Gran pezzo di Adriano Sofri, oggi. Merita la lettura mattutina.
La notizia ha fatto il giro del mondo: Eva Braun era ebrea. Lo prova il suo Dna, rintracciato grazie a una spazzola da capelli. La notizia voleva colpire: Che scherzi fa la storia! Però dava per assodato che l’antica questione di che cosa voglia dire essere ebrei si risolvesse (di nuovo) in un dato biologico: a definire l’essere ebrei è un’analisi del Dna. Ormai, oltretutto, alla portata di (quasi) tutte le tasche, in rete. Il razzismo biologico, dall’Ottocento in qua, aveva proclamato di fornire un fondamento scientifico alle sue due pretese essenziali: 1 che il genere umano si divida in razze diverse, e 2-che le razze non siano solo diverse, ma superiori e inferiori. Inferiori fino al punto di meritare d’essere sterminate. Se il primo assunto, l’esistenza di razze diverse, fosse stato vero, la conseguenza — superiori e inferiori, fino alla “subumanità” — non sarebbe stata meno arbitraria, infame e criminale. Quella pretesa “scienza”, cui l’accademia italiana del ventennio si prostituì largamente, non era la premessa dell’odio razzista, ma la sua serva.
La genetica ha dimostrato la fallacia della nozione di razza (leggere Luigi Luca Cavalli Sforza): le diversità che impariamo ad apprezzare crescono su una formidabile omogeneità e somiglianza. Impareremo anche, prima o poi, a sentire più la somiglianza che la distanza dagli altri animali. Tuttavia questo, che è davvero un progresso, è contraddetto dall’invadenza con cui le meraviglie della genetica diventano luogo comune: “È nel mio Dna”. Una volta era il sangue, che “non mentiva”… Ma nel nostro Dna non è scritto niente di quello che pensiamo diciamo o facciamo, del gioco difensivo o di attacco della nostra squadra, della onestà del nostro partito, dell’avarizia di nostra zia. Ci siamo così abituati a giurare sul nostro Dna, da non batter ciglio alla notizia che Eva Braun era ebrea. Il che non è escluso, naturalmente. Poco tempo fa Csanad Szegedi, il numero due di Jobbik, il partito neonazista ungherese, sfegatato persecutore di ebrei, ha scoperto di avere un’ascendenza ebraica, si è dimesso e ha invocato il perdono del rabbino capo di Budapest. Del resto, in Ungheria non c’è beninformato che non vi confidi che la madre di Orbàn era una signora rom. La genetica aiuta a fare bellissime scoperte sulla storia delle popolazioni, dei loro spostamenti, dei loro incroci. Questo riguarda anche popolazioni ebraiche, in particolare la più vasta, e più enigmatica quanto alla provenienza originaria, l’ashkenazita. Le ricerche, via via più sofisticate, sul Dna ricostruiscono percorsi e incontri possibili: possibili, perché nemmeno qui c’è la certezza, e risultati diversi si confrontano, e non di rado premesse diverse li influenzano. C’è una forte probabilità che gli ashkenazim siano arrivati in Europa orientale a partire dal Vicino Oriente. I biologi statistici che la misurano, così come i loro colleghi archeologi che scavano la terra invece che le molecole, devono guardarsi dal mirare a identificare, a parti rovesciate, una irriducibile identità ebraica, e a fare del legame antico con un territorio una ragione del diritto attuale a quel territorio. Oltretutto, per la biologia come per l’archeologia e la gastronomia e tutto il resto dev’esserci una prescrizione. Grazie al Dna si ricostruisce un’ascendenza paterna, dal cromosoma Y, o materna, mitocondriale. Nel caso della materna, molte ricerche sembrano arrivare a donne, specialmente italiane o europee, sposate da immigrati ebrei e convertite all’ebraismo: circostanza che mostra come ci si muova dentro una storia culturale e non una predestinazione biologica. Queste ricerche, così delicate per il bilico tra determinismo genetico e vicenda storico-geografica, sono piene di fascino: ho scoperto dopo aver deciso di scrivere questo articolo un recupero postumo dello studio di Arthur Koestler sulla “Tredicesima tribù” (1976). L’autore di “Buio a mezzogiorno” raccontava l’impero guerriero dei Cázari, tra il V secolo d. C. fino alla caduta di Bisanzio, nel nord del Caucaso, che nell’VIII secolo, di fronte alla pressione musulmana, si era improvvisamente convertito alla religione, alla lingua e al costume ebraici. Spinti verso occidente dall’avvento dei nordici rus e di Gengis Khan, i cázari sarebbero diventati — qui era la spettacolosa tesi del libro — gli ebrei ashkenaziti di Polonia, Ucraina, Ungheria, Lituania: dunque le più numerose vittime dell’antisemitismo nazista non sarebbero state semite, bensì turchiche, legate al Caucaso rivendicato dagli “ariani” e non alla Palestina. Gran libro, che consiglio, e gran rumore e scandalo, anche. Il libro era, e probabilmente resta, molto più suggestivo che convincente. Oggi alcuni biologi hanno creduto di provarne attraverso l’indagine genetica la fondatezza: altrettanto suggestivamente, ancor meno convincentemente.
