10. CONFORMAZIONE DEL TERRENO

Sono stata in un carcere femminile. Non ne avevo mai visitato uno.  Ancora una volta fuor di retorica, credo sia un’esperienza che deve essere fatta, e non solo da parte di chi si occupa di carceri e di diritti. Va fatta per uscire dal luogocomunismo della detenzione come “vacanza”, per vedere le sbarre, quelle vere, non quelle dei film, per attraversare i cortili e sentirti chiudere dietro le porte. Va fatta per vedere le scritte su altre porte, anonime, ancora nel primo dei complessi che devi attraversare: su una c’è un cartello con scritto donne, sull’altra, la scritta a pennarello è uomini. Sono le stanze dove, a meno di situazioni dove si ottiene un accesso e un luogo d’attesa per i familiari, si passa la perquisizione prima di entrare.
Ma non è questo il punto, o non solo. Sono entrata in un carcere femminile per parlare di donne, anzi di bambine e di quanto ho raccontato, ormai cinque anni fa, in un libro. Sono entrata per ascoltare, soprattutto. Avevamo un’ora a disposizione. Dopo un’ora e mezza, eravamo ancora a discutere, le detenute, le guardie penitenziarie, la suora, le mie accompagnatrici, io. Di cosa? Di tutto: il ruolo delle bambine nella cultura rom, e la divisione dei compiti fra marito e moglie, e cosa può accadere a un bambino maschio se indossa gli abiti della mamma, e cosa fa una mamma di religione musulmana davanti alla possibilità di far frequentare ai figli l’ora di religione (cattolica) a scuola, e poi ricordi d’infanzia, padri che ti allevano “come un maschio” ma ti insegnano a riparare un rubinetto, nonne, figli, fiumi, luoghi lontani.
Quello che voglio dire è che io mi sono dimenticata di essere in un carcere. Quello che voglio dire è che, uscendo nel primo dei cortili, mi sono tornate in mente le parole di un amico che diceva che lo stato di civiltà di un paese si giudica dalla sua scuola e dalle sue carceri. Ma anche dal concetto stesso di pena. In proposito, vi copio qui quanto ha scritto oggi Adriano Sofri su Repubblica: quando non si trovano le parole è sempre meglio cederle.
Gli uomini ombra che moriranno in carcere
di Adriano Sofri

Vorrei cominciare da una domanda: voi sapete che cos’è un ergastolo ostativo? Non è un espediente retorico: io stesso, che mi picco di conoscere le faccende penitenziarie, ho appreso solo di recente che esiste, dal 1992, una cosa che si chiama ergastolo ostativo. In breve, vuol dire che per certi reati ritenuti di particolare gravità è esclusa senza riserve l’eventualità che la pena carceraria finisca, o si muti in pene, come si dice, alternative: niente permessi, niente lavoro esterno, niente riduzioni di pena per buona condotta – come si potrebbe ridurre una pena che si decreta senza fine? Quel genere di condanna all’ergastolo “osta” a qualsiasi modificazione, per quanto tempo passi e per quanto cambi la persona condannata. Se questa, come immagino, è per i più una notizia, lo è tanto più perché contraddice quel luogo comune così spesso e disinvoltamente ripetuto secondo cui «l’ergastolo in Italia non esiste», «dopo un po’ di anni escono tutti». Non escono, nemmeno per un’ora, fino al certificato di decesso. Non sono ancora morti e non sono più vivi: per loro non vale la consolazione che finché c’è vita c’è speranza. E guardate che non si tratta di un pugno di casi estremi, ma di centinaia: «Talmente invisibili – ha scritto l’Avvenire– che neanche al ministero della Giustizia sanno dire con esattezza quanti siano davvero gli ‘ostativi’».
Ho scritto sopra «esclusa senza riserve»: non è del tutto esatto.
Perché giudicando dell’incostituzionalità di una pena che esclude a priori la rieducazione e la risocializzazione – dettate da lettera e spirito della Carta – la Corte costituzionale ha convalidato l’unica ipotesi che prevede di romperne il rigore mortale. È il caso in cui il condannato “collabori” con la giustizia facendo i nomi di altri colpevoli. Questa eccezione ribadisce il rovesciamento di senso per cui in Italia si chiamarono “pentiti” i collaboratori di giustizia, tramutando una categoria pratica, spesso utile e altrettanto spesso detestabile, in una categoria morale. Non solo l’assimilazione è indebita, ma può avvenire l’opposto: che un vero intimo e non esteriore pentimento vada assieme al rifiuto o all’impossibilità di denunciare altri. Altri che a loro volta possono aver cambiato vita per intero, sicché la denuncia varrebbe a mettere in galera al proprio posto qualcuno che non costituisce da anni e magari da decenni alcun pericolo per la società.
Ma lasciamo pure che questo resti un dilemma delle coscienze e del loro segreto; subordinare l’“indulgenza” (uso questo termine perché ricorda l’altro, della simonia) alla delazione espone il condannato a mettere oltre che se stesso la propria famiglia, a distanza di venti o trenta anni — figli, figli dei figli — nella catastrofe della “protezione”, del cambiamento di identità, di luogo, di vita, nella paura. E infine — ma non è l’ultimo degli argomenti, al contrario — chi può escludere che fra quegli ergastolani “ostativi”, quegli “uomini ombra” come loro stessi hanno deciso di chiamarsi, ce ne siano che non hanno niente da confessare,
nessuno da denunciare? Anche se si trattasse solo di una questione di principio, occorrerebbe tenerne gran conto, e del resto è uno degli argomenti (non il maggiore) invocato contro la pena di morte: il conto dei giustiziati e riabilitati negli Stati Uniti è lungo — altrove non c’è nemmeno il conto postumo. Ma bisogna piuttosto rassegnarsi a vederlo come una tragica questione di fatto. Siamo reduci, ancora reticenti, dalla scoperta che una montatura mostruosa aveva mandato in galera all’ergastolo, e ci sono rimaste diciott’anni, otto persone non colpevoli, che ci sarebbero restate con quella dicitura: “Fine pena 31-12-2999”. Ergastolani ostativi, per l’assassinio di Paolo Borsellino, salvo che non erano stati loro ad assassinare Borsellino.
In Italia c’è da sempre una discussione sull’ergastolo. Se ne è richiesta l’abolizione come una pena disumana, vendicativa, negatrice della possibilità di riscatto e, per questo, negatrice della Costituzione. Quella discussione si è attutita, come tante altre, per il peso opprimente che la criminalità organizzata ha esercitato sul paese, e non smette di esercitare. Nelle polemiche di questi giorni si può misurare l’ambiguità spaventosa che avvelena ogni dubbio sul 41 bis, al di là del proposito indubbio di impedire ai criminali di continuare a far male anche dalla cella. Ma le ambiguità vanno sciolte nei loro elementi nitidi, per quanto è possibile. Don Luigi Ciotti, campione dell’impegno contro le mafie, scrive: «Giudicare insensato il carcere senza fine non è asserzione ideologica o radicalismo astratto, ma semplice constatazione». Valerio Onida, a sua volta ex presidente della Corte costituzionale e uomo arricchito da una frequentazione
volontaria del carcere, ha scritto a Carmelo Musumeci, ergastolano ostativo e rianimatore degli uomini ombra: «Non mi sembra giustificato escludere in ogni caso che, anche in assenza di collaborazione, possa ritenersi in concreto il ravvedimento del condannato. Mi auguro che la questione possa essere riproposta all’esame della Corte, o altrimenti risolta dal legislatore». Segnalai qui in passato la lezione in cui il professor Aldo Moro diceva: «Un giudizio negativo, in linea di principio, deve essere dato non soltanto per la pena capitale…ma anche nei confronti della pena perpetua: l’ergastolo, che, priva com’è di qualsiasi speranza, di qualsiasi sollecitazione al pentimento ed al ritrovamento del soggetto, appare crudele e disumana non meno di quanto lo sia la pena di morte». «Non meno»: pensiero che contrasta radicalmente con tutte le forme di ripudio della pena di morte che vogliono compensarlo con l’inflessibilità della reclusione a vita – argomento corrente soprattutto negli Stati Uniti. Continuava Moro: «Ed è, appunto, in corso nel nostro ordinamento una riforma che tende a sostituire a questo fatto agghiacciante della pena perpetua – (“non finirà mai, finirà con la tua vita questa pena!”)
– una lunga detenzione, se volete, una lunghissima detenzione, ma che non abbia le caratteristiche veramente pesanti della pena perpetua che conduce ad identificare la vita del soggetto con la vita priva di libertà. Questo, capite, quanto sia psicologicamente crudele e disumano… Ci si può, anzi, domandare se non sia più crudele una pena che conserva in vita privando questa vita di tanta parte del suo contenuto, che non una pena che tronca, sia pure crudelmente, disumanamente, la vita del soggetto e lo libera, perlomeno, con il sacrificio della vita, di quella sofferenza quotidiana, di quella mancanza di rassegnazione o di quella rassegnazione che è uguale ad abbrutimento, che è la caratteristica della pena perpetua. Quando si dice pena perpetua si dice una cosa… umanamente non accettabile».
«Una lunga detenzione, lunghissima… ». Traggo dalla prefazione a una raccolta di scritti di ergastolani, Urla dal silenzio, questa informazione: «In Italia ci sono più di 100 ergastolani che hanno alle spalle più di 26 anni di detenzione, il limite previsto per accedere alla libertà condizionale. La metà di questi 100 ha addirittura superato i trent’anni di detenzione. Al 31 dicembre 2010 gli ergastolani in Italia erano 1.512: quadruplicati negli ultimi sedici anni, mentre la popolazione ‘comune’ detenuta è ‘solamente’ raddoppiata». (Su “Ergastolo e democrazia” si terrà presso il Senato un importante convegno il prossimo 2 ottobre).
Vorrei concludere provvisoriamente evocando la sentenza del tribunale norvegese che ha condannato Anders Breivik al massimo della pena prevista dal codice di quel Paese, 21 anni. Anche quei bravi norvegesi hanno dovuto amaramente sperimentare la sproporzione fra le loro leggi e lo spirito che le informa, e l’irruzione di un’infamia smisurata: e tuttavia hanno scelto la fedeltà a quello spirito. In Italia, molti hanno voluto commentare irridendolo. Hanno fatto il conto e intitolato il loro sdegno così: «Tre mesi per ognuno dei 77 ammazzati». Mettiamo che fosse stato condannato, quel mostro, a 63 anni: il titolo «Nove mesi per ognuno dei 77 ammazzati» sarebbe stato meno sdegnato?

7 pensieri su “10. CONFORMAZIONE DEL TERRENO

  1. che un condannato per omicidio sipermetta di pontifica sull’ergastolo (per inciso l’entra in vigore della legge 94 del 2009 che modifica alcune norma dell´ordinamento carcerario hanno di fatto abolito l’ergastolo ostativo) la dice lunga sul livello infimo del dibattito pubblico italiota.

  2. La questione centrale, mi pare, non è chi dice certe cose, ma la sostanza di quanto viene detto. Il problema esiste ed è gravissimo, non lo si può eludere. Al di là del fatto che l’ergastolo ostativo sia stato abolito o meno (ma immagino che chi se l’è beccato quando esisteva lo stia tuttora scontando), noi abbiamo un sistema carcerario rieducativo sulla carta e profondamente afflittivo nella realtà. Non sto dicendo che sia giusto dispensare indulgenza a piene mani: mi incazzo anch’io, e parecchio, quando leggo di gente che dopo aver ammazzato qualcuno, magari guidando ubriaco, in galera non ci va per niente, o ci sta pochi giorni. Quello che vorrei sottolineare è che la pena, per essere rieducativa, deve essere sì certa, ma anche proporzionata e deve essere scontata in un ambiente che consenta quel cambiamento interiore propedeutico al ritorno in società. Oggi così non è, lo sappiamo tutti, e una permanenza in carcere non fa altro che inasprire ulteriormente chi la subisce. Sarebbe allora davvero meno ipocrita, dato che la (in)sensibilità comune vede la pena come vendetta e non come occasione di riscatto, porre fine a tutto con una iniezione letale.

  3. Caspita, quanti commenti!
    Voglia di sporcarsi la fedina penale delle cazzate a zero?
    Chi non fa conto che le proprie negatività impunite si riversano INEVITABILMENTE su qualcun altra/o, non commette un atto di supponenza altrettanto impunita?
    Altro che giudicare “un condannato per omicidio” che si permette “di pontifica sull’ergastolo”!
    Allora pontifico anch’io, che sono condannato al perpetuo ergastolo di questa libertà (molto) condizionata dalla stupidità altrui.

  4. Io ho lavorato in un carcere di massima sicurezza, sezione penale, dalla fine del 2009 al 2010. A me non risulta che l’ergastolo ostativo sia stato di fatto abolito. Ho conosciuto personalmente molti tra quelli che scrivono sul blog Urla dal silenzio e tra questi Carmelo Musumeci, entrato in carcere semianalfabeta e ora laureato in giurisprudenza.
    Ho sempre sostenuto il carcere duro e l’ergastolo. Dopo quell’esperienza e dopo aver conosciuto persone che avevano scontato fino a 20 anni di pena in regime di 41-bis, non lo sostengo più.

  5. Io darei una medaglia di cartone anche a coloro che usano i bambini per far presa sull’uditorio. Si comportano esattamente come quelli che li sciolgono nell’acido: usano i bambini per i loro scopi.

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