A PROPOSITO DI LAVORO, DI DENARO (MA ANCHE DI KING, E DI ELENA FERRANTE)

Cosa faresti, ragazza o ragazzo, per avere un lavoro?
“Il 28,2% direbbe addio ai giorni di malattia, il 26,6% alle ferie, l’11,1% alla maternità. Inoltre, il 30,3%, ha dichiarato che non avrebbe difficoltà ad accettare un impiego che non corrisponda al proprio corso di studi”.
Questi sono i risultati di una ricerca ACLI e CISL su mille ragazzi fra i sedici e i ventinove anni residenti a Roma. Non mi stupiscono, né dovrebbero stupire nessuno: il lavoro come ricatto, in cambio dei diritti, la distruzione di un’idea culturale e sociale di lavoro, lo sgretolarsi del concetto stesso di cultura come qualcosa che non serve a far parte di un’élite, ma arricchisce la vita di una comunità (e non solo di un singolo individuo).
A margine delle polemiche (che non sono evidentemente terminate) su Elena Ferrante, c’è chi sostiene che è il guadagno derivato a Ferrante dalla vendita dei suoi libri a giustificare sia il disvelamento sia l’eventuale accanimento nei suoi confronti. Nulla di più sbagliato, a mio modesto parere.
Non sono i soldi la causa prima dello stallo in cui troviamo oggi. Non “in sé”, per paradossale che possa sembrare. Lo stallo, semmai, si deve a un meccanismo che ti porta a barattare  speranza e  progetto di futuro per poter avere il minimo (e anche sotto quel minimo) di sopravvivenza. E quel meccanismo, contemporaneamente, ti porta ad attribuire le colpe alle persone (o alle situazioni) sbagliate. A risentirti per le vite degli altri. E, no, non funziona così.
Un piccolo esempio. Nel 2012, in un video molto diffuso in rete, Stephen King tenne un improvvisato comizio chiedendo di pagare più tasse.
Raccontò, in quel caso, di versare il 28% dei suoi guadagni: portate la cifra al 50%, disse allora, consapevole del fatto che la maggior parte dei suoi colleghi in dollari “preferirebbe cospargersi le parti intime con liquido infiammabile, accendere un fiammifero, e danzare intorno cantando Disco Inferno piuttosto di pagare un centesimo in più di tasse”. Cosa serve, allora, oltre a una patrimoniale? Qualcosa in più, qualcosa che vada oltre anche la solidarietà personale (King versa 4 milioni di dollari in beneficenza: ma questo, disse allora, “non porta lontano”).
Serve una responsabilità dello Stato, in materia di – sempre King –  sanità, povertà, educazione dei giovani, infrastrutture.
E serve un’altra cosa, che riguarda la cultura e quella che si potrebbe chiamare civiltà della conversazione, che conta tantissimo. La formula si deve sempre a King, in una delle sue recenti dichiarazioni contro Trump. Vincere la paura:
“Finché le persone hanno paura, è difficile fare un discorso razionale”.
Questo, per esempio, dovremmo tentare di farlo tutti.

5 pensieri su “A PROPOSITO DI LAVORO, DI DENARO (MA ANCHE DI KING, E DI ELENA FERRANTE)

