoquotidiano.it/2011/10/14/indignati-si-violenti-no/163759/). Inoltre, l’idea che l’intero debito si stato fatto “senza dire niente a nessuno” (ma se sono dieci anni che non si parla d’altro?!) è pericolosissimamente simile alle teorie signoraggiste.

  6. Solo per la precisione: tutti i testi seri che ho letto sul “diritto all’insolvenza” parlavano di diversi passaggi concretamente articolati e dicevano chiaramente che consiste nel ricontrattare politicamente il debito. Pure nel testo linkato nel commento di Girolamo, c’è scritto:

    “Un governo degno di questo nome – un governo che esercitasse quella “primazia della politica” con la quale Monti fa i gargarismi – dovrebbe (magari di concerto con la Spagna, che è nelle stesse condizioni dell’Italia) porsi nei confronti dei creditori, che giocano in borsa sul rischio del default al mattino, e al pomeriggio invocano politiche che scongiurino il default, in modo molto duro: o il default unilaterale dell’Italia e della Spagna (come ha già fatto l’Islanda; come ha fatto dieci anni fa l’Argentina), o il dimezzamento del debito, e dei conseguenti tassi di interesse, attraverso la conversione dei titoli pubblici – a partire dai derivati – in titoli emessi dalla Banca Centrale Europea e garantiti da un tasso d’interesse fissato a livello politico. Italia e Spagna, a differenza della Grecia e dell’Islanda, sono too big to fail, troppo grandi per fallire: questa estrema debolezza è la vera forza dei due paesi.”

    Insomma, si può essere o meno d’accordo, ma prima di scattare puntando alla giugulare ripetendo i clichés sui movimentisti “disinformati” (Fumagalli, Marazzi e Graeber sono disinformati??), diamoci almeno il tempo di leggere.

  7. @Wu Ming 1: Hai ragione a dire che non bisogna cadere nel frame “manifestano senza sapere perchè”, chi è sceso in piazza è più consapevole di chi dice “se lo dice l’Europa bisogna farlo”.
    E mi scuso se sono andato così, tagliando con l’accetta, è che anche un vago odore di signoraggismo è troppo. Per un movimento che deve avere a che fare con i meccanismi della finanza “infiltrazioni” di questo tipo sono letali, molto peggio di qualsiasi giornata di riot
    Però, il movimento italiano sta prendendo a prestito una serie di parole d’ordine giustissime a livello generale, ma che nel particolare italiano rischiano di portare fuoristrada. Per esempio, il debito da salvataggio delle banche in Italia non esiste, semplicemente perchè l’unica banca italiana che s’è dovuta salvare (Unicredit) è stata ricapitalizzata coi soldi libici (quando Gheddafi non era un tiranno da far linciare ai jihadisti…). In Italia avrebbe molto più senso parlare dei finanziamenti a fondo perduto che vanno alle imprese, dei meccanismi di vendita dei bond italiani, di spese militari, forse anche della riserva aurea…
    Per quanto riguarda Marazzi e Fumagalli, il problema è che stanno dentro a quelle contraddizioni che vengono rilevate da Brancaccio. Siamo, come dice Marazzi, in una forma inedita di accumulazione in cui la finanziarizzazione è un processo irreversibile, lo stato è esautorato di ogni potere e, in ultima analisi, bisogna agire fuori dall’idea di prendere lo stato? Se si, chi ricontratta il debito, o addirittura gestisce il default?
    Oppure siamo alla fine di una belle epoque finanziaria, come ce ne sono state altre, e ha ancora senso parlare di prendere lo stato, o come dice Brancaccio, prenderci la Germania?
    A me sembra che parole d’ordine semplicistiche e velleitarie siano un modo di non far affrontare al movimento queste contraddizioni. E, lo sottolineo, è una critica interna al movimento.

  8. Dimenticanza: l’odore di signoraggismo non l’ho sentito nell’intervento di Girolamo Di Michele, ma nella risposta di Anto (per non parlare dei commenti al link dell’articolo di Giacchè, ma è un altro sito e un’altra storia…)

  9. @ Paolo
    ah, ecco, mi pareva, perché io continuavo ad annusare l’intervento di Girolamo, il testo che aveva linkato e la comparsata televisiva di Fumagalli, e di tanfo di “signoraggismo” non ne sentivo 🙂 La contraddizione che rilevi (sul posto che ha lo stato nel “post-operaismo”) non è una questione di poco conto, anzi, ed è dibattuta troppo poco. E’ lo stesso problema che si presenta con la parola d’ordine del “reddito di cittadinanza”. Poiché molti che la propongono sono gli stessi che accusano di “sovranismo retrogrado” chiunque pensi sia ancora importante difendere il welfare, la domanda: “ma allora chi lo eroga, il reddito di cittadinanza?” è pertinente, e io ammetto di non avere ancora letto risposte che mi convincessero: si va da chi, in camera charitatis, dice che la parola d’ordine ha solo un valore “d’agitazione” (ma non mi sembra che, in vent’anni, si sia dimostrata così utile a tale bisogna) a chi si lancia in discorsi molto vaghi sul “Comune” che non è pubblico né privato. Chissà, forse tali discorsi si preciseranno col tempo, e grazie alle prassi di lotta reali. Ma per il momento, io riscontro un’aporia.
    Solo che il “diritto all’insolvenza” non è strettamente associato al “post-operaismo”, eh. Altrimenti sarebbero post-operaisti tutti gli islandesi, chi scende in piazza in Grecia, i protagonisti dell’Argentinazo del 2001 etc.

  10. Solo per precisare, perché mi interessa davvero che si discuta e si legga – e magari si faccia ricerca e conricerca sull’argomento.
    Il debito pubblico italiano (nel testo su carmilla cito un rapporto della Banca d’Italia, che vorrei fosse tenuto presente) è solo per 11.42% in mano a famiglie e società non finanziarie (tra cui ci sino i “piccoli risparmiatori), e per il 4.29% nelle casse della Banca d’Italia: una politica che governi il default può tutelare questo 15% e agire sul restante 85%. Quando De Bortoli ribatte a Fumagalli citando il default dell’Argentina (nella puntata de L’infedele), dice una falsità: non il fallimento dei bond argentini ha rovinato i piccoli risparmiatori italiani, ma la compiacenza dei governi e dei legislatori italiani (ma io ci metto anche la magistratura, nell’ipotesi che si trattasse di circonvenzione d’incapace, il che è reato) ha consentito alle banche di scaricare il fallimento sui risparmiatori.
    Il “signoraggio”, annessi e connessi, non mi appartiene, non mi convince, e non l’ho mai citato, né l’ho visto citato negli economisti che seguo.
    Il “diritto al default” è teorizzato anche in area post-operaista, ma non ha un imprimatur (nella stessa area ci sono anche tifosi della Sampdoria, ma con la vendita di Cassano al Milan Toni Negri non c’entra :-P). Se proprio si vuole costruire un’ascendenza, bisognerebbe partire dalle ricerche – in chiave di critica dell’economia politica, quindi con un certo grado di tecnicità – di Vercellone (un’indicazione di partenza può essere questa), che si incrocia da un certo momento in poi con i lavori di Christian Marazzi e di alcuni economisti francesi, tra i quali – con le adeguate sottolineature e differenze – André Orlean (che io seguivo già ai tempi in cui mi occupavo di René Girard). Poi, che l’area di Uninomade abbia posto l’accento e il fuoco delle analisi sul debito pubblico da un bel po’, è di sicuro un’eredità teorica dell’operaismo e degli anni Settanta, quando si partiva, nelle analisi, dalla crisi del welfare, dalla nozione di stato-crisi, dalla crisi della legge del valore, e via dicendo: segno (secondo me) che il mantra de “Gli anni Settanta sono finiti! Fi-ni-ti!” non funziona.

  11. @Girolamo
    Si, la risposta di De Bortoli è semplicemente una risposta del menga.
    L’obiezione mia però è un’altra: non c’è lo strumento giuridico per decidere di pagare lo stesso tipo di obbligazione alle famiglie e non alle società finanziarie. Bisognerebbe incrociare tipologie e detentori per sapere dove si mettono le mani.
    Fra l’altro la quota di debito pubblico in mano ai cittadini italiani è più alta di quella che calcoli nell’articolo su Carmilla, perchè bisogna includere anche il debito comprato tramite intermediazione.
    Comunque, chiedo ancora scusa se è sembrato che accusassi te di signoraggismo.
    Grazie per le indicazioni bibliografiche, il lavoro di Orlean non lo conoscevo.

  12. La cosa di cui sento più la mancanza, proprio io come persona prima ancora che come eventuale organizzatore di richieste-proteste, è una narrazione condivisa non tanto sull’analisi della crisi ma sulle modalità di approccio a un sistema (quello bancario) che è veramente esoterico.
    Per esempio chiedere che la capitalizzazione degli istituti di credito avvenga in grandissima parte coi soldi degli azionisti anzichè con quelli dei governi (che poi la fanno pagare al welfare) non è un’alternativa a un’opzione controversa come il default “controllato”?

  13. @ Paolo
    Quello che dici richiama l’esigenza che sia “la politica”, come si dice oggi, a guidare l’economia agendo in modo selettivo, in base a criteri di rilevanza sociale. L’alternativa è far decidere “al mercato”: come in Grecia. In fondo, diciamo la stessa cosa. Il problema è che non la dice nessuno di quelli che si candidano alla guida del prossimo governo.
    @ Valter
    Mi sembra (non sono un economista, sono solo uno che cerca di capirla, l’economia) che sul “manifesto” di oggi [che quindi sarà leggibile on line per i non abbonati da martedì mattina], pag. 2, Joseph Halevi dica qualcosa di analogo a quello che paventi tu, a proposito dei fondi salva-stati e delle operazioni di salvataggio delle banche statunitensi.

  14. Mi associo alla richiesta di Valter Binaghi. Secondo me le realtà di movimento dovrebbero autorganizzare dei corsi di economia, cioè dei seminari di alfabetizzazione economica che aiutino a riempire di senso e di contenuti gli slogan. Io li frequenterei.

  15. @ Paolo e WM1
    Dimenticavo: la critica di Brancaccio. Purtroppo Brancaccio, com’è maledetto costume, non fa un nome che sia uno. Se allude a Marazzi e Fumagalli (alcuni la leggono così), attribuisce loro parole che da loro non sono state dette. Per quel che mi riguarda (e non credo di essere il solo), il diritto al default richiama la necessità di una politica, e dunque di un ruolo dei governi nazionali. Che può essere svolto secondo la cosiddetta “autonomia del politico” (che in realtà rende la funzione politica prona ad interessi finanziari il più delle volte sovranazionali), o a partire da movimenti reali che impongano una direzione politica ai governi.
    Il superamento dell’antinomia tra privato e pubblico (nel senso di: Stato ed enti locali) in nome di un “comune” (cioè del “common” del commonwealth: in inglese il termine ha una sua cogenza semantica, in italiano mi sa meno) è, allo stato attuale, embrionale, e spesso articolata in modo fumoso o sloganistico. Io lo articolerei (è una linea di ricerca che sto seguendo a partire dalla riforma della pubblica amministrazione e del titolo V della Costituzione) attraverso la determinazione di un interesse comune come interesse prevalente o inglobante (il cerchio con la maggiore estensione) rispetto agli interessi parziali. Un amico avvocato mi ha suggerito l’esempio del diritto condominiale, le cui aporie – lui si è specializzato nelle cause sull’installazione degli ascensori, con relativi veti individuali – sarebbero superabili se l’interesse comune non venisse pensato come frazionabile. per inciso, mi sembra una cosa molto vicina al concetto cinese di diritto (dall’I-Ching a Mao, per farla semplice). Ma concordo con te – non credo fosse una battuta retorica – sulla necessità (e l’inevitabilità: mica queste cose si risolvono scrivendo libri) che siano le lotte reali a superare le aporie e a determinare obiettivi praticabili.

  16. @ Valter Binaghi: secondo me, bisognerebbe rilanciare nel senso contrario. Lo stato deve capitalizzare una banca? Bene, lo stato è azionista e si comporta come tale, con dividendi e voti in cd’a. Non a caso, uno degli obiettivi delle politiche euroliberiste per l’Italia è la privatizzazione delle poste, che sono di fatto l’ultima “banca pubblica” italiana.
    @ Girolamo: sulla necessità da parte della politica di operare la distinzione su chi pagare e chi no, credo che in questa discussione si sia tutti d’accordo. Però anche nel caso del default argentino entro certi limiti s’è dovuto colpire il debito delle famiglie e blandire il debito verso l’FMI. S’è potuta fare una politica più giusta verso le famiglie quando a sostenere i nuovo bond argentini è arrivato Chavez. Secondo me, i rilievi posti da Giacchè e Brancaccio, oltre al polemismo, hanno il senso di non correre in quella direzione, se prima non ci sono altre strade percorribili, come quella della Lettera degli Economisti (http://www.letteradeglieconomisti.it/) o degli Economistes Atteres francesi (http://old.atterres.org)

  17. Girolamo, “se l’interesse comune non venisse pensato come frazionabile” si potrebbero risolvere i problemi della maggioranza delle persone, ma la frazionabilità è una condizione necessaria a mantenere dominanti gli interessi di pochi sulle spalle di molti. E questa condizione si facilita, anche, attraverso l’antinomia, imposta dagli attuali governanti, tra un pubblico inefficiente e sprecone e un privato efficiente e accorto. Il superamento pro/im/posto di questa antinomia sta nella privatizzazione di tutto il privatizzabile.
    Il superamento”buono” in nome di un “comune” alla “common”, sarà in embrione, ma, anche in Italia?
    L’italia che conosco è un condominio di 100 piani che ha lasciato arrugginire l’ascensore perché i signori del pian terreno hanno convinto un terzo dei condòmini a farne a meno.

  18. Aggiungerei una cosa impopolare ma che va detta.
    La finanza drogata, o meglio i prodotti finanziari “tossici”, erano l’offerta proporzionata a un cliente che, da un certo momento in poi, ha smesso di essere un risparmiatore e ha manifestato propensioni sempre più evidenti alla speculazione. A parte l’ovvia considerazione che l’una cosa incentiva e alimenta l’altra, bisogna considerare la “svolta antropologica” che questo mutamento rende manifesto. Io di solito finisco col litigare a sinistra quando dico che la mitologia del “desiderio”, propugnata dalle ideologie degli anni Sessanta e Settanta ha avuto un ruolo importante in questo, anche se in fin dei conti è stata pura e semplice sincronia, dove noi ragazzotti abbiamo recitato la parte dell’utile idiota, quindi inutile spargersi il capo di cenere.
    Però, una parte importante di quello che si dovrà fare, è tradurre in termini antropologici e di relazioni umane quello che oggi in economia si declina in termini di ecologia e di sostenibilità. Ecco, io che di economia capisco poco, direi che questa è la piccola battaglia su cui credo di avere voce in capitolo. Una narrazione dell’incarnazione e della finitezza, dopo il delirio di onnipotenza dell'”immaginazione al potere”.

  19. @ valter binaghi
    Ma non è che le cose sono bianche o nere, appunto. La “mitologia del desiderio”, come la chiami tu, ha avuto un ruolo di rottura antropologica che in una certa fase evidentemente serviva a liberare delle energie sociali e psichiche compresse. Come dice Bifo stesso – che non pensa più le stesse cose di trentacinque anni fa, ovviamente – il “desiderio” è stato pure recuperato e messo al lavoro nel consumismo, in uno stadio più avanzato dello sviluppo (si fa per dire) capitalistico, diventando perfino fattore di ulteriore alienazione: http://www.youtube.com/watch?v=sYxWCdoGeRQ
    Dopodiché è evidente che, come dici, “una parte importante di quello che si dovrà fare, è tradurre in termini antropologici e di relazioni umane quello che oggi in economia si declina in termini di ecologia e di sostenibilità”. E però accanto a questo lavoro sul sé e sulle relazioni (rispetto al quale non mi azzardo a fare riferimenti a Foucault, perché ne so troppo poco e perché so che inizieresti a sbraitare) puoi stare certo che c’è un’intera generazione che si trova di fronte il problema delle forme del politico, la crisi di ogni rappresentanza prima ancora che della sovranità. E’ un problema che oggi potrebbe apparire perfino insormontabile, e di conseguenza produrre rifiuto, ricerca della marginalità, ripiego nel pre-politico, neo-luddismo autoreferenziale (ché quello storico gettò le basi per le trade unions…). Sarà anche difficile, ma proviamo a metterci nei panni di un ventenne di oggi…
    Per questo non è possibile capitalizzare, egemonizzare, rappresentare, questa realtà – come pretenderebbe di fare qualcuno stabilendo i confini di una santa alleanza precaria – senza avere fatto quel lavoro che tu stesso auspichi, e che richiede tempo, un tempo qualitativamente diverso. Forse è proprio quello che, con tutti i limiti e l’ingenuità, hanno intuito gli accampati spagnoli.

  20. L’ “ideologia del desiderio” probabilmente ha avuto un ruolo ma senza l’ “ideologia welferista” poco avrebbe potuto (forse). Non sono state forse le banche “parastatali” di Fannie Mae e Freddie Mac ha imboccare per prime la “curva sbagliata” sospinte dalle strizzatine d’ occhio governative (se ci sono problemi ghe pensi mi) e seguite a ruota dal plotone delle altre banche? All’ ideologia suonava come musica il motto “una case per tutti”.

  21. Aggiungo un altro pezzetto delle mie considerazioni molto “naif”.
    Viaggiando per la provincia italiana (ieri ero tra Parma e Piacenza, spesso vado in Piemonte), mi capita spesso di vedere terre che un tempo furono coltura abbandonate, casolari in rovina, piccoli paesi collinari semi-deserti. E penso alla fame di futuro, di autonomia, di una sussistenza dignitosa di molti giovani nelle nostre città. Poi chiedo in giro e mi dicono che in certe zone economicamente depresse (ma paesaggisticamente splendide) qui gli inglesi, là i tedeschi si sono comprati per poco rustici e villaggi quasi interi.
    Il libro di Liberti (Land Grabbing) che Loredana ha proposto all’attenzione qualche giorno fa, l’ho ordinato in libreria, credo che abbia orizzonti ben più vasti (per esempio cosa sta accadendo a un intero continente come l’Africa) ma io da brava formichina penso sempre a questo nostro paese meraviglioso, i cui abitanti sono stati convinti a rinnegare comunanza e sussistenza in nome delle sirene dell’arrivismo e del consumismo metropolitano, e mi chiedo se l’intuizione delle Comuni agricole negli anni Settanta non fosse solo un po’ precoce e troppo ingenuamente praticata, ma da riprendere nei fondamenti.
    Comunque insieme all’acqua la terra, e insieme a quelle le fonti di energia rinnovabili, sono gli elementi di un reale e di un simbolico per i quali necessita una nuova pedagogia. Non da parte di chi ti illude alla ricchezza e poi ti rigetta nella penuria, ma di chi come noi non ha mai smesso di vedere nella comunanza l’autentica dimensione umana.

