“Quando c’è in ballo il passato, tutti diventiamo romanzieri” è la frase più citata, e più bella, di Joyland, ultimo romanzo di Stephen King, pubblicato da Sperling&Kupfer nella traduzione di Giovanni Arduino.
Che Joyland non sia un horror è stato già detto. Che King non sia un autore horror (non sia “solo” un autore horror, ovvero non sia inscatolabile come il tonno) dovrebbe essere già noto. Dunque, cos’è? E’ un romanzo di nostalgie: doppie e triple e quadruple, perché qui si mettono in campo molte delle corde che King sa far vibrare.
L’amore, certo, e King sa raccontarlo come pochi sia quando è l’ultimo (come in La storia di Lisey), sia quando è il primo, e sopratuttto quando è quello che quando va male, fa male. King lo diceva ai tempi di Stagioni diverse (“L’amore non è quello che i poeti del cazzo vogliono farvi credere. L’amore ha i denti; i denti mordono; i morsi non guariscono mai. Nessuna parola, nessuna combinazione di parole, può chiudere le ferite d’amore. È tutto il contrario, questo è il bello. Se quelle ferite si asciugano, le parole muoiono con loro”), lo ha ribadito nella Torre Nera, chiedendo al se stesso adolescente di dargli, appunto, le parole, per raccontare lo strazio e la delizia di quelle prime volte (e le avrebbe trovate, eccome: “L’amore vero, come tutte le droghe forti e che danno dipendenza è noioso. Svelato il mistero del primo incontro e della scoperta, i baci diventano presto insipidi e le carezza tediose.. salvo naturalmente per coloro che si baciano, coloro che si scambiano le carezze mentre intorno a loro tutti i suoni e i colori del mondo diventano più vivi e intensi. Come tutte le droghe forti, il vero primo amore è interessante solo per coloro che ne sono prigionieri. E, come per tutte le droghe forti e che danno assuefazione, il vero primo amore è pericoloso.”).
L’amore, dunque. Devin Jones è uno studente universitario, è innamorato, presagisce che l’oggetto della sua passione sta per lasciarlo. Ha intanto accettato un lavoro estivo: è l’estate del 1973, ci sono libri da leggere (Il signore degli anelli) e dischi da ascoltare (Doors, The end), e un parco divertimenti a Heaven’s Bay dove manovrare ruote panoramiche e travestirsi da cagnone per la gioia dei bambini. Il parco é Joyland, ed è (come dice giustamente Arduino nell’intervista linkata qui sotto) un luogo-che-non-c’é. Certo, King lo racconta come se ci fosse stato davvero, con la nostalgia del tempo che non torna, e così lo racconta anche il proprietario del parco, che è un vecchio signore che fa della felicità altrui ottenuta attraverso il divertimento la propria missione, prima che tutto sparisca e diventi, sapete come funziona, no?, globalizzato, con Disneyland e tutti i non luoghi che avrebbero incantato etnologi e sociologi. Joyland è ancora un mondo a sè, erede diretto dei circhi e degli splendidi imbroglioni che li animarono. Come ogni mondo ha una lingua, La Parlata, fatta di giochi verbali e allusioni. Come ogni mondo ha le sue regole. E come in ogni grande storia, Joyland è la foresta incantata del nostro Giovane Cavaliere, con i tranelli e le sorprese, gli amici e i nemici, e sulla via per la foresta Devin Jones incontrerà anche un Alleato, magico come tutti gli aiutanti e come tutti gli aiutanti anomalo, perché è un bambino malato che si trova in bilico fra mondi, come prima di lui Danny Torrance e Charlie McGee e Carrie White. Per sapere chi salverà chi, leggete il libro.
Com’è Joyland? Bellissimo, a mio modesto parere. Perché è come se King avesse lavorato ancora sulla scia di 22/11/63, dove la parte più bella era quella sul rimpianto per il mondo che si trovava al di là della buca del coniglio, con tutte le sue parti oscure. Ma qui ha lavorato asciugando il superfluo, seguendo le tracce di una storia semplice che dura il tempo di un’estate (quelle che a vent’anni, come è giusto, ti cambiano) e che è destinata a farti diventare romanziere per tutto il tempo in cui la rimpiangerai.
