7. MANOVRE DI ESERCITI

Prima la cosa seria. Ieri pomeriggio è stato presentato il rapporto di Save the children che analizza come la crisi economica colpisce le madri italiane. Da Ingenere, che ha collaborato alla stesura, qualche dato (noto ai frequentatori di questo blog, credo, ma è sempre bene ribadire):
“Nella prima fase della crisi, le donne sono state relativamente meno colpite degli uomini: l’aumento della disoccupazione ha interessato in misura maggiore gli occupati maschi. Nonostante a partire dal 2010 la crisi si sia inasprita, le ripercussioni reali sull’occupazione femminile sono state prese in considerazione solo in un secondo momento. Il fatto di porsi in maniera acritica e neutrale rispetto al genere porta a non percepire la crisi nella sua gravità. Continuando ad analizzare la crisi con un approccio “gender blind”, non si legge bene quel che sta accadendo sul mercato del lavoro: per esempio, non si vede che una parte della disoccupazione femminile tende a scomparire per una tendenza maggiore delle donne a uscire dal mercato del lavoro o ad accettare lavori part-time; inoltre, si continuano ad ignorare i maggiori costi, in termini di aumento di lavoro non pagato, connessi al taglio dei servizi.
E’ con l’innescarsi della crisi fiscale e delle politiche di austerity che le donne cominciano ad essere colpite più duramente, soprattutto se madri. Poiché le prime spese ad essere tagliate sono state quelle per i servizi, l’impatto di questi interventi ha avuto effetto soprattutto sulle donne, sia direttamente, colpendo l’occupazione femminile, più fortemente concentrata nei settori dei servizi pubblici, sia indirettamente, tagliando quella parte di spesa pubblica come gli asili, l’istruzione, l’assistenza agli anziani o i trasporti.”
D’altra parte, è ben nota la specificità del sistema italiano di welfare rispetto a quello degli altri principali paesi europei. Nel 2009 la spesa per la protezione sociale destinata alle famiglie e ai minori dell’Italia, calcolata come percentuale sul Pil era del 1,4 rispetto a una valore medio europeo del 2,3%”.
Allora, qui non si tratta di non voler più volere tutto, sulla scia delle dichiarazioni di Anne-Marie Slaughter: si tratta di non poterlo fare. In particolare, come riporta Flavia Amabile su la Stampa:
“Nel 2010 ad avere un lavoro è una donna su due (il 50,6%) se non ha figli, cifra molto al di sotto della media europea pari al 62,1%. Ma scende al 45,5% già al primo figlio (sotto i 15 anni) per perdere quasi 10 punti (35,9%) se i figli sono 2 e toccare quota 31,3% nel caso di 3 o più figli.
Nel solo periodo tra il 2008 e il 2009 800 mila mamme hanno dichiarato di essere state licenziate o di aver subito pressioni per andare via in occasione o a seguito di una gravidanza, anche grazie al meccanismo delle «dimissioni in bianco». Le interruzioni del lavoro alla nascita di un figlio per costrizione, che erano il 2% nel 2003, sono quadruplicate nel 2009 diventando l’8,7% del totale delle interruzioni di lavoro.
Anche le donne che hanno avuto la fortuna di conservare un posto di lavoro nonostante la crisi, sono andate incontro a problemi. Nel 2010 è diminuita l’occupazione qualificata, tecnica e operaia. È cresciuta la bassa specializzazione: dalle collaboratrici domestiche alle addette ai call center. Aumenta il part-time, «ma non quello scelto dalle donne» – precisa Linda Laura Sabbadini, direttrice centrale dell’Istat. È dovuto quasi esclusivamente all’aumento del part-time accettato per la mancanza di occasioni di lavoro a tempo pieno, con una percentuale nel 2010 del 45,9% sul totale dell’occupazione a tempo ridotto, quasi il doppio della media Ue (23,8%).”
Ora, all’incontro di ieri era presente la ministra del Welfare, Elsa Fornero. La quale ha dichiarato quanto segue:
“Le speranze di poterle aiutare sono poche, ha ammesso la ministra al Welfare e alle Pari Opportunità Elsa Fornero. Pur condividendo e capendo, ha ricordato a tutti la difficile situazione dei conti, il debito da restituire e quindi ha escluso iniziative forti, ad ampio raggio. Qualcosa però è allo studio per le donne che soffrono di più ha assicurato – si tratta di «aree di intervento mirate, circoscritte per massimizzare le probabilità di riuscire».
La ministra avrebbe voluto anche introdurre cinque giorni di paternità obbligatoria. «Ma come le paghiamo? Ogni giorno costa 70 milioni di euro». Lo stesso vale per eventuali misure sulla social card e sulla non autosufficienza: per il momento sono in fase di solo di studio perché non si sa come pagarle.”
E qui arriviamo alla cosa meno seria, o apparentemente tale.
Come ognun sa, c’è stata una vignetta di Vauro che ritrae la ministra in abbigliamento da coniglietta e la definisce ministra-squillo. Sul punto, forse, non varrebbe la pena dire nulla:  non è una vignetta brutta perché sessista, semmai è sessista perché è brutta (ovvero noiosamente e pigramente aggrappata a uno stereotipo, peraltro usato da Vauro anche al maschile in una vecchia vignetta di Alfano che fa la lap-dance: e quando la satira si stiracchia sugli stereotipi perde efficacia, almeno a mio parere).
Quel che vale la pena sottolineare, invece, è che in virtù della vignetta e delle polemiche che ne sono seguite,  si perde un’ottima occasione per stigmatizzare davvero, e concretamente, l’operato e il non-operato della ministra, che condivide e capisce la situazione delle donne in Italia ma alza le mani in segno di resa. Se si dà uno sguardo (possibilmente dopo l’assunzione di un anti-emetico) ai commenti sulla pagina Facebook di Vauro si intuisce che il gioco della doppia vittima (il disegnatore da una parte, la ministra dall’altra) lascia sullo sfondo quel che doveva essere in primo piano: la politica perseguita da quando Fornero è alla testa del ministero del Welfare.
Il secondo motivo per cui vale la pena parlare di tutto questo è il post scritto per Valigia blu da Matteo Pascoletti (che non è la quota azzurra dei femminismi, per dire).