  22. Ai liberisti gli puoi sbattere in faccia la più cruda e brutale realtà dei fatti.
    Ma loro niente.
    C’è sempre troppo poco liberismo. Tranne quando c’è da ricapitalizzare.
    Per fortuna non sono ideologici.
    Se no ci imporrebbero di adorare le palle del toro.
    L.

  23. Arrivo buon ultimo e non ho il tempo materiale di leggere quanto è stato scritto da chi è intervenuto prima. Però, siccome scorrendo velocemente i commenti vedo proporsi con insistenza il concetto del “diritto all’insolvenza”, da addetto ai lavori vorrei dare un warning. Questo diritto è nient’altro che quello di non pagare i debiti, penso che almeno questo lo sappiamo tutti. E’ giusto? In alcune circostanze forse sì. Ma in queste? Il debito dello stato italiano è stato contratto in gran parte tra gli anni ’80 e ’90 per mantenere le clientele democristiane e socialiste ed elargire inutili posti di lavoro nella pubblica amministrazione. A prestare i soldi non sono state solo grandi banche d’affari, ma un po’ tutti noi: chiunque abbia dei BOT, dei CCT o altri titoli di stato. Non pagare vuol dire rovinare molta gente che ricca non è, tanto per cominciare. E anche nel caso in cui a detenere i titoli siano investitori di grandi dimensioni, è giusto non ripagare un fondo pensione? O anche una banca, se il fallimento di quella banca mette a sua volta a repentaglio il futuro (anche pensionistico) di molti piccoli risparmiatori (per non parlare di chi sta alla cassa o fa le pulizie)? Il fallimento di uno stato delle dimensioni di quello italiano equivarrebbe a far saltare il banco (cioè l’euro, e molto altro). Qualcuno di queste belle menti che lo propongono è in grado di prevederne le conseguenze? Potrebbero risorgere tendenze ipernazionlistiche (come dopo Weimar in Germania), rivendicazioni e nel medio periodo anche guerre, che l’intreccio di interessi creato dalla moneta unica e dall’Unione ha reso finora impossibili, dopo i massacri del ‘900.
    Certo, questo è solo uno degli aspetti del problema. Restano la dittatura della finanza, l’esclusione di una intera generazione e la sua legittima rabbia, con il corollario della reazione al sistema. Deve essere violenta o no? Secondo me no, non in termini fisici almeno. Quella del “sistema” è una violenza ormai estremamente raffinata, che sempre meno ha bisogno di ricorrere alla fisicità dello scontro. Volersi contrapporre su quel terreno è dare una risposta rozza e fatalmente inefficace in quanto prevista, gestita e resa funzionale. Può darsi, come suggerito nel post, che la stessa forma corteo sia ormai divenuta inadeguata, e che vadano pensate modalità di antagonismo nuove. Può darsi. Io penso che la frittata è ormai fatta, e non si possa rimettere il tuorlo nelle uova. Servirebbe – sarebbe servita, per non far accadere quanto sta accadendo – una consapevolezza civica e politica di massa in grado di condizionare gli sviluppi dell’entità europea e impedire l’affidamento ai mercati di un potere così grande. Questa consapevolezza non c’è stata e ora faremmo bene a diffidare di certi nostalgici della rivoluzione, se non vogliamo andare incontro a derive ben peggiori. Attenzione a toccare la moneta: lo scriveva già Lenin che è il modo più sicuro per espugnare la sovranità degli stati, e l’iperinflazione di Weimar con la conseguente deriva nazista l’ha dimostrato. Non dobbiamo credere che quella storia non possa ripetersi, in realtà non ci siamo mai vaccinati. No” alla lettera della BCE (che sì, va ben oltre quanto un’autorità tecnocratica può legittimamente chiedere a un governo eletto) lo potremo dire dopo aver messo in sicurezza i conti. Secondo le regole della BCE e delle autorità economiche in generale. Solo dopo potremo contestarle, perché farlo adesso equivarrebbe a condannarsi e non saremmo in grado di gestire le conseguenze sociali – blocco del sistema, povertà, disoccupazione di massa, rivolte – del default. Se ci salveremo, più che di esplosioni di rabbia avremo bisogno di ragionare, confrontarci, studiare, sperimentare con la massima partecipazione possibile. Smettere di delegare in bianco, come abbiamo fatto in massa quando le vacche sembravano grasse. Difficile a farsi in un paese rovinato da secoli di bigottismo e da tre decenni di imbonimento televisivo, con una scuola pubblica (consapevolmente) neutralizzata e diritti in fase di erosione. Ma non credo esistano alternative seriamente praticabili alla crescita di una coscienza condivisa dell’essere cittadini, prima che soggetti economici.

  24. Ragazzi, oltre alla questione complessa dell’economia e del default, sulla quale si dice di tutto e di più, anche se in buona fede e con buona volontà, la faccenda del “desiderio” (rif. gli antipischiatri degli anni 70, Deleuze, Guattari e anche Foucoault) è a sua volta un po’ più complessa (e profonda) di come la metti, caro Valter. Ho letto l’intervento di Bifo, dice (tagliando un po’ con l’accetta) che su questa tematica si è insinuato l’immaginario fasullo del nuovo capitalismo mediatico, per cui le istanze vengono di fatto divorate dalle capitalizzazioni dello stesso, con un sovraccarico di offerte e creazione di nuovo plusvalore; per questo quelle istanze andrebbero quanto meno aggiornate. Di nuovo tagliando con l’accetta, in quegli anni, con l’Antiedipo soprattutto, si vedeva nel desiderio una forma rivoluzionaria, perché macchina produttiva che partiva da una visione – materialistica – dell’incoscio, liberato dallo strapotere di Edipo. Ridurre tutto questo a un desiderio liberato di diventare tutti speculatori finanziari, è appunto una forma di riduzione comica di un lavoro di esplorazione e di sfida che certamente era molto poco metafisico, ma tutt’ora interessante. Per dire, sarebbe la stessa riduzione comica del periodo di liberazione sessuale degli anni 60, che riguardava i rapporti tra persone e tutti i vari problemi di castrazione e repressione, facendone la madre dell’attuale liberalizzazione della pornografia e dei “Bunga Bunga presidente”. Non è la stessa cosa perdio.

