UN'ORA SOLA TI VORREI

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Ci sono stati tempi in cui il lutto era condiviso. La persona amata e perduta poteva essere raccontata ad altri, e da altri si ricevevano storie, e immagini, e frammenti sconosciuti, e questo, sì, era un modo di vincere la morte, o almeno di mettere in comune il dolore, e di allontanare l’assenza.
Il lutto, oggi, è faccenda sbrigativa. Ti si chiede di mettertelo alle spalle, ora, adesso, o comunque di non esibirlo, perché è, in un certo senso, imbarazzante. Il dolore provoca incertezza, apre fratture negli altri, che da te sono abituati ad avere altro, e altro dunque ti chiedono, e tu rispondi alla richiesta pensando che è così che si fa. E ti trattieni persino dall’insultare chi ti dice “in fondo era vecchia e malata”, pensando così di consolarti.
Il lutto era lungo, dodici mesi si diceva, e dodici mesi erano e sono il tempo che ti ci vuole, che il tuo corpo e la tua mente pretendono per adattarsi. Ora devi sbrigartela in una manciata di giorni, perché non sta bene, perché abbiamo bisogno di essere rassicurati da quella che pretendiamo essere la tua forza d’animo.
Annie Ernaux, scrittrice meravigliosa, ha raccontato il  suo duplice lutto  in tre libri: Il posto, recentemente pubblicato in italiano da L’Orma e giustamente molto lodato, dove ricostruisce il padre a partire dalla sua morte, Une femme (Una vita di donna, Guanda) e Je ne suis pas sortie de ma nuit (Non sono più uscita dalla mia notte, Rizzoli) dove usa la letteratura per sconfiggere l’isolamento del dolore e cerca  una verità sulla madre “che non può essere raggiunta che con delle parole. (Vale a dire che né le foto, né i miei ricordi, né le testimonianze della famiglia possono darmi questa verità)”…”scrivere nel senso della verità, mi aiuta a uscire dalla solitudine buia del ricordo individuale, grazie alla scoperta di un significato più generale. Ma sento dentro di me una certa resistenza a farlo, vorrei conservare di mia madre immagini puramente affettive, tenerezza o lacrime, senza attribuirgli un senso”.
E aggiunge:
“mia madre non ha una storia, c’è sempre stata. E’ così, le madri non dovrebbero mai morire, la loro perdita appare sempre come una sorpresa che lascia attoniti”.
Nel caso di Ernaux (e prima di lei di Simone de Beauvoir con Una morte dolcissima) la parola scritta cerca una realtà non concepita. Beauvoir usa parole gemelle:  “Per me, mia madre era esistita sempre e non avevo mai pensato che l’avrei veduta scomparire un giorno, un giorno assai prossimo. La sua fine si situava, come la sua nascita, in un tempo mitico”.
Forse gli scrittori, e soprattutto le scrittrici, servono a questo, a trovare le parole per sconfiggere, se non la morte, la solitudine della morte e il suo ripudio, la titubanza e anche la ripugnanza che chi subisce una perdita suscita negli altri.  Non è un progetto letterario, ma un progetto di ricostruzione di quanto abbiamo perduto, non solo di chi. La capacità di condividere, anche il dolore.
Ps. post privato, non brillante, non all’altezza. Prendetelo com’è.

21 pensieri su “UN'ORA SOLA TI VORREI

  1. “Guardai il mare largo, puro, e avrei voluto pregare. Ma no: tutto il mio dolore è mio, tutto il mio strazio è per me sola. E mi rinserrai il petto con le mani e fui un sussulto di dolore attorto contro me stessa. Mi parve di voler morire perchè il mio segreto bruciava avidamente il mio sangue, rosso, come il sole maledetto che tramontava sul mare”.

  2. Ciao,anche io ho letto il libro della Beauvoir quando persi mia madre. Me lo hai ricordato adesso… Lo rileggerò…
    Baci e abbracci

  3. .. sì una cosa che fa male, imbarazza gli altri che distolgono lo sguardo, cambiano discorso, gli stessi che immaginavi ti avrebbero esortato a parlarne a ‘liberarti’.. triste, ci vuole una gran forza d’animo.

  4. Negazione della morte e quindi del dolore che ne deriva. Di pari passo, la psichiatria afferma che bastano tre mesi per elaborare un lutto, il di più è patologia.
    Occorre invece tempo per assorbire il dolore, solo così si quieterà senza produrre disastri. Nella mia esperienza, il dolore è diventato nel tempo, carezza, quella di cui mia madre è sempre stata parca.

  5. Post vero , vicino , nella distanza della conoscenza . Terribilmente vicino a chi a condiviso identici” Erlebnisse”. Strano ,vero? E la scrittura viaggia attraverso il tempo e lo spazio . Arriva diritto a condividere , a confortare ad far riemergere ciò che questa folle società ci costringe a celare. Grazie , grazie , grazie.

  6. Il tuo post non è privato, perché la morte e il dolore che provoca la morte di chi amiamo appartengono a tutti. Ed è giusto parlarne, e dargli spazio e tempo, tempo che ha misure diverse per ognuno di noi, e non parlerei di “patologia” se si prolunga. È vero che parlare di morte è diventato ancora più di un tempo un argomento ostico, che imbarazza, come se non parlarne la cancellasse. Perfino il linguaggio soffre di questa paura: non si dice “è morto”, si dice “se ne è andato”, “è scomparso”, “è volato via”, come se fosse indecente, o poco rispettoso dire semplicemente “è morto”, che, nel ciclo della vita, ha la stessa valenza naturale che c’è nell’espressione “è nato”. Abbraccio il tuo dolore, Loredana.

  7. Sono nata in Calabria negli anni 50. In quegli anni e successivamente fino ai primi anni del 1960, nei paesi più remoti esisteva la figura della praefica ; e si che allora i morti si piangevano eccome, ma quelle figure servivano per aumentare il pathos per ricordare i cari estinti sottolineandone virtù e rettitudine, in vita. Sempre in quegli anni, ed in parte, ancora oggi, il vicinato condivideva in maniera attiva quei momenti e si adoperava per accudire i familiari del morto preparando loro da mangiare, pasti leggeri e poveri.
    I morti venivano celebrati e onorati. Il lutto veniva quasi esibito per lungo tempo senza averne vergogna o paura (le donne ad una certa età si ritrovavano ad indossare abiti neri in segno di lutto e magari con il succedersi di eventi luttuosi finivano col portarlo tutta la vita, ma questo è altra materia ). Ci si dava il tempo per metabolizzare il dolore. Oggi provare dolore per la perdita di qualcuno è considerato quasi un segno di debolezza, senza parlare di come viene gestito un funerale laico.

  8. Sulla faccenda dei 12 mesi di lutto mi sono resa conto che servono perché da un certo giorno la mente non va più (non può più andare) all’ultimo compleanno, all’ultimo natale, all’ultima cosa che nel ripetersi delle stagioni abbiamo fatto insieme alla persona che non c’è più. Il ciclo insieme finisce, ecco. E poi c’è l’ “anno del pensiero magico” (non ho letto il libro ma mi piace come definizione), in cui più acutamente sei ricettiva a sensazioni e idee e riflessioni che riguardano i momenti insieme, l’eredità spirituale diciamo: il periodo in cui sei sola a ‘dialogare’ con oggetti, libri, idee, piante, fiori, carte che prima appartenevano a entrambe. La magia (non la paranoia) è che queste cose ‘parlano’! :-))
    Se poi qualcuno raccoglie il testimone, come tu hai già fatto scrivendo Pupa, le storie possono non finire mai. Ci vuole tempo, sicuro, ma sono convinta che non sia il tempo per dimenticare, ma per ricostruire qualcos’altro …ecco.

  9. Il tema del fastidio e della ripugnanza per il dolore degli altri, la necessità di poter esprimere il dolore senza essere condannati, è molto presente negli ultimi album di Vasco. In particolare c’è questo video con racconto distopico orwelliano molto suggestivo ed efficace nell’esprimere il concetto http://youtu.be/u-qcTn2Rdgg

  10. Come altri prima di me nei commenti:non e’davvero un post privato.nel senso che la contiguita’(..o la convivenza) con la morte e’ argomento che tocca tutti.che ha a che fare con la sostanza vera …al di la’di ogni evitamento.lo giudico un post meravigliosi-anche per i buoni consigli di letture che ho trovato.e poi perche’ evidenzia quel mascheramento della morte che accompagna il nostro tempo.ma che assolutamente non serve a capire la vera sostanza che costituisce la vita stessa.anzi. i riti del lutto del passato apparivano esteriori-in realta’ scandivano le stagioni che necessariamente si susseguono.la loro esteriorita’apparente faceva da supporto alla interazione sociale e da tramite con lo strato piu ‘profondo della ns psiche.piu’o meno.ecco perche’questo post non e’privato.magari la piazza virtuale potesse darci il supporto e il conforto che in altri tempi dava la comunita’ reale.ciao,loredana.

  11. Quando poco più di un anno fa morì mio fratello, mi servì molto leggere “Modi di morire” di Iona Heath che, proprio attraverso Fahrenheit, avevo conosciuto. Quel libro ebbe il potere di dare voce e corpo alla mia rabbia, alla mia indignazione perché spesso” la Medicina non ha imparato quando fermarsi”. Fu anche l’occasione per riflettere sul tabù della morte che la nostra società esorcizza illudendosi che i progressi scientifici possano garantirci salute e longevità. Non c’è più confidenza con questa dimensione della “vita”, non se ne parla, non si riflette sul valore che il “limite” assegna alle nostre esistenze e non si pensa a quanto sia utile condividere, elaborare, accogliere il concetto di morte e di fine del ciclo vitale. Io una cosa sola ho potuto fare con mio fratello, accompagnarlo con la voce, coi racconti, coi ricordi, ascoltarlo finchè ha potuto parlare. Un’altra cosa possiamo fare per le persone care che non ci sono più: continuare ad amare ciò che loro hanno amato, coltivare le loro passioni, farle nostre e farle rivivere attraverso le nostre azioni e le nostre parole. E tu lo hai fatto, mirabilmente, con Pupa. Un forte abbraccio.

  12. Se ti serve… È il finale di una cosa che scrissi dopo un’esperienza nei campi dei terremotati dell’Aquila
    “…E io mi chiedo che cosa ci sto a fare qui. Non so costruire una casa, non so gestire una cucina da campo. Non conosco le parole che asciugano le lacrime e curano le ferite. So raccontare storie e posso solo ricordare a chi mi ascolta ciò che le storie ci insegnano da sempre. Che crescere, vivere, sopravvivere può essere un’impresa disperata. Ma che ce la si può fare.”

  13. grandissima Ernaux, e grazie per aver ricordato i suoi libri sulla oerduta di sua madre, che non l’hanno resa da noi così famosa come quest’ultimo.
    Mi viene da raccontare che nel mio ambiente di lavoro una collega ha perso improvvisamente sua madre. Ho sentito persone (perlopiù “capi”) farle i complimenti per la “bravura” con cui affrontava il lutto, ovvero senza farsi abbattere, mostrandosi reattiva. Una concezione della vita (e della morte) che mi ha messo i brividi.

  14. Abbiamo ammantato con la comoda (ma ipocrita) copertura del “pudore” ogni nostro sentimento, in particolare quelli positivi; per converso, abbiamo “sdoganato” tutti i peggiori, che vanno esibiti a mo’ di corazza/prova di forza verso l’esterno: il risultato è quello che scrivi acutamente, Loredana.
    Potrei ricomprendere -oltre alla solidarietà/condivisione nella rielaborazione del lutto- tutto ciò che attiene alla sfera dell’affettività: “non sta bene” mostrare (rectius: “ostentare”!), che ognuno rielabori in silenzio e in sveltezza per proprio conto e se non ci riesce saranno pronte psicoterapie con adeguati psicofarmaci (nuove molecole, senza effetti collaterali significativi: così assicurano le case farmaceutiche produttrici…).
    Come accaduto a Luciana, anch’io ho tratto gran sollievo e lucidità dalla lettura di “Modi di morire” di Iona Heath, anche se non per rielaborare un lutto ma per superare le conseguenze di un grave incidente stradale che mi ha fatto incontrare da vicino la Nera Signora per 3 volte in meno di un anno. E comunque ho imparato in quella occasione che è molto più facile affrontare la propria fine che quella delle persone cui siamo legati: per questo hai tutta la mia vicinanza.

  15. Grazie, Loredana Lipperini.
    Scrivere e leggere in questi casi aiuta molto. Il libro che più mi ha fatto riflettere é stato “Distacchi” di Judith Viorst.

  16. Il lutto per la figura materna è sempre una perdita di in pezzetto di sè che col tempo, il tempo dell’elaborazione appunto, deve continuare a vivere e a farsi forza.
    E’ vero la scrittura e la lettura aiutano e sono da sempre terapeutici.
    Grazie Loredana.

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