Gli studi più accreditati assegnano all’80 per cento dei maschi ebrei e al 50 per cento delle femmine una provenienza ancestrale dal Vicino oriente. La quota mancante spetterebbe a conversioni e matrimoni misti. Nella disputa fra sostenitori scientifici dell’omogeneità genetica degli ebrei e di un’origine largamente prevalente in Palestina, e i loro avversari, riaffiora costantemente la dannata tentazione di ricavare dalla biologia conseguenze culturali e perfino politiche. Vedo che Harry Ostrer, pur fautore dell’omogeneità “razziale” e della partenza mediorientale, resiste tuttavia a quel “riduzionismo”, e sottolinea che alcuni marcatori genetici sono comuni a ebrei e palestinesi. (Anche se così non fosse, la questione politica — il mutuo “diritto al Ritorno” — non ne sarebbe toccata). Lo storico Shlomo Sand, discusso epigono dell’“ipotesi cázara” e antisionista, aveva comunque ragione a sottolineare che «una volta dire che gli ebrei sono una razza era antisemita, ora dire che non sono una razza è antisemita: la storia si diverte a farci impazzire».
Il Dna ci rende individualmente diversi, e differenzia anche i gruppi. La loro influenza fisica è sensibile. L’isolamento in cui gli ebrei hanno vissuto o sono stati forzati e la quota di endogamia fa sì che la ricerca mirata alla cura delle patologie vi trovi un campo privilegiato. È il futuro della genetica, cui si affidano progetti (e affari) spinti fino all’immortalità. Dalla mappatura del genoma dei 320 mila islandesi (che non sono una razza) si promette una terapia dell’Alzheimer. Sul resto, l’intelligenza, i modi di vivere, la cultura, i geni non hanno la prima parola, né l’ultima. Forse Eva Braun ebbe parenti ebrei. Nel 2010 un’indagine belga condotta sul Dna salivare «di 39 discendenti di Hitler» dichiarò di aver rintracciato «il cromosoma Aplogruppo Eib 1b1, comune fra ebrei ashkenazim e sefardim, e fra popoli nordafricani ». Mah. La mia è una modesta proposta: piantiamola di dire “ce l’ho nel mio Dna”. Se ce l’ho, ce l’ho altrove.
La parte più interessante della “modesta proposta” di Sofri è la prima: “piantiamola di dire…”.
Questa fiducia nel linguaggio commuove.
E’ un vero peccato che in questa valle di lacrime non tutti i problemi siano risolvibili giocando con le parole.
Non lo sostiene Sofri, non lo sostengo io. Ma dalle parole, che lo si voglia o meno, si parte.
Un paio d’anni fa vidi qui a Roma una meravigliosa mostra, “Homo sapiens. La grande storia della diversità umana”, curata proprio da Cavalli Sforza e Telmo Pievani. Anche se ce ne fosse stato bisogno, e secondo me non ci sarebbe se le persone usassero di più il cervello, un giro per quelle sale non avrebbe lasciato alcun dubbio sull’infondatezza di qualsiasi analisi genetica a fini razziali e politici, Le razze sono solo una convenzione utile per tracciare i profili degli studi antropologici e genetici, ma non hanno un fondamento che sia uno. Non esistono. Nel perenne migrare da una terra all’altra, da un continente all’altro, non abbiamo fatto altro che mescolarci. Tutti siamo ebrei come siamo anche palestinesi, siamo neri e siamo ariani. Ma poi, se riflettiamo sul fatto che condividiamo più del 99% del DNA con scimpanzé e bonobo e l’80% con una banana, quanto mai potrà pesare la marginale differenza genetica tra un essere umano e un altro? E che dire della deliberata ignoranza del fatto che è l’ambiente il trigger che fa esprimere o meno i geni, cambiando radicalmente ciò che siamo o che potremmo essere? Per non parlare del fatto che, alla fin fine, siamo più cultura che natura. Ma il problema di chi cerca fondamenti identitari nel DNA è tutto nella testa, e non sarà la scienza a convincerlo dell’assurdità di ciò che dice.
Forse sarebbe meglio non dire che con la banana condividiamo l’ 80% del DNA. Altrimenti nessuno si impressiona a dovere quando diciamo poi che con i bonobo ne condividiamo il 99% 🙂
Personalmente il concetto di “razza”, più che convenzionale, lo definirei vago: più la parentela tra individui diventa indiretta, più subentrano diversità nel patrimonio genetico. Dove subentra il “cambio di razza” ovviamente nessuno lo sa, qui si che ci si basa su convenzioni. Cio’ non toglie che possa essere utile stabilirle: in campo medico sembra esserlo, per esempio.
Poi mi sa che c’ è il problema più generale. Quanto conta la natura? E la cultura’ E le istituzioni? E il linguaggio? La cosa più onesta consisterebbe nell’ attribuire delle percentuali (che in parte sono sempre soggettive). Purtroppo non sappiamo convivere con le percentuali in testa, ci intralciano, ci tolgono passione nelle nelle discussioni, ci sottraggono il “nemico” ideologico. Molto più facile puntare su un solo cavallo e dimenticarsi gli altri. Forse il nostro cervello è “cablato” per fare questo errorino 🙂
Broncobilly, uso ad annichilir platee con percentuali e numeri, non sa di star parlando con uno statistico serio (Maurizio). 🙂
Apprezzo molto l’articolo per l’onestà emotiva, che arriva. Dice anche cose interessanti e giuste sulla questione biologica delle differenze. E questo tipo di prospettive aiuta sempre.
Tuttavia il problema è la gestione della differenza e della reazione emotiva che suscita, e non si risolve con l’eliminazione della differenza, con la sua relativizzazione, messa tra parentesi etc. Il problema è la reazione asimmetrica, e l’eventuale gestione di osservazioni che producono quell’asimmetria. Sono generalizzazioni debite o no? Ah certo la generalizzazione è sempre indebita, ma ci sono anche situazioni socioeconomiche in cui un razzismo e pregiudizio pregresso hanno alimentato quegli aspetti che si identificano con quel gruppo etnico. E soprattutto ci sono coaguli sentimentali e culturali che fanno dell’appartenenza a una vituperata razza un assetto identitario. Mi irrita molto quando – viene sempre da sinistra – l’attaccamento alle matrici identitarie e religiose viene attaccato, denigrato, relativizzato. Sei ebrea, ma non sei mica praticante veroooo? O quando si scotomizza il problema del giudizio di valore su organizzazioni culturali che hanno usanze che noi non condividiamo eticamente. Intorno alla differenza c’è un nodo. E davvero eliminare il ce l’ho nel dna, per me fa poco.
l’impero guerriero dei Cazzari e l’ipotesi cazzara, poi scopro che cazari deriva da un termine turco che significa vagabondare, cazzeggiare. Le parole fanno strani giri e poi tornano alla radice.
