Restava, resta, un fondo di amarezza dopo le discussioni di questi giorni: che, diciamolo, potevano servire e forse possono ancora servire, ma che, da più parti, sono state vissute come una negazione del problema, e anzi come occasione ghiotta per sottolineare la natura, tuttora percepita come isterica, inutile e anzi dannosa, del femminismo. Da parte di uomini e donne, sottolineo.
C’è un libro, però, che in questi giorni mi ha restituito fiducia: non nella risoluzione della cosiddetta questione di genere, ma nella possibilità di parole e pensieri non semplificati, non ottusamente di qua/di là, non avvelenati. Non parla di donne, si tranquillizzino i miei piccoli lettori: parla degli anni Settanta, parla di terrorismo, parla di chi ha ucciso e di chi è sopravvissuto a una persona amata che è stata uccisa. Si chiama Il libro dell’incontro, lo pubblica il Saggiatore, si deve al lavoro di Guido Bertagna, Adolfo Ceretto e Claudia Mazzucato. E’ un libro anomalo. Non vi troverete una narrazione svolta nei termini canonici, né fa concessione alcuna alla scorrevolezza, anche se scorrevole é, ed emozionante, e importante come pochi. Per sette anni gli ex (i terroristi) e i rimasti (i parenti delle vittime) si sono incontrati. Si sono parlati. Le parole di entrambe sono state accolte. Ci sono pagine del libro fatte di poche righe. Lo smarrimento di chi dice di non sapere, di non ricordare più perché ha ucciso, e che dovrebbe rileggere il volantino di rivendicazione per saperlo, e lo stupito dolore mentre pronuncia queste parole. La rivelazione di chi ha perso un familiare quando intuisce che da quello status di vittima, a vita, può uscire soltanto attraverso quegli incontri. Non c’entra il perdono. La parola perdono non ricorre o addirittura non viene pronunciata. C’entra il desiderio di capire, di superare, di far sì che la memoria non si irrigidisca in bianco/nero, lato chiaro/lato oscuro. Che si faccia persona, e che quell’insieme di persone riscrivano, per le proprie vite e per le nostre, la storia di tutti. Niente retorica. Niente paradigmi. Niente “abbracciamoci”. E’ ricostruzione, emotiva ma anche razionale, di cui abbiamo una spaventosa necessità. Si chiama giustizia riparativa, e mette l’accento non sulla pena ma sulla riconciliazione: non solo fra ex e vittime, ma di noi tutti con il nostro ancora inesplorato passato (sì, inesplorato: bastava, per dire, farsi un giretto sul solito Facebook e leggere gli esultanti status sulla morte di Licio Gelli che, guarda caso, trascuravano il fatto che pochissimi dei grovigli legati a Gelli sono stati dipanati. Altro che esultanza).
Credo che sia un libro indispensabile, da leggere e da regalare. Proprio perché viene osteggiato, in questi tempi di nette divisioni e di anime inferocite. Ieri pomeriggio, mentre ne parlavo a Fahrenheit – trovate il podcast seguendo il link – sono stata sommersa di messaggi di ascoltatrici e ascoltatori che gridavano vergogna per aver dato la parola agli assassini (che peraltro non c’erano, interloquivo con due dei tre autori), e che invitavano gli ospiti a occuparsi dell’Isis, perché cosa altro ci sarebbe da aspettarsi da gente che parla con i mostri?
“Noi testimoniamo che un’altra strada è possibile, ma adesso non tocca più a noi. Tocca a voi che incontrate e ascoltate”. Quella strada potrebbe portarci in luoghi migliori da abitare. Dove l’insulto, l’odio, la violenza verbale ed emotiva non sono prevalenti. Credo che quella che percorriamo ora sia sempre più fitta di nebbia. Questo libro è un piccolo raggio di sole: lo percepisco da laica, vorrei sottolineare. E il buonismo, il politicamente corretto, tutte le teorie del complotto che avvelenano le vostre vite, per favore, lasciateli da parte. Almeno, leggetelo prima di farle riemergere.