  25. @ Maurizio
    prescindo parzialmente dall’argomento che si sta discutendo, e mi concentro su un problema di metodo (da cui però spesso derivano errori nel *merito*): premesse come “non ho il tempo materiale di leggere quanto è stato scritto da chi è intervenuto prima, però, siccome scorrendo velocemente i commenti vedo…“, sinceramente in una discussione vorrei non vederle più. Non per la comprensibilissima mancanza di tempo, ché nella vita si lavora e non si può passare la giornata a leggere i blog, ma per il “però” e quel che segue. Facendo la “scansione rapida” di un testo e individuando a colpo d’occhio la ricorrenza di un termine, si è ancora molto, molto lontani dall’aver colto il senso di un discorso. Intervenendo subito, si rischia di dire cose già dette, fare obiezioni già fatte, e in generale inchiodare il discorso alle sue premesse. A me sembra che accada questo nella prima metà del tuo commento: la tua interpretazione del “diritto all’insolvenza” era già stata “contestata” (non in modo aggressivo, ma con link e riferimenti bibliografici, facendo notare che dietro lo slogan c’è una riflessione più articolata). Le conseguenti critiche al “diritto all’insolvenza” erano già oggetto di risposta e approfondimento. Non sono tenutario di questo blog, lo dico da commentatore: comprensibile l’impulso a dire la propria, ma cerchiamo di non intervenire in fretta. Anche perché qui sopra non ci sono 300 commenti, ce n’è una ventina. Non è un ginepraio, è una discussione appena iniziata e che finora si è svolta liscia, con commenti chiari e tutto sommato non chilometrici.

  26. @Baldrus
    Meno male che ci conosciamo, così lo sai che a questi livelli di banalizzazione non ci arrivo e non ci voglio arrivare. Mi limito a dire che, da un certo momento in poi, nel discorso della sinistra si è insinuata una specie di coazione al rilancio (cui fa da pendant un rifiuto sistematico del limite) che è quanto meno isomorfica al comandamento consumistico e speculativo del capitalismo avanzato. Prima ancora dell’AntiEdipo, se ci mettiamo a rileggere un testo come “Eros e civiltà” di Marcuse secondo me questa cosa si capisce bene. Comunque siamo qui per ri-prendere, non per negare tutto, perchè come scrive giustamente Girolamo “È il problema di un filo tra generazioni che si è interrotto, e ha interrotto la trasmissione dei saperi parziali, di classe: delle pratiche di lotta, in una parola”, e si tratta proprio di fare un po’ di storia dei movimenti, con sana autocritica ma storia, non rimozione.
    Durante il fascismo, Gramsci e Gobetti s’interrogarono sui limiti storici del Risorgimento (che spiegassero questa de-generazione italica) e qualcuno disse che erano anti-patriottici. Esplorare i limiti storici dei movimenti per ri-fondare una sinistra non significa essere reazionari.

  27. @Wu Ming 1: accetto il rimbrotto con riserva. Rileggendo con maggiore attenzione e seguendo i link proposti, non mi pare di aver detto cose già dette o non pertinenti. Forse interessano poco la maggior parte dei commentatori, che mi sembrano focalizzati su aspetti diversi dai risvolti tecnici. E comunque la lettura attenta di 24 commenti dettagliati e circostanziati non è esattamente una passeggiata per chi ha anche impegni diversi. L’alternativa è non intervenire e certamente la terrò presente in futuro. Non è infatti mia intenzione abusare dell’ospitalità né urtare sensibilità e suscettibilità di chi fa un mestiere diverso dal mio e può riscontrare infrazioni di etichetta laddove a me sembra (semplicisticamente, senz’altro) che un commento ritenuto poco interessante possa essere neutralizzato semplicemente interrompendone la lettura. Della lunghezza del commento invece mi scuso: ero partito per scrivere due righe e mi sono fatto prendere la mano per scarsa attitudine alla sintesi. Usando tempo che sì, avrei potuto impiegare per leggere quanto scritto dagli altri.

  28. Però, Maurizio: tu intervieni dicendo che «A prestare i soldi non sono state solo grandi banche d’affari, ma un po’ tutti noi: chiunque abbia dei BOT, dei CCT o altri titoli di stato. Non pagare vuol dire rovinare molta gente che ricca non è, tanto per cominciare». Ebbene, sia nel pezzo che ho scritto su carmilla, sia in altri interventi che linko, sia nella discussione di questo thread è stato chiarito che il debito pubblico va scomposto in modo controllato, per salvaguardare non solo i risparmiatori italiani, ma anche la Banca d’Italia. Perché lo sappiamo che ci sono i risparmiatori con i BOT e altri titoli di Stato. Insomma, io sono disposto a ripetere questo passaggio all’infinito – perché so, avendo visto De Bortoli, che è su questo che quelli come me saranno attaccati – ma non vorrei doverlo fare perché qualcuno entra in una discussione senza aver ben presente di cosa si discute. Anche perché c’è il rischio che altri, scorrendo alla svelta i testi, registrino della discussione il messaggio erroneo (che un post come il tuo può generare) che questa è una discussione astratta nella quale non si tiene conto dei piccoli risparmiatori italiani.
    Tutto qui.

  29. E hai ragione. Purtroppo io sconto un bias da addetto ai lavori, che mi fa dare per scontate cose che scontate non sono. Non lo erano nemmeno per me, finché non ho cominciato a vedere i meccanismi dall’interno. Nella fattispecie: segmentare i possessori dei titoli di stato non protegge chi – sempre piccoli risparmiatori, almeno in parte – ha in portafoglio i titoli obbligazionari emessi dalle banche o quote di fondi che includono emissioni bancarie. Queste persone verrebbero certamente colpite in modo molto, molto pesante dalla perdita di valore dei loro titoli. Le banche, infatti, non ripagate dallo stato, subirebbero perdite che si rifletterebbero su di loro. Ancora: uno i titoli di stato non necessariamente se li deve tenere fino a scadenza. Se ha un’emergenza è costretto a venderli, e nonostante un impegno selettivo dello stato a ripagarlo in quanto piccolo risparmiatore, non è realistico pensare che sul mercato i suoi titoli non si siano pesantemente svalutati. ti confesso che, avendo letto il tuo lungo e articolato intervento insieme agli altri commenti, ora ho in testa un gran minestrone e sì, potrei aver appena scritto cose che magari tu o qualcun altro avete affrontato senza che io me ne ricordi. Comunque la chiudo qui, questa non è una discussione tecnica e le tematiche trattate sono molto più ampie del default sì-default no. Io, nel caso non si fosse capito, sono per il default no. Ma, partendo da qui, penso che sia giusto e necessario parlare di molte altre cose, rispetto alle quali il debito è solo uno strumento.

  30. Visto che si vogliono colpire le banche, non è molto più semplice tassarle invece d’ infilarsi nel ginepraio del “diritto all’ insolvenza” selettivo?
    Naturalmente una tassazione è molto rischiosa se colpisce i profitti affondando una banca too big too fail destinata a morire come sansone con i filistei. Ma sistemi di tassazione anti ciclici esistono, come per esempio la tassazione dei cash vault. Oppure, in alternativa, la liquidazione coercitiva delle fondazioni bancarie.
    A chi si preoccupa invece del “desiderio” e dei “consumi sfrenati”, potrebbe piacere uno spostamento della tassazione dai redditi ai consumi. Ho l’ impressione che si ritroverà affiancato da compagnie poco gradite. 
    Mi chiedo poi se la rivendicazione del “diritto all’ insolvenza” sia seguito dall’ appello a “non indebitarsi più”. Ho i miei dubbi.

  31. @ broncobilly
    Mandiamo Frattini nel New Jersey con una cartella esattoriale a pretendere denaro dalla Goldman Sachs? Per favore… ammesso che sia ragionevole e fattibile, mettere una tassa su un creditore che a sua volta esige il saldo del debito non ti sembra ancor più ginepraioso? E finché il comando del debito rimarrà in mano alle grandi banche, non ti pare che ci metterebbero pochissimo a rifarsi della tassazione causando un aumento del tasso d’interesse?
    Quanto all’ultimo dubbio, un qualunque intervento di Guido Viale – negli ultimi tempi scrive spesso – ti confermerà che sì, chi chiede il diritto all’insolvenza, o quantomeno un diritto al default selettivo, ha ben presente che questa modalità (o altre) di riduzione del debito pubblico dovrebbe essere accompagnata da una diminuzione dei consumi. È persino strano che ti venga il dubbio…

  32. @broncobilly
    Dai, hai capito benissimo che il mio problema non è tassare i consumi ma educare a uno sviluppo e a un consumo sostenibile, che non sia fondato sull’indebitamento e sullo spreco. E’ così difficile pensare che oltre all’emergenza economica e alla repressione politica esista una “cultura”, una rappresentazione del valore che educa e quindi previene? Certo non sarà in nome di un libertarismo indiscriminato, ma di un idea di bene comune…

  33. @ broncobilly, girolamo
    Io credo che queste analisi, come spesso (sempre?) avviene in economia, siano fatte sugli aggregati e non tengano nella necessaria considerazione le legittime aspirazioni e le vite degli individui. A dirlo così, “riduzione dei consumi” può far pensare a concetti come quello di decrescita sostenibile, da molti giudicata desiderabile (non da me, non è questo il luogo per spiegare il perché). In realtà, nasconde una moltitudine di storie individuali che si risolvono complessivamente in un calo dei consumi, passando però per una gamma che va dall’arricchimento alla rovina più completa. Ora, pretendere che una crisi come quella attuale si possa risolvere senza che nessuno ci rimetta sarebbe una pia illusione; però il problema deve essere posto, se vogliamo che qualcuno se ne faccia carico per mitigarne l’impatto, purtroppo non eliminabile. Per il resto, sono d’accordo che nelle condizioni attuali la tassazione sulle banche è pensabile solo a livello globale, se non si vogliono creare squilibri competitivi che si risolverebbero con la semplice fuga delle banche verso i paesi più indulgenti, o con un ribaltamento della tassa sui consumatori. Però credo che questa sia una delle strade da percorrere, anche se il governo globale delle istituzioni finanziarie è purtroppo un traguardo ancora molto lontano. E dovremmo anche metterci d’accordo su come realizzarlo, se vogliamo che risponda a requisiti di democrazia partecipata su misura di tutti i cittadini, e non di un gruppo di oligarchi.

  34. @ Girolamo:
    Ah.
    Tu non paghi e basta.
    Non cerchi minimamente un modo alternativo per reperire le risorse che mancano.
    Bè, io lo chiamo fallimento. L’ uovo di colombo.
    Ma allora la Grecia sta meglio di noi – è più avanti – visto che al fallimento è più vicina di noi. Sembra quasi che si abbia fretta di arrivare prima di loro.
    Pensavo che il fallimento fosse il modo migliore per punire duramente il fallito (ovvero i cittadini del paese fallito). Non a caso è invocato da quella destra seguace del principio “chi rompe paga”.
    I creditori (tagliati e no) bloccheranno ogni investimento in Italia ritirando in tutta fretta investimenti e finanziamenti da un paese divenuto inaffidabile in modo conclamato.
    La disoccupazione dilaga, attività economiche e entrate tributarie crollano. Facciamo crollare anche la spesa pubblica licenziando metà dei dipendenti pubblici? Non parliamo poi delle famiglie e dei loro mutui.
    Inutile dire che nessuno finanzia i deficit di uno che autoproclama il diritto all’ insolvenza. Nel giro di qualche mese il vecchietto si vede arrivare metà della sua pensione.
    E non abbiamo nemmeno la moneta (il disastro argentino per lo meno poteva contare su quella) per rifugiarci in una dignitosa povertà autarchica.
    @ Walter:
    Ma certo che l’ ho capito. Mi chiedo solo che inconveniente rappresenti lo spostamento della tassazione sui consumi. Si farebbe solo un pezzo di strada insieme.
    Molti economisti ritengono, al di là dei fattori culturali, che la battaglia per lo status che si svolge nell’ ambito dei consumi costituisca uno spreco di risorse da limitare.