e comunque si fingevano ebrei, quindi l’ipotesi Cázara ha un suo perchè
@Broncobilly: un concetto non può essere vago. O esiste o non esiste, la logica in questo caso è brutalmente binaria. Del resto Wittgenstein diceva che “di ciò di cui non è possibile parlare si deve tacere”, e un concetto vago cos’altro è, se non “ciò di cui non è possibile parlare”?. In questo caso la razza – anche nell’ambito medico che tu richiami – è niente più che il risultato di una cluster analysis; se fatta con criteri statistici o invece inconsapevolmente, sulla base di giudizi a priori, qui poco importa. E quindi ribadisco la mia posizione: la razza, che esiste come concetto, non esiste empiricamente. Esistono cluster di individui più o meno vicini, più o meno lontani da un certo archetipo, che costituisce il centro del cluster. Ma questo centro è arbitrario, lo possiamo mettere dove vogliamo a seconda dell’uso che ne vogliamo fare. Cluster (non voglio più usare la parola razza) costruiti per un impiego in campo medico, per esempio, potrebbero rivelarsi del tutto inadatti a ricerche di carattere antropologico. L’uso di percentuali, oltre che impossibile (come si fa a dire se uno è “al 20% ebreo”, o eschimese, o watusso? Contiamo i geni? E chi lo stabilisce, quali sono i geni dei watussi?) è altrettanto pericoloso di quello del concetto di razza. A Hitler non sarebbe parso vero, poter misurare “l’ebreitudine” in questo modo: sarebbe bastato mettere un’asticella arbitraria su una certa percentuale et voilà, fatto il gioco. Invece non riuscirono mai, i suoi esperti, a trovare un solo criterio antropometrico identificativo della presunta razza ebraica. Tanto che l’unica definizione ufficiale che il nazismo riuscì a fornire fu, obtorto collo, quella riferita alla confessione religiosa.
Forse basterebbe prenderci piena responsabilità delle cazzate che diciamo o facciamo senza ascriverle al nostro codice genetico o alla “cablatura” del nostro cervello. No perché le scienze cognitive, così come la genetica, sono una gran cosa, ma diventano demenziali quando vengono usate come alibi per i propri limiti culturali.
La notizia su Eva Braun ebrea è una scemenza criminale: difficile immaginare un giornalismo peggiore. In primo luogo, per le leggi naziste Eva Braun non era ebrea perché, presumo (e forse basta una ricerca d’archivio), non solo i suoi genitori, ma almeno tre nonni su quattro non erano ebrei. Se i suoi eventuali antenati ebrei si fossero convertiti al cristianesimo e avessero reciso anche i legami con la tradizione culturale aschenazita (e cancellato, forse, le cicatrici delle persecuzioni subite), come può lei, che non dice e non vuole dirsi ebrea, essere considerata ebrea?
Vorrei ricordare che ciascuno di noi ha due nonni, quattro bisnonni, e poi otto, sedici, 32, 64, 128 (e ancora il doppio a ogni generazione) antenati… Una sequenza del DNA (significativa per la far la storia delle migrazioni e per determinare magari la lattasi deficienza, ma non per predestinare il carattere individuale) si può trovare tra i gruppi umani più disparati. Esistono, tra l’altro, micromigrazioni che sfuggono alle tendenze generali. E poi, diciamolo, se Eva Braun fosse stata la figlia di una rabbina riformata che cosa cambierebbe del nazismo? Milioni di tedeschi votarono Hitler perché erano intimamente convinti che Eva Braun fosse ebrea?
Ho cancellato le parolacce. Scusate la fretta.
L.
In genere se un termine esiste, possiede un riferimento.