7 pensieri su “7. MANOVRE DI ESERCITI

  1. Sul manifesto di ieri, Guido Viale ricorda che il 18 giugno 2010 il “Foglio” gli dedicò un’intera pagina (ben 7 articoli) di sberleffi per aver messo in discussione (lui come altri) la serietà e la fattibilità del progetto-Marchionne. In forme diverse, anche se non così evidenti, è capitato a chiunque abbia detot o scritto qualcosa di meno che servile ed encomiastico su FIAT, Marchionne, mercato dell’auto. Beh, gli editorialisti del “Foglio” potranno essere dei pirla (=non sanno quasi nulla di economia e industria, ma ne parlano come se…), ma Fornero, Monti, Passera no. Perché delle due l’una: o a “Fabbrica Italia” hanno creduto davvero, e allora dovrebbero alzare non le mani, ma le lettere di dimissioni, essendo le persone sbagliate nel posto sbagliato. O, al contrario, sanno fare bene analisi e conti, e dunque sapevano sin dall’inizio che Marchionne stava facendo il gioco delle tre carte (o forse quattro: faccio notare, di passaggio, che al presunto bisogno di acciaio da parte della FIAT viene correlato il supposto futuro dell’ILVA di Taranto). E quindi non sono né pirla, né ministri-squillo: sono qualcosa di peggio. Sono correi (e lo stesso Vauro fa loro un doppio favore, nel deviare il discorso dal vero punto, e nello sminuire la loro attiva e fattiva complicità). Stanno lì a passare una mano di smalto “tecnico” sulla prosecuzione – e neanche con altri mezzi – di una politica che usa la crisi per rendere precaria un’intera nazione, a cominciare dalle figure che il comune sentire associa come “più vicine” (per vocazione? per natura?) alla precarietà: donne, giovani, migranti.

  2. La Fornero diice “bambola, non c’è una lira”, ma riflettiamo su un intervento a costo zero che la ministra potrebbe fare e non fa: il tanto vituperato governo Prodi le dimissioni in bianco le aveva cancellate con un provvedimento semplicissimo, che prescriveva l’obbligo di formalizzare le dimissioni presso un organo istituzionale (mi pare fosse la Provincia) alla presenza di un rappresentante sindacale, rendendo così nullo qualsiasi atto pregresso firmato in bianco. Norma abolita dal successivo governo Berlusconi già nel primo mese, ovviamente. Costa zero: perché la Fornero, ministro del lavoro, non la ripristina?
    Questo fatto la dice lunga su quali siano le posizioni ideologiche di questa signora.
    A suo tempo l’insediamento di tre ministre è stato salutato come un fatto assolutamente positivo, in virtù del fatto che sono donne. A me questa cosa non ha mai convinto, e l’operato della Fornero mi dà purtroppo ragione, in una delle rare occasioni in cui davvero mi sarebbe piaciuto avere torto marcio.

  3. Il gender gap purtroppo inizia anche da prima… Tempo fa gestivo un sito sulla legge 30. Mi scrisse un imprenditore: “le donne dopo i 30 anni non si possono assumere perché sono a rischio gravidanza. Io i loro cv non li leggo proprio”. Basta sfogliare qualsiasi giornale di lavoro, i limiti d’età sono severi: ricollocarsi nel mondo della flessibilità è impossibile. Se poi tra laurea, master, lavoro in nero, poi cocopro, poi ritenuta d’acconto, poi partita iva farlocca, poi tempo determinato magari part-time perché “non ci sono i soldi per i contributi” arrivi ai 30, è la fine. Ed è accaduto, sta accadendo, a tutta una generazione. Allo step di essere discriminate per la maternità non siamo proprio arrivate: abbiamo iniziato a soffrire già dalle selezioni, nelle vesti di portatrici sane di utero. E io, che di anni ce ne ho 34, come lo dico che ho alte possibilità di essere in menopausa a 38? Devo scriverlo sul c.v.? A un datore di lavoro o a un collaboratore interessa più il mio status ovarico che 10 anni di gavetta? Mi sembra un segno molto chiaro della lungimiranza di una classe dirigente, che risica e si spippola sul centesimo e non investe sulle competenze, sulla formazione, sul futuro. Tristezz…
    Poi, io, alla vecchia favola che i soldi non ci sono, non credo più. Entro nelle case di questa gente, non sono cieca né sorda e il mio salario non è legato al mio qi: non sono scema. I soldi ci sono, si tratta di scelte di allocazione… Chiedo scusa per il commento un po’ alluvionale e solipsistico ma è un tema che mi fa tanto male quello della discriminazione sul lavoro. L’ho subito, l’ho vissuto e nemmeno ho figli… figuriamoci chi li ha…

  4. @ Maurizio: grazie per la segnalazione.
    Sull’identità di genere di alcuni ministri (io uso il neutro, vecchia scuola tedesca, per sottolineare la prevalenza della funzione su chi la esercita): è un falso problema, con questo governo come col precedente come con quello precedente del precedente. Se stiamo ai fatti, dobbiamo registrare da un lato una “femminilizzazione del lavoro”, cioè l’attribuzione al lavoratore, quale che sia la sua identità di genere, di quelle “qualità” storicamente attribuite al soggetto femminile – flessibilità, capacità di adattamento, disponibilità a un surplus di lavoro, passività: condizione necessaria per la precarizzazione del lavoro. Al tempo stesso, la precarizzazione espelle dal lavoro soggetti femminili, ovvero li confina in quel mercato dell’affettività – badanti, cura, assistenza domiciliare, in parte anche educazione scolastica – che a sua volta nasce attorno alle qualità “domestiche” che si suppone sianoi proprie della “natura femminile”. Alle donne che vogliono resistere a questa selezione malthusiana viene chiesto di “mascolinizzarsi”, di mostrare una maggiore capacità di messa in atto di quelle qualità che si suppone essere proprie della “natura maschile”: individualismo, cinismo, carrierismo, in una parola stronzaggine.
    Ogni politica che sposti di una tacca più in alto l’asticella della precarizzazione del lavoro, e favorisca in qualsivoglia maniera i processi di finanziarizzazione dell’economia – che necessitano di un lavoro precario e flessibile – è una politica che favorisce le condizioni strutturali della discriminazione dei soggetti socialmente deboli, ossia dotati di minore forza contrattuale, e tra essi le donne: che gli attori di questa strategia politica si chiamino Lanzillotta e Pollastrini, oppure Carfagna, Prestigiacomo e Meloni, oppure Fornero (che è una e trina, avendo accorpato lavoro, politiche sociali e pari opportunità) non fa differenza, né politica né di genere.

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