C’è il sovrannaturale in Joyland? Poco, un soffio appena, ma non è quel che conta. Non è quel che Joyland è, un giallo o un romanzo di formazione, a essere importante: è che leggerlo dà piacere, e malinconia, e il piacere della malinconia stessa, e a un libro non occorre chiedere molto di più. Non sempre, non in questo caso.
Omaggio. Il podcast della conversazione a Fahrenheit con Giovanni Arduino.
Bellissimo anche secondo me.
L’ ho letto in contemporanea con L’ estate della paura, di Simmons, e sono rimasto meravigliato di come i grandi scrittori riescano ad usare la memoria. Non è difficile costruire palazzi della memoria, su internet ci sono istruzioni per creare nella nostra mente costruzioni immaginarie, riempirle di oggetti e persone. Ma i grandi scrittori riescono anche a riempirli di emozioni, di desideri, di gioia e di dolore, e riescono a mostrarceli.
Sono sentimenti soggettivi che riescono, in un modo per me misterioso, a diventare oggettivi, ad essere riconosciuti e assaporati da tutti i lettori.
In un famoso libro di Hesse, Il gioco delle perle di vetro, il protagonista crea dei “giochi” mentali, attingendo alle varie arti. Sono giochi in cui non è ammesso il soggettivo, ad esempio non si può usare il ricordo del profumo dei fiori di sambuco per evocare un’emozione provata in quel momento, perchè gli altri giocatori non capirebbero l’associazione.
Ecco, se King fosse stato un giocatore non avrebbe avuto difficoltà a farla comprendere e a inserirla nell’ immaginario di tutti i partecipanti. 🙂
King è un mozartiano. Sforna lavori eccellenti o di alto standard con una frequenza pazzesca.
Non riesco a stargli dietro. Ora devo leggere l’ultimo della Torre Nera, e poi volevo andare su 22\11\’63.
Come i misteri politici, in cui la verità si può dire tranquillamente qualche decennio dopo, quando ormai non conta più, i romanzi di Stephen King possono essere criticati solo all’uscita di quello successivo. Così esce Joyland e si ammette che forse (forse, eh!) 22/11/63 non era proprio del tutto perfetto, malgrado tutto quel che si disse all’uscita, probabilmente prima ancora di averlo letto. Under the Dome ormai sembrava ormai passato nel dimenticatoio (con sollievo di tutti) ma ora che esce il telefilm bisognerà tornare a esaltarlo senza se ne’ ma (eccheppalle…).
L’unico romanzo di King che io ricordi che abbia, all’uscita, spaccato i fedelissimi è stato Cell: metà esaltò l’ennesimo capolavoro ma l’altra metà ammise che, per una volta, il King was naked. Oggi si fa finta che non sia mai esistito, per non riaprire vecchie ferite… Commento personale: la critica online e ‘genre-based’ è altrettanto faziosa e favoritistica e snobistica di quella ‘ufficiale’…
Sascha, consiglio un po’ di zucchero: fa bene, con questo caldo. 22/11/63 rimane, per me, uno splendido romanzo (e ti assicuro che prima di parlare di un libro lo leggo: mi dispiace per le tue allegre statistiche). Quanto a Cell, io continuo ad apprezzarlo. Quanto di fazioso, snobistico e “favoritistico” ci sia in tutto questo, ignoro. Però, davvero, relax.
Concordo sulle indubbie qualità del testo, da cui traspare fortemente una dimensione malinconica.
A me è sembrato un po’ romanzo del dubbio e della riflessione, a voi no? Malinconia a parte, o forse proprio malinconia, mi sembra che King stia riflettendo da un po’ di tempo sul proprio lavoro; Joyland potrebbe essere ancora un effetto di questa riflessione, che forse sarà dolce. Chi lo sa. Leggo così la malinconia che ho trovato nel romanzo.
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Loredana, vado OT e dico: beati voi che avete il caldo. Nel mio bosco fa freddo, ma freddo davvero. Datene un po’ anche a me, o tu o Sascha, di caldo, di calore, di sole: i pomodori tardano a crescere…
E scusami se ho accennato agli affaracci miei, è che se guardo le coltivazioni mi viene un po’ di malinconia che tento di condividere per trovare un poco di gaudio. King a parte.
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Un saluto 🙂