  1. Apre una quantità di discorsi infinita, questo post. A voler tagliare con l’accetta, basterebbe forse ricordare a cosa serve (o dovrebbe servire) lo Stato, che in fondo ha pochi compiti fondamentali: garantire ai cittadini la salute, la sicurezza (anche in senso fisico), un’educazione adeguata (anche alla cittadinanza) e condizioni di vita dignitose (dove il concetto di dignità varia nel tempo). Questi, che sono doveri per lo Stato, visti dall’altra parte dello specchio sono diritti per i cittadini; per attuarli servono risorse (anche e soprattutto economiche) che lo Stato può reperire in due modi: indebitandosi e/o raccogliendo tasse, che rappresentano una redistribuzione del reddito dai cittadini più ricchi a quelli più poveri. A vantaggio anche dei ricchi, perché se un’intera popolazione scivola nel degrado materiale e nella privazione staranno peggio anche loro.
    E’ una esposizione breve ed estremamente pedante, lo so, ma di questi tempi mi pare quanto mai necessaria; per ricordare a quelli che secondo il Cyrano di Guccini “vanno chissà dove per non pagar le tasse / col ghigno e l’ignoranza dei primi della classe” che non è loro diritto chiamarsi fuori e che la proprietà non è qualcosa di sacro, ma può e deve essere toccata (tassata) per il benessere di tutti; e a quegli altri, estenuati dalla lotta per la sopravvivenza, che non si può abdicare a certi diritti fondamentali, che la strada giusta è pretenderli e non mercanteggiarli, perché se uno Stato abdica anche ai suoi compiti fondamentali non sappiamo più che farcene e diventa giusto anche tentare di abbatterlo.
    Entro la cornice dei doveri dello Stato (e dei doveri verso lo Stato, vale a dire verso la collettività) è corretto anche arricchirsi, senza che questo debba suscitare il livore montante oggi tanto di moda.
    Ecco, a me pare molto semplice. Tanto che non capisco bene il perché di tanta confusione che c’è in giro.

  2. Credo che il sondaggio dica la verità. Oltre alle istanze egalitarie (discutibili ma per l’appunto meritevoli d’essere discusse) stupisce come contemporaneamente in Italia abbiamo oltre un milione di immigrati in regola colla busta paga.
    Stando così le cose, evidentemente gli intervistati hanno cambiato opinione, visto che sono tutti lavori colle ferie e i giorni di malattia (la maternità non è detto) che molti italiani non avevano alcuna intenzione di fare.
    Evidentemente esigettero il meglio non accontentandosi del bene e finiranno per accontentarsi del male per paura del peggio, ma se hanno cambiato opinione una pallida speranza c’è.

  3. La mancata attuazione dell`articolo della costituzione sull`uguaglianza sostanziale che doveva fondarsi mettendo il lavoro al centro della scena, fermi restando i diritti civili garantiti dalla stessa carta, e` stata definitivamente affondata con gli interventi legislativi in materia degli ultimi 20 anni, che hanno invece creato l`ambiente ideale per una guerra tra poveri

  4. Mi chiedo però *perché* in Italia, nel 2016, si registri un dato culturale così allarmante. E una delle risposte che mi vengono, da individuo anagraficamente prossimo al campione citato e che con l’andazzo deprimente (e umiliante) del mercato del lavoro ci fa i conti quotidianamente, è che se queste persone percepiscono quei diritti come qualcosa di contrattabile e a cui si può persino rinunciare, è forse perché si sentono troppo “sole” per difenderli.
    I lavoratori e le lavoratrici delle nuove generazioni, “soli” e “sole” lo sono eccome. I punti di riferimento classici che hanno compattato le generazioni passate intorno ad un’identità… di classe (penso solo al sindacato) sono svaniti – non vengono percepiti più come uno strumento utile (perché, a conti fatti, non lo sono più, essendo radicalmente cambiata la loro funzione).

  5. Eppure è così semplice: Friedman (Milton) lo disse e lo scrisse sin dagli anni Settanta: Stato ridotto al minimo, e il resto all’autoregolazione del Mercato (maiuscola dovuta) con meccanismi di concorrenza feroce ovunque e tra chiunque per sollecitare la giusta (sic) dinamicità della società attraverso il merito (sottinteso: se c’è la povertà è per manifesta incapacità individuale, le cause sociali non sono pervenute); il tutto su scala planetaria (do-you-know-“globalizzazione”??) e passando per lo strumento monetario e finanziario come testa di ponte e unico regolatore possibile. Mi pare che sia stato fatto, no? Solo che negli USA, specie dopo il 2008, si stanno ponendo qualche domandina (e forse la stessa presenza di Trump incrementa la propensione agli interrogativi di fondo), mentre da noi si persevera su scala europea a “rintuzzare” senza prospettive di alcun genere… se non quelle dell’illusione nazionalistica e autarchica. Che sappiamo già dove portano.

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