  35. @Broncobilly
    In assoluto non saprei (non ho elementi di macroeconomia per dirlo) ma in Italia attualmente lo spostamento della tassazione sui consumi mi sembra un modo in più per evitare una patrimoniale che invece farebbe pagare i costi della crisi a chi dell’economia delirante degli ultimi anni ha beneficiato.

  36. Strano tu possa simpatizzare per una patrimoniale: colpendo il risparmio costituisce un ulteriore incentivo ai consumi.
    Siccome noi possiamo solo o consumare o risparmiare, l’ introduzione di una patrimoniale rende conveniente mutare il proprio comportamento in senso consumistico
    Se la patrimoniale è seria trasforma una società da consumista a iperconsumista. Se non è seria… non serve.
    Per me ha anche altri inconvenienti, ma a questo penso tu debba essere sensibile.

  37. Risparmio? Mica delle nonnine, stiamo parlando.
    E le rendite finanziarie meno tassate d’europa?
    E i patrimoni immobiliari (sottratti anche all’ICI da questo governo dopo l’abolizione delle tasse d’eredità)?
    Qui si tratta innanzitutto di riequilibrare dopo lo scempio dell’età berlusconi, e poi di pensare a una riforma fiscale degna di questo nome sulla quale io per primo ammetto di non avere nessuna competenza in materia ma, broncobilly, tu ti esprimi come se questo fosse un paese normale, dove l’equità fiscale è l’obiettivo e la denuncia dei redditi è considerato un dovere civico da chi, non essendo lavoratore dipendente, non vi è costretto. Non mi pare che le cose stiano così.

  38. @ broncobilly
    Discutere con uno che ti mette le parole in bocca per potertele confutare fa davvero cascare le braccia.
    Che ti devo dire? Se avessi dato una scorsa ai testi su cui si dovrebbe discutere, sapresti che si parla di un’azione di concerto dei paesi a rischio, non di un singolo paese creditore ricattabile dalla minaccia di chiusura dei futuri crediti. E che il punto di forza di alcuni di questi paesi – anche se agissero singolarmente – è che sono troppo grandi per fallire, perché il loro fallimento provocherebbe una reazione incontrollata che travolgerebbe per davvero le banche e le società d’intermediazione che controllano il 60-70% dei flussi monetari globali. Ti riporto pari pari quello che scrivevo nel pezzo che qui viene richiamato:
    «Un governo degno di questo nome – un governo che esercitasse quella “primazia della politica” con la quale Monti fa i gargarismi – dovrebbe (magari di concerto con la Spagna, che è nelle stesse condizioni dell’Italia) porsi nei confronti dei creditori, che giocano in borsa sul rischio del default al mattino, e al pomeriggio invocano politiche che scongiurino il default, in modo molto duro: o il default unilaterale dell’Italia e della Spagna (come ha già fatto l’Islanda; come ha fatto dieci anni fa l’Argentina), o il dimezzamento del debito, e dei conseguenti tassi di interesse, attraverso la conversione dei titoli pubblici – a partire dai derivati – in titoli emessi dalla Banca Centrale Europea e garantiti da un tasso d’interesse fissato a livello politico. Italia e Spagna, a differenza della Grecia e dell’Islanda, sono too big to fail, troppo grandi per fallire: questa estrema debolezza è la vera forza dei due paesi».

  39. @ Walter
    In effetti, hai ragione, le mie osservazioni hanno una portata limitata.
    Mi limitavo a notare come tu, che nel post precedente mettevi l’ enfasi sul consumo sfrenato, nel post successivo simpatizzassi invece per imposte che premiano e spingono verso condotte “consumistiche” (cosa sono case e rendite finanziarie se non anche e soprattutto il frutto dei risparmi).
    Ma forse, più che una tassa, hai in mente una “penale su cattivi”. A parte i problemi nella selezione, non mi piace molto il “fisco straordinario”. “Penale” e “condono” in fondo sono cugini primi.
    Se poi i cattivi sono le banche, allora i link messi prima tornano utili. Tassare fondazioni e riserve ha un doppio vantaggio: nel primo caso si colpisce il “paradiso dei trombati”, ovvero la politica dentro le banche; nel secondo caso nemmeno si puo’ parlare di tassazione bensì di un prolungamento della politica monetaria in termini fiscali.
    @ Girolamo
    E cosa mai avresti aggiunto di tanto rilevante?
    Forse i “… titoli garantiti dalla BCE…”.
    Tradotto: paga per tutti il contribuente tedesco.
    Penso che costui, più che al primato della politica a cui pensi tu, pensa al primato della sua politica su di noi per non dover pagare anche in futuro (e la lettera della bce è un bell’ esempio).
    Il resto lo fai pagare ai nostri finanziatori abituali e vale in pieno quanto detto prima e non sto a ripeterlo.
    L’ Argentina aveva una moneta, quindi c’ entra come i cavoli a merenda. Per l’ Islanda non si parla nemmeno di debito pubblico.
    Il bello è che se dietro tutto sto casino si vuole solo una politica monetaria più espansiva della BCE, sarei anche in parte d’ accordo. Almeno arrivare ai livelli FED Tassare le riserve bancarie non è che un modo per ottenere tassi negativi.

  40. Indipendentemente da tutto, forse andrebbe considerato anche il fatto che chi ci guarda (e ci fa i dispetti) non vuole affatto che ripaghiamo il nostro debito, di sicuro non vuole che lo facciamo con misure straordinarie.
    La Spagna, tanto per dire, ha metà del nostro debito e è nelle nostre condizioni.
    Non sono le ricette per l’ abbattimento del debito che mancano (esperti nei fuochi di paglia come Ciampi e Amato potrebbero dirlo).
    La ricetta che ho sentito da Girolamo imperniata sul singolare ricatto “o fallisco o mi faccio lo sconto” (ma tutti i fallimenti sono sconti che ci si auto concede selettivamente!) secondo me peggiora le cose (non solo secondo me), ma il bello è che il suo eventuale successo si concretizzerebbe in un “tirare a campare” in attesa del prossimo terremoto.
    [ salto l’ opzione francescana: disfiamoci di tutto il fardello e viviamo in povertà ]
    Per conservare i nostri standard (e la nostra spesa pubblica) ci si chiede piuttosto di “crescere”. Solo ricette per la crescita hanno un qualche senso in questo frangente.
    Se ho un lavoro ben pagato, ottengo senza problemi prestiti anche importanti. Nessuno mi chiede di “rientrare”. Mi si chiede piuttosto di conservare quel posto di lavoro, vera fonte della mia ricchezza.
    “Crescere” significa che la Sig.ra Italia ha un solido lavoro con un buono stipendio. A chi cresce, tutti prestano più che volentieri ben oltre il 120%. A chi non cresce, nessuno presta niente, neanche al 60%.

  41. mi sembra un dialogo tra sordi, anche perchè chi evidentemente ha qualche conoscenza in più di economia non sembra voler spiegare ai profani…
    Questione patrimoniale: ha ragione broncobilly, perchè in economia (quantomeno in quella classica) si intende che la classe lavoratrice non risparmia, che la classe lavoratrice spende tutto il suo salario (che daltronde è dato a livello di riproduzione sociale) e che il risparmio è della classe capitalistica. la patrimoniale (se fatta seriamente, non lo strapuntino alla Montezemolo) sposta reddito dalla classe capitalistica a quella lavoratrice, e quindi aumenta i consumi.
    In un ottica di “dobbiamo decrescere”, la patrimoniale sarebbe quindi controproducente.
    La soluzione probabilmente è lasciarsi alle spalle le ambiguità del decrescismo e parlare più seriamente di settori che devono essere controllati dalla politica perchè troppo energivori o impattanti sull’ecosistema.
    Il problema generale del modello di “ripudio del debito” che viene proposto, mi sembra che sia la mancanza della comunità internazionale a cui i “ripudianti” dovrebbero far riferimento. pur tenendo presente che l’Argentina è un caso molto diverso, là hanno potuto appoggiarsi ad un progetto di integrazione regionale progressista, col Brasile che non strozza le sue periferie, a differenza della Germania e, più tardi, col Venezuela chavista che fa politica estera col petrolio. Certo, va costruita l’Europa sociale, però non la si fa solo con i paesi PIGS, qua tornano buoni ancora i martellamenti di Brancaccio, il nodo è “riprendere Berlino”, sia che si riesca ad invertire la rotta, sia che si arrivi dritti alla catastrofe.

  42. Se l’ Argentina è il modello, siamo messi bene.
    L’ Argentina ha svalutato pesantemente la sua moneta sprofondando all’ inferno e ricominciando da capo dopo essere stata in passato una delle nazioni più ricche al mondo. Ancora oggi è molto lontana dai sui standard passati. Ma soprattutto è dovuta fallire, mica ha voluto farlo.
    Oltretutto, avendo evitato la dollarization dell’ Ecuador, possedeva già di fatto una sua moneta (non del Brasile) su cui ha potuto agire da un giorno all’ altro. Tra i tanti mali, un privilegio che noi non abbiamo.
    Allearsi per fallire insieme non è una grande idea. Allearsi con chi ha più pezze al culo di te, ancora meno. Se ti allei con la Spagna non puoi poi castigarla colpendo i “cattivoni” che la penalizzerebbero. Se ti allei con la francia non puoi castigare i cattivoni francesi facendo pagare il conto all’ alleato.
    Più l’ alleanza è vasta, meno “cattivi” restano da colpire. Più l’ alleanza è vasta, più perde di senso l’ idea di fondo. D’ altro canto, più l’ alleanza è ristretta, più ti isoli.
    Ma poi chi sono “i cattivoni”. Gli speculatori al ribasso? Costoro difficilmente detengono ora titoli italiani.
    “Riprendere Berlino”, certo;  per chiedere l’ elemosina ai tedeschi, gli unici (presunti) virtuosi.
    Dopodichè, prevedo che Berlino “prenda” noi, quasi me lo auguro, e ci detti le politiche per non pagare più in futuro. Oppure, ancora peggio, l’ Europa andrà a fondo trasformandosi in una competizione per cercare di vivere alle spalle altrui.
    E tutto questo senza contare il fatto che potremmo anche dimezzare il debito senza veder cambiata in nulla la nostra periclitante condizione: da noi, dopo le terrificanti performance, ci si aspetta solo la crescita.

  43. @Bronco: scusa, ma stai equivocando quello che ho scritto. Io ho tonnellate di dubbi sulla parola d’ordine “ripudiare il debito”. Per me, prima, bisogna cercare a tutti i costi di fare una politica industriale seria, stabilizzare il debito segando le spese veramente inutili (tav, ponti susto####o, guerre in giro per il medioriente, finanziamenti a fondo perduto ai padroni…), crescita economica basata sulla produzione. Però il fatto che si stia correndo verso il fallimento ci obbliga a considerare l’ipotesi che si debba fallire. Se, e solo se, si arriva a quel, meglio cercare di guadagnare una posizione contrattuale più forte agendo con gli altri falliti, piuttosto che fare una trattativa individuale.
    “Riprendere Berlino” non significa chiedere ai tedeschi di farci la carità, significa cambiare la politica economica di Berlino, porre fine alla moderazione salariale (quello che chiede IGMetall), ragionare di labor standard. E non è questione di utopia, visto che Morgan Stanley prevede la recessione in Germania, che se i paesi periferici dell’UE si impiccano con l’austherity chi se li compra i prodotti tedeschi?

  44. Scusa Paolo, non mi rivolgevo direttamente a te anche se stimolato da alcuni passaggi del tuo commento.
    Possiamo essere d’ accordo su molto: il fallimento (selettivo!?) non è il toccasana, anzi, è l’ ultima spiaggia; la crescita conta più del debito.
    Se nel 2012 cresciamo di un 2% voglio più vedere a chi torna in mente il nostro debito!
    La sinistra è in imbarazzo perché in casi simili sarebbe per lei naturale chiedere aiuti alla domanda aggregata, come fa a Zuccotti Park (altro che fallimenti selettivi).

    Ma in Italia, col debito cumulato, una richiesta del genere suonerebbe assurda.
    Poi c’ è la ricetta per la crescita, e qui mi sa che ci salutiamo.
    Io sto con Draghi (addolcito da una politica monetaria più inflazionistica della BCE).
    Proporre il “fallimento selettivo” mi sa che finisce per dare ragione a quei “dragoni” che, memori dell’ Argentina e consapevoli della nostra agonia, chiedono di non somministrare la medicina adducendo giustificazioni un po’ inquietanti: tanto c’ è poco da fare e in Italia circola troppa gente che non vede l’ ora di scambiare la cura con la malattia.
     

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