UNA NOTA SU ROMA E SULLA SOPRAVVIVENZA IN QUESTA CITTA’

Ieri ho raccontato su Facebook un episodio piuttosto orribile quanto consueto. Una quarantina di gradi, una folla che aspettava l’autobus (il 542), la stessa folla, un quarto d’ora dopo, costretta ad accalcarsi sul medesimo autobus, senza aria condizionata.
Mi è stato detto che è colpa mia perché non ho votato Calenda (e mi taccio per carità cristiana).
Mi è stato detto che noi romani ci lamentiamo sempre e poi non facciamo niente perché la città funzioni, levantini che siamo.
Ora. Chi avesse la pazienza di sfogliare il blog, saprebbe che per quanto mi riguarda non mi sono solo lamentata, ma ho provato, in diciannove anni, a raccontare le problematiche, ovvero quello che chi usa le parole può fare, visto che non mi candiderei mai a sindaca di questa città e visto che non mi sembra carino assaltare il Campidoglio, con o senza oche. Le problematiche sono due: Atac e Ama, trasporto pubblico e immondizia (e cimiteri). Due mostri su cui nessuno è riuscito a intervenire, e probabilmente, a meno che qualcuno non abbia il coraggio di azzerare tutto, nessuno interverrà.
I bus romani sono pochi e vecchi, quindi non passano.
La metropolitana è vecchia e priva di manutenzione seria, quindi si rompe.
I taxi sono qualche migliaio, ma non riescono a far fronte alle persone che non prendono i mezzi pubblici perché non passano perché sono pochi e vecchi (ouroboros).
Roma è tanta. Tantissima. E aumenta con la bella stagione (e non solo). Aumenta in modo impressionante. E’ molto comodo dirlo da una piccola e linda città del Nord, che non ha il flusso di turismo che Roma ha, e che è aumentato a dismisura.
E io non sto difendendo Roma (figurarsi!), ma trovo assurdo che si alzi il ditino a distanza senza capire che corso di sopravvivenza sia abitare in questa città (ed è il motivo per cui mi sottraggo per quanto posso e resto a casa per quanto posso).

Come ho scritto in Roma dal bordo, ho provato e provo a fare del mio meglio. Ovvero:

“Come ho già detto, ho smesso di guidare a 44 anni. L’ho fatto perché una città come Roma ti impone di scegliere tra la conservazione di un briciolo di serenità e l’automobile. L’ho fatto anche perché ho studiato antropologia, e ricordo una lezione lontana in cui imparavo, grazie a Claude Lévi-Strauss, che i segnali impercettibili che un guidatore lancia, una postura delle spalle, una lieve torsione del collo,  permettono di capire all’altro guidatore che lo segue se sta per azionare le frecce, o sorpassare, o frenare, e che insomma la difesa del territorio passa anche per un’auto, e  spesso, spessissimo, per difendere quel territorio si diventa feroci come quando, trentamila anni fa, ci si contendeva un bufalo. L’ho fatto, infine, perché essere chiusi in un abitacolo non ti fa capire dove vivi, e quando leggo che alcuni letterati-eletta schiera intendono prendere finalmente i mezzi pubblici “per capire” mi viene un moto di tenerezza (anche un poco di rabbia, certo): prendendo i mezzi pubblici, si tocca con mano la disperazione e ci si sente impotenti, semmai.
Gli esercizi di memoria dicono che negli anni, tanti, prendere la metropolitana significa prepararsi a lottare, o comunque a soffrire. Ma documentano come ci si trasformiamo in bestie, noi che usufruiamo dei trasporti pubblici romani: bestie ammassate, incazzate, inferocite, sudate, spaventate, disfatte alle otto del mattino. Tutte le otto del mattino di tutti i giorni in cui si aprono gli occhi in questa città, capitale d’Italia.
La più profonda corruzione di Roma sta nel suo andare avanti pigramente, giorno dopo giorno, senza che mai si trovi una soluzione né la si progetti: io l’ho sperimentata in vent’anni. Vent’anni di Atac. Dal 2000 al 2020, quando la pandemia ci ha fatto scoprire il lavoro a distanza. Vent’anni di due metro e un autobus la mattina, due metro e un autobus la sera. Cambio a Termini, dalla linea B alla linea A, e viceversa. Ho sopportato silenziosamente i lunghissimi lavori per l’ammodernamento della fermata di Termini, che ammodernata non è, visto che le scale mobili si rompono ogni santo giorno e quando funzionano si rischia l’effetto bowling, visto che quelle che congiungono la linea B con la linea A sono, chissà come mai, strettissime, e il flusso di persone che le percorre è, chissà come mai, enorme.
Ho sopportato chiusure di stazioni o di interi tratti durate mesi, o anni. Ho sopportato due guasti a settimana. Ho sopportato l’assenza di personale a cui chiedere notizie “perché non siamo tenuti a”. Ho sopportato la maleducazione (“signò, la metro è rotta, usi i piedi”). La mancanza di informazioni in inglese, nei ricorrenti guasti (“la clientela è pregata di uscire dar vagone”), anche quando a guastarsi è la linea A diretta a San Pietro, e dunque piena di turisti a cui solo i volenterosi passeggeri anglofoni riuscivano a dare spiegazioni su cosa accadeva e cosa bisognava fare. Ho sopportato navette imprendibili. Allagamenti. Tornelli regolarmente rotti. Secchi che raccolgono l’acqua che piove dal soffitto, alla fermata di Lepanto, da anni e anni. Ho sopportato l’ascensore che non funziona quasi mai (per mancanza di personale) a Monti Tiburtini, che tanto è periferia, e chisseneimporta di quelli che abitano fra Pietralata e Rebibbia. Ho sopportato gli scioperi bianchi del personale, la puzza, i vagoni lerci, le banchine a rischio disastro. Le sopportavo ogni giorno, insieme ad altri pazientissimi disgraziati. A volte, tutt’altro che pazienti”.

Questo non è lamentarsi, e neanche arrendersi. E’ dire: non fatela facile, voi che vivete a Bolzano, e che vi infastidite quando qualcuno racconta quel che accade, e che diamine.

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