Ora, chi, come me, ha una certa frequentazione con la fantascienza, la distopia, l’horror e tutto quello che fin qui ha dato il mal di pancia ai realisti (penso che sia in atto una rapida conversione collettiva, ma vedremo), sa una cosa: i flagelli non rendono migliori i sopravvissuti. Quando una società incappa in una catastrofe, che sia un’epidemia, una guerra nucleare, un inciampo del caso che la sfoltisce, la inchioda al dolore e all’orrore e infine la lascia andare al suo cammino contando i morti, i superstiti non realizzano alcuna utopia. Tutt’altro. D’abitudine, provano a restaurare un ordine ancora più duro di quello che si è dissolto, perché, è la convinzione comune, se qualcosa non ha funzionato significa che non c’era abbastanza disciplina. All’interno di questa restaurazione ci sono naturalmente i più duri, gli sceriffi nati, quelli che si leccano i baffi alla parola coprifuoco. Quasi sempre ci sono i mediatori, più politici e carismatici, ma in genere preferiscono lasciare la partita e andarsene in cerca di non si sa cosa, ma lontano. Ci sono anche i ribelli, ovviamente, ma pochi. Perché è talmente importante essere vivi che quel che conta è continuare a esserlo, e dunque su, rimbocchiamoci le maniche, benvenuto mondo nuovo.
Non che il mondo dopo la seconda guerra mondiale, se ci pensate, fosse un mondo buono. Fate due conti, ripassate la storia, e riflettete su quanto è stato fatto, e se davvero chi era uscito dalle tenebre lo ha fatto cambiando se stesso, diventando una persona migliore e generosa e splendidamente visionaria se prima era una carogna. A volte è avvenuto, intendiamoci, ma questo automatismo secondo il quale la sofferenza scava in noi tirando fuori il buono che celavamo non ha ragione di essere.
Dunque, guardo con preoccupazione a quello che sta emergendo in questi giorni, il tutti contro tutti che affiora come una bolla sull’acqua, e poi un’altra e un’altra ancora. Persino quando ieri, su Facebook, ho provato semplicemente a raccontare come tiravo avanti, passo passo (il che non significa che ci danzo la giga, con quei passi: semmai trascino i piedi, come tutti, provando a non fermarmi, scivolare in ginocchio e piangere: serve? Magari a me, ma non alle persone con cui vivo), è arrivato qualcuno che dice che invece è il momento di arrabbiarsi.
E se ci arrabbiamo? Mamme contro vecchi (sì, cari, si sta delineando questo), disoccupati contro lavoratori il cui stipendio è stato prosciugato, affittuari contro proprietari di case, Sud contro Nord? Arrabbiamoci. E poi? Certo che ci sono responsabilità che dovranno essere punite, come in Lombardia. Certo che siamo smarriti, spaventati, infelici, preoccupati. Ma, ripeto, una volta che abbiamