Nella foto, le motivazioni per lo sfratto di Peppina, che si commentano, temo, da sole. Il problema è come vengono usate, queste motivazioni, e come vengono usate le motivazioni dei terremotati, e da chi. Vi facevo cenno ieri, pensando con preoccupazione e timore al modo in cui il disastro del post-sisma viene cannibalizzato dalle destre (parlo di Francesco Pastorella, che avoca a sé il coordinamento dei comitati o di parte di essi, e che dichiara i comitati non politicizzati. Ma Pastorella è di Fratelli d’Italia, ha ricoperto ruoli in Fratelli d’Italia e dunque politicizzato lo è, eccome). Ci indigniamo per la figurina di Anna Frank, certo, ma rischiamo di non guardare alle tenebre che si addensano su di noi, in un futuro molto vicino, perché delle esigenze dei cittadini la sinistra di governo non è riuscita a farsi carico. Nel caso del terremoto, non è riuscita neanche ad ascoltarle, quelle esigenze. Sia.
Nel frattempo, leggiamo le parole, sagge, di Cronache mesopotamiche.
IL LUPO E L’AGNELLO
Abbiamo davanti ore che si coloreranno del rosa dei buoni propositi, del giallino dell’“abbiamo fatto il possibile”, di celeste retorica vana. I colori delle SAE che ancora mancano all’appello. 26-30 ottobre: meglio il silenzio. Il silenzio dei paesi distrutti, delle macerie per terra, degli orti abbandonati, dei gerani secchi sui davanzali. Secchi da un anno.
Il 21 ottobre, a Roma, c’è stata una manifestazione di terremotati. Macerie nelle carriole, striscioni. E polemiche, parole che si trasformano in risse cattive sui social, altro che sfottò in quei dialetti buffi che parlano sulle montagne. Non bastava la faglia del Vettore, non bastavano le crepe delle case, ci mancavano le fratture fra quei quattro capponi che abitano lassù (o fanno finta: perché ci sono anche questi).
Non mi importa delle personali ambizioni politiche di questo o quel sindaco, non mi importa della gara per le elezioni ’18. Ma quelli che non vedono cosa di invisibile il terremoto ha rotto, quelli non possono essere chiamati a ricostruire il disastro. Non che prima regnasse l’idillio. Consorterie, rivalità e la sana abitudine a farsi i fatti propri anche in deroga a qualche regolamento hanno sempre caratterizzato questi posti, dove essere figlio della maestra, avvocato o dottore (cioè medico di base) ancora conta qualcosa. Ma non era terra da homo homini lupus, le chiavi stavano sulla porta, e qualcuno a dare una mano c’era sempre, nel caso.
Voglio stare dalla parte dal lupo. Voglio stare dalla parte dell’agnello. Voglio raccontare non le storie di un inesistente Appennino popolato da sibille fantasy, ma storie di gente vera e invisibile. Parola per altri, l’unica possibile deroga al silenzio.
La storia di Silvia comincia lontano, dalle transumanze fra le Marche e il Lazio, radicate nei secoli, da quando un papa, alla fine del ‘400, obbligò i pastori del regno della Chiesa a portare le pecore a svernare nell’agro romano, tutti, anche quelli marchigiani. E daje, allora, a passare tutto l’inverno a trecento chilometri da casa, in tuguri provvisori, e daje a tosare e pascolare, e daje a creare legami di sangue e di lingua. Silvia è laziale, ha fatto il liceo a Roma, si è iscritta all’università. Ma in città si sente a disagio. Silvia ha la pecora nel sangue, è il destino di suo nonno, pastore transumante dal Lazio al monte Bove. Silvia sta a Roma, ha vent’anni (siamo abbondantemente negli anni Duemila, non fraintendere, lettore, questa è una storia moderna), e vuole tornare fra le montagne del nonno, ad allevare le pecore del nonno. Pecore speciali, però. Che adesso vanno un sacco di moda, e tutti le sbandierano come prodotto autentico doc, ma non è mica facile, averle. Sopravissana, una “v” sola. Frutto di incroci settecenteschi con pecore merinos donate a un papa. Pecore appenniniche, né sarde né bergamasche, dal vello bianco e morbido come cachemire. Un dono prezioso, sparito o quasi nel dopoguerra. Silvia rivuole le pecore del nonno, che non ci sono più. E cerca. Cerca nei piccoli greggi di qualche anziano. Cerca fra pecore “giuste” per tipo di lana e conformazione, né troppo grande, né troppo piccola. Incrocia. Produce agnelli. Tosa, fa macellare, fa la ricotta. Perché a questo serve una pecora: latte lana carne. Gli esemplari del piccolo gregge diventano sempre più simili a quelli stampati nella memoria, e il disciplinare le riconosce, le pecore dal vello di cachemire. Poi, un anno fa, la casa distrutta, la stalla danneggiata, l’inverno in roulotte col ghiaccio dentro. La scelta -obbligata, per chi è dominato da una passione così esclusiva- di rimanere, lei, il compagno, e i cani.
Perché pecora è ecosistema. La pecora porta il lupo. Silvia racconta di lupi che sembra di stare in una favola antica. Lupi che si intrufolano nel quotidiano. Lupi che quest’inverno, con un metro e mezzo di neve, aspettavano fuori dalla porta di una delle poche case agibili di Ussita. E sono stati scambiati per cani. Aspettavano cosa, i lupi affamati? Lupi, tanti lupi, che non hanno paura di niente, che saltano staccionate e reti alte tre metri, che sbranano pecore.
Il lupo porta il cane. Se il cane non ha paura del lupo, il lupo lo sente. Parlano, i cugini, la loro lingua segreta, si crea un equilibrio. Ma il cane non deve avere paura: i lupi sono capaci di fare a pezzi una pecora sotto gli occhi del cane. Il pastore abruzzese sa cosa deve fare. Diventa alleato della pecora, il suo cane custode. Quando la pecora deve essere tosata, e si sottrae, chiama in aiuto il cane, perché la difenda da quella che sente come un’aggressione.
Il lupo la pecora il cane. L’erba d’estate, il fieno in inverno. Sembra quasi che non serva la mano dell’uomo, che invece è lì, sempre, ed è indispensabile. La mano, l’esperienza, l’intelligenza. Non è un mestiere facile, fare il pastore. E lo capisci solo quando è un po’ che chiacchieri con Silvia. A settembre sono nati gli agnelli. Non mi ha fatto nemmeno avvicinare alle stalle: “potresti contaminarli, sai, sono come neonati”. Non ho insistito, mi sono accontentata delle foto.
L’uomo, l’ambiente, un equilibrio delicato ma possibile, se ci si muove con sapienza. E con gli altri, naturalmente: sta partendo adesso una rete d’impresa che terrà insieme i pazzi visionari che hanno deciso di dedicarsi a questa razza che non può più essere definita perduta.
Questo è ciò che ci regala Silvia, ed è molto di più di un eccellente prodotto di nicchia. È la prova di come si possa vivere la montagna in modo normale, senza essere eroi, pur facendo qualcosa di straordinario. Un modello lontano anni luce dalla pretesa modernità di idroscali e grandi vie di comunicazione funzionali ad un turismo interessato ai picnic d’estate e allo sci d’inverno. Perché questa pare la logica sottesa alla proposta della consigliera Elena Leonardi (in quota Fratelli d’Italia): “creare progetti di espansione e sviluppo collegando le varie stazioni tra loro”: e chalet, e punti di ristoro, illuminazione notturna, innevamento artificiale in quello che potrebbe diventare il comprensorio sciistico più importante del centro Italia.
È questo ciò che vogliamo? Io no, non così: io sto dalla parte del lupo, dalla parte del cane, dalla parte dell’agnello.
Ecco, è proprio questo il problema, la virata verso il turismo, verso l’organizzazione del tempo libero degli altri (perché chi lavora in un territorio versato al turismo e alle strutture di intrattenimento poi non si diverte tanto, perché deve lavorarci e non è sempre facile), verso la creazione di una presunta ricchezza a breve forse medio termine. Pare che in Italia oggi ci sia la tendenza diffusa a pensare a turismo e ristorazione come le due punte di uno sviluppo che si stanno spacciando per crescita economica, mentre potrebbe rivelarsi ancora una volta una violenza operata sul territorio e sull’ecosistema di cui fanno parte tutti, animali, piante, umani. Il turismo di massa è l’ennesima forma di espropriazione culturale di un territorio. Ma che possiamo fare se gli amministratori e le istituzioni non capiscono o, forse peggio, non vogliono capire? Se sono prigionieri del proprio wishful thinking? Se la visione è quella di uno sfruttamento delle opportunità per stravolgere un ecosistema tanto poi se la vedranno le generazioni successive, quando ci saranno altri danni? Cosa ci resta anoi che assistiamo ignari e impotenti?: la memoria, le parole, i racconti orali, le testimonianze? Il dolore? La fatica? La situazione richiederebbe qui una grande statura morale da parte della politica e dei cosiddetti stakeholders, che mi pare sia assente, e quando c’è viene assunta da figure mediocri e proterve, pronte a saltare sull’opportunità economica. Spero di aver colto il senso, almeno questa volta, ma davvero il senso di impotenza è insopportabile, soprattutto se si è dei normali cittadini che stanno solo a guardare.