Maurizio, purtroppo o per fortuna termini e concetti vaghi ESISTONO nel nostro linguaggio, non solo, sarebbe controproducente espellerli o rimpiazzarli con nozioni precise. Il dibattito è piuttosto sulle motivazioni della loro importanza http://people.bu.edu/blipman/Papers/vague5.pdf
Giusto segnalare il pericolo razzista. Il mio dubbio è se farlo al grido “le razze non esistono” non sia pericoloso visto che anche l’ anti-razzismo ottuso fa danni quando con i suoi pregiudizi ostacola, per esempio, una ricerca medica promettente: http://www.nytimes.com/2002/07/30/science/race-is-seen-as-real-guide-to-track-roots-of-disease.html
Sulle percentuali, forse non mi sono spiegato bene. Anche se rileggendomi mi sono capito.
Due genitori, quattro nonni ecc. Su questi argomenti mi agito troppo!
A broncobilly
La parola “razza” esiste, certo. Si riferisce a qualcosa: aspetto, storia, ideologia, razzismo, schiavismo, “lotta delle razze”, rapporti di potere ecc. Le “razze”, per esempio, sono cliché utili per le schedature e gli identikit della polizia.
Qui si dice che le “razze” non sono significative da un punto di vista biologico. Insomma, si possono riconoscere (e anche qui ci sarebbe da discutere) diverse fisionomie e pigmentazioni della pelle, ma questo, per la scienza di oggi, non basta a classificare e distinguere, se non in modo superficiale (potremmo dire dermatologico), differenti tipi umani.
La medicina… Tra i baschi c’è un’alta percentuale di Rh negativo, ma i baschi non sono certo tutti Rh negativo (la metà? e se anche fossero l’80%?). Pare che in certe regioni dell’Africa, ma non in tutta l’Africa, molte persone abbiano un metabolismo adatto alla corsa veloce (devono tutti rinunciare agli scacchi per diventare centometristi?). Si legge che in certe regioni dell’Africa ci siano molte persone intolleranti al lattosio. Da questi dati statistici, da queste tendenze, talvolta si passa a modelli teorici molto parziali, più o meno predittivi e fondati, e talvolta allo stereotipo.
@Broncobilly: direi che proprio non ci siamo. Il paper che segnali recita: “When one thinks about language as spoken by real people on a day-to-day basis, it is hard to ignore the fact that much of what is said is vague”. Il linguaggio può sì essere vago e di fatto lo è, ma parliamo del linguaggio ordinario, quello di tutti i giorni, che viene anche definito “subottimale” da una prospettiva paretiana. E questo, concorderai, non può valere per il linguaggio della scienza.
Quanto al pezzo del NY Times, brilla per autocontraddittorietà; vi si legge: “a proposal for avoiding racial labels, at least for drug trials, has recently been made by Dr. David Goldstein, a population geneticist at University College, London. He has suggested that patients be assigned to different genetic groups by analyzing their DNA. The process gives much the same result as asking people to identify their ethnicity, but yields a more accurate division in terms of how people respond to drugs, Dr. Goldstein says”. Che è esattamente quanto ho sostenuto io: invece di accontentarsi di una cluster analysis inconsapevole e suscettibile di strumentalizzazione politica quale è la suddivisione in razze, facciamone una ad hoc per ogni scopo per cui la riteniamo utile; nel caso specifico, per la ricerca medica. Il fatto che a questa proposta si controbatta semplicemente che “In asserting that race is a valid concept for medical research, Dr. Risch has plunged into an arena where many fear to tread. He also takes issue with Dr. Goldstein’s race-idestepping proposal, saying it will lead to confusing results”, senza specificare perché i risultati sarebbero “confusing”, non depone a favore di chi usa questa argomentazione.
Ma andiamo oltre, perché in questo caso è necessario. In statistica si ripete fino alla noia che correlazione non è certezza: sicuramente in certi gruppi alcuni geni sono più presenti che in altri, ma ciò non vuol dire che TUTTI gli individui di quei gruppi abbiano QUELLA particolare sequenza genetica; ci saranno individui diversi, magari molti, che sarebbe sbagliato curare sulla base di terapie messe a punto con un occhio a quel particolare gruppo. Perché la terapia, sarà banale dirlo ma repetita iuvant, è individuale. La caratterizzazione in termini di cluster è certamente utile a livello epidemiologico e a fini di programmazione sanitaria: se so, come riporta l’articolo a titolo di esempio, che nella mia popolazione è alta la prevalenza dell’anemia falciforme (una mutazione maturata in popolazioni africane perché nella variante recessiva offre protezione contro la malaria, meccanismo simile a quello dell’anemia mediterranea) mi attrezzerò con centri e presidi di cura in misura maggiore di quanto non farò rispetto a una patologia meno presente, ma non curerò ciecamente le persone come se tutte fossero portatrici di quella variante genetica.
Il discorso non è banalizzabile, e ripeto: se a volte suddividere le persone in base a caratteristiche antropometriche è utile (e spesso lo è), i gruppi vanno creati ad hoc; perché è un metodo più rispondente all’obiettivo che ci si è prefissi, e anche perché si sterilizza sul nascere ogni tentativo di strumentalizzazione.
Poi – parlando di anemia mediterranea mi è venuta in mente questa cosa – bisognerebbe anche tenere conto dell’inutilità di qualsiasi sforzo raziocinante, se al dunque la programmazione si fa tenendo in mano testi religiosi invece della legge dello Stato. E’ di oggi la notizia che la Corte Costituzionale ha finalmente demolito l’ultimo tassello di quel mostro giuridico che è la legge 40: il divieto di fecondazione eterologa. In precedenza aveva rimosso il divieto di diagnosi pre-impianto, proprio in seguito al ricorso di una coppia portatrice di anemia mediterranea. Ecco, a che serve de-ideologizzare (giustamente) la ricerca, se poi i suoi frutti vengono sottratti a chi ne ha bisogno in nome di paturnie metafisiche che affliggono una parte minoritaria ma purtroppo assai rumorosa (e corteggiata) dell’elettorato?
Sarà veramente dura quando dovremmo ammainare le nostre certezze ideologiche che fino ad oggi abbiamo chiamato scienza dovendo constatre che gli argomenti dei razzisti, che oggi ci fanno ridere, purtroppo sono giusti. Le razze esistono, ahimè. Purtroppo le narrazioni umansitiche fanno male quando si rivela la loro infondatezza. Cosa è successo? Che dopo la seconda guerra mondiale i paleontologi e gli antropologi, umanisti, of course, sono stati animati da due scopi nobilissimi: eliminare il concetto di razza, memori dello scempio fatto dai fascismi di tutta europa; emancipare i neri americani dalle ghettizzazioni sociali dei bianchi. E cos’hanno fatto? Hanno barato, avendo pochi dati in mano, pregenetici, e andando a ruota libera nella loro narrazione di un homo sapiens che nasce in africa si diffonde, ha a che fare con l’altra specie, il neanderthal, con cui non si è mai ibridato. Il neanderthal è scomparso quindi deriviamo tutti dal solitio ceppo e le razze sono costrutti culturali, e bla bla bla. Chi di noi non è stato educato a questo racconto, tale per cui chiunque parli di razza oggi lo releghiamo alla povertà intellettuale dei poveretti o dei fanatici?
Eppure, ahimè, hanno ragione loro e quello che sta per succedere porterà qualche problemuccio.
Si è scoperto infatti molto recentemente dna del Neandertal di nuovi esemplari e nuovi reperti manufatturieri. E pare che le cose siano andate un po’ diversamente. Certo, chiunque razionalmente avrebbe dovuto chiedersi come una specie che ha un cervello più grande e una fisico di potenza enorme rispetto al mingherlino sapiens, oltre a una cultura elaborata che fino a poco tempo fa non si sospettava, sia potuto soccombere al Sapiens sapiens solo perché quest’ultimo aveva una lancia di qualche centimetro più lunga. E sembra che ci siamo sbagliati di brutto a interpretare il dna mitocondriale perché non sono stati i sapiens a ingravidare le neanderthal ma l’opposto.
