VIVERE NEL POST-APOCALITTICO

Dunque, care e cari, in questi giorni state leggendo, oltre alle notizie di cronaca, un’infinità di riferimenti alla letteratura post-apocalittica anche da parte di chi abitualmente non la frequenta. Ci sta, ovvio, perché i narratori questo hanno fatto e questo fanno: osservano le nostre paure più antiche e le restituiscono, anche quando ci sembra di averle dimenticate. Come scriveva nove anni fa Maurizio Sentieri su Doppiozero:
“improvvisamente il riconoscersi fisicamente parte di qualcosa di più grande nel quale la nostra individualità si perde e affoga, parte di qualcosa che abbiamo dimenticato e in cui l’ammalarsi avviene sempre insieme agli altri e mai “da soli”, qualcosa di più grande che ci comprende e in cui nostro malgrado è possibile perdersi”.
Persi in noi stessi e nella nostra individuale fragilità, dimentichiamo le grandi e piccole epidemie, non solo la peste, ma la spagnola, il colera, la difterite, la poliomelite, la tisi (che uccideva lentamente ma uccideva eccome). Ora, non chiediamo alla narrativa post-apocalittica più di quel che può dare: non fa previsioni, non anticipa mai il futuro, ma legge in quel che siamo stati e siamo.
Nel 1999 James Berger intitolava After the End un saggio interamente dedicato al post-apocalittico, che spaziava dalla letteratura al cinema, ai media, e osservava che nella fase finale del ventesimo secolo abbiamo avuto l’opportunità, prima accessibile solo attraverso la teologia o la finzione narrativa, di vedere oltre la fine della nostra civiltà, di scorgere, in una strana sorta di retrospettiva prospettica, come si presenterebbe la fine: come un campo di sterminio nazista, o un’esplosione atomica, o una wasteland ecologica o urbana. E se siamo stati in grado di vedere queste cose è solo perché esse sono già accadute”.
Non si scrive se non di ciò che è già accaduto, dunque. Prosegue Berger: “Si dice spesso che la modernità è preoccupata da un senso di crisi e vede sempre come imminente, o addirittura arriva ad agognare, una catastrofe finale. Questo senso di crisi non è scomparso, ma coesiste con un’altra sensazione, quella secondo cui la catastrofe finale è già avvenuta (forse non sappiamo esattamente quando) e l’attività incessante dei nostri tempi – l’informazione, con la sua processione quasi indistinta di disastri – è solo una forma complessa di stasi”.
Poi è venuto il Covid 19. E da allora abbiamo cominciato a pensare che fosse tutto vero. Ma probabilmente dimenticheremo ancora, così come abbiamo dimenticato altre volte, perché forse la nostra catastrofe è proprio qui: nella nostra immobilità, nel nostro vivere nella paura avendone, però, dimenticate le cause. State bene,

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