Tagliamo corto: i genetisti negli utlimi 4 anni si stanno dicendo che il neandertal ha lasciato a noi europei il 3% del suo dna. Se consideriamo che tra noi e lo scimpanzè. com’è stato fatto notare sopra, la differenza è ancora inferiore, arrivano i problemi perché la Scienza è abituata a cofutare se stessa, progredendo nella conoscenza, ma per l’uomo della strada la cosa sarà presa molto male. Per non parlare delle conseguenze politiche dei razzisti di oggi che non hanno parola, ma che da domani potranno vantare di avere ragioni: le razze esistono, ciascuno potrà farsi l’analisi del suo dna per scoprire quando neandertal c’è in lui. Se invece di sparare narrazioni umanistiche a fin di bene, con poche prove e inventando di brutto, si fosse subito impostato il discorso
nei termini dell’esistenza delle razze il problema non sarebbe nato: sì, le razze esistono e magari i l neandertal è pià intellignete del sapiens africano. Ma, si badi bene, la variabilità di ciascun individuo non permettebbe comunque di predire l’intelligenza o la stupidità del singolo. Perciò si sarebbe potuto ottenere pacificamente l’obiettivo di non schiavizzare nessun singolo in nome della razza. Invece poiché si sono dette puttanate che saranno confutate a breve nel mainstream, ci beccheremo per colpa del “potere della narrazione” il riflusso dei razzisti che avranno dalla loro argomenti scientifici e magari ce li sbatteranno sul naso a fianco delle loro politiche xenofobe.
E ci toccherà tacere.
“tra un paio di secoli si estingueranno le orribili razze bianche,ormai stampo di gesso consunto,e,da quel momento in poi ogni persona sarà un essere insolito,un pezzo ibrido,unico e affascinante,sorto dalle fortuite fabbriche di assemblaggio delle cellule.E addio al razzismo,ai nazismi e alle noiose successioni di esseri insulsi nati dall’endogamia.”
Lo sposo del mondo -felipe Benitez Reyes
Per chi parla di razze, si sappia che le più recenti ricerche scientifiche hanno dimostrato l’esistenza della cosiddetta “eva mitocondriale”, il cui DNA è meta umano e metà cylone (non Ignazio, mi raccomando).
Maurizio, avrai notato che io non ho contestato il modo in cui hai definito il concetto di “razza”. Come avrei potuto farlo? Era la versione prolissa di quanto già stato esposto in modo semplice. Si contesta piuttosto l’ azzardata conclusione: “le razze non esistono”. Un azzardo filosofico, direi.
Uno scienziato saprebbe descrivere anatomicamente un sorriso ma non saprebbe dirci quando inizia un “sorriso”. Forse allora che i sorrisi non esistono perché la parola “sorriso” appartiene al vago linguaggio ordinario? I sorrisi esistono eccome, solo che il termine ha un riferimento vago.
Vedi, Sorite notò che il concetto di “mucchio di sabbia” era alquanto vago. Possiamo parlare di “mucchio” dopo il secondo o dopo il terzo granello accumulato? Boh, non lo sappiamo. Ma non concluse per questo solo fatto che i mucchi di sabbia non esistevano! Un termine vago avrà un riferimento vago e flessibile ma non inesistente.
Luigi, il nostro patrimonio genetico è ereditario. Ok? Esiste poi una “distanza parentale” sempre calcolabile in teoria tra due individui scelti a caso sulla faccia della terra. Noi due possiamo essere cugini di primo grado, di secondo, di 62esimo, ecc. Poiché il patrimonio genetico è ereditario, questa distanza parentale esprime anche una presumibile distanza nelle dotazioni iniziali. Puo’ darsi che oltre un certo grado questa “distanza parentale” sia rilevante su certe questioni. In questi casi puo’ far comodo il concetto di “razza umana”. Se fa davvero comodo, allora è molto più… “comodo”… assumere che le razze esistano. E, faccio una precisazione che ritenevo inutile, conta ben poco se un individuo non presenta gli outcome tipici del “gruppo razziale” a cui appartiene. In queste materie si ragiona sempre e solo in termini di distribuzione probabilistica, l’ unico strumento che ci consente di fare scommesse razionali sulle cause iniziali. Questo perché un individuo è determinato da molti fattori e la sua razza (qualora esista) è solo uno di essi, magari nemmeno il più importante.
Ora, chi respinge il concetto di razza dovrebbe rifiutare anche il concetto di “distanza razziale”. Ma questa posizione è a dir poco imbarazzante. Mi spiego meglio con un esempio.
Assumiamo (ipotesi!) che uno studioso noto per lo scrupolo dei suoi lavori si esprima in questi termini: … dalle mie ricerche emerge che i nostri concittadini di origine asiatica possiedono (distribuzione probabilistica) un IQ superiore a quello dei concittadini di origine africana. Emerge altresì che il differenziale è spiegato solo parzialmente dal SES, e che quindi l’ innatismo gioca senz’ altro un ruolo. Ora, in considerazione degli elevati costi di selezione individuale proponiamo che sia interdetto ai membri del secondo gruppo di presentare domande di assunzione presso la pubblica amministrazione XY che mi ha commissionato gli studi.
Lo studioso viene accusato immediatamente di “discriminazione razziale”.
Risposta pacata dell’ interessato: l’ accusa mi appare risibile poiché io nemmeno credo all’ esistenza delle razze. I gruppi umani di cui alla ricerca sono selezionati con una mera convenzione in vista di un’ utilità finale ben precisa, ovvero migliorare l’ efficienza della pa che mi ha commissionato gli studi.
Ecco, chi nega l’ esistenza delle razze si ritrova nella grottesca posizione di dover accettare la giustificazione dello studioso. Come puo’ infatti essere razzista chi non crede nell’ esistenza delle razze?
Io, per fare un esperimento, chiederei a chiunque creda nella possibilità di suddividere l’umanità in razze di farne un elenco.
A Broncobilly
Lo studioso che ipotizzi, con la sua ricerca farlocca, crea di fatto due razze e propone di escluderne una. Non importa che la razza esista, né che la si chiami razza, per crearla. Ogni volta che si naturalizza (e allontana da storia, società, politica, possibilità di trasformazione) una distinzione di lingua, cultura, religione tra gruppi umani, si può creare una “razza” che non ha base biologica. Ti propongo Burgio e Gabrielli, Il razzismo, Ediesse (parla di razzizzazione, della costruzione storica e simbolica delle razze).
Oppure ti consiglio di leggere qualcosa del genetista Cavalli Sforza.
Tra due africani ci può essere più distanza genetica che tra un europeo e un africano. Tra due neri ci può essere più distanza genetica che tra un nero e un bianco. Mediamente tra europei e africani c’è, per esempio, meno distanza genetica che tra africani e australiani.
Nel dialetto dei miei nonni paterni la “raza” è la discendenza genitori, figli, nipoti. Certo, i genetisti individuano maggiore o minore prossimità genetica tra singoli o tra gruppi umani, ma ritengono che sia inadeguata la divisione in razze o l’uso di termini come “distanza razziale”. In particolare è del tutto assurda una divisione tra gruppi umani in base al colore della pelle e alla fisionomia del volto. I pochi geni che determinano questi caratteri non possono fondare una tassonomia utile (se non siamo interessati alla schedatura poliziesca o alla produzione di creme solari).
Ciao.
PS
A uomocheride
Confondi (forse apposta) le percentuali di distanza genetica (tra diverse varietà di sapiens o tra sapiens e bonobo) con le percentuali di ipotetico lascito genetico (del neanderthal agli esseri umani odierni). E’ ovvio che tra sapiens sapiens e neanderthal c’è meno distanza che tra sapiens e bonobo.
Perché l’esistenza del neanderthal, e il meticciato tra diverse specie di sapiens, dovrebbe creare una razza? Perché questa “razza” dovrebbe “esistere” se non ha valore scientifico (predittivo ecc.)? Tra africani (vedi sopra) ed europei la distanza genetica non è certo più rilevante che tra altri gruppi umani. (…)
esistono differenze fisiche, bisogna vedere se esistono differenze intellettive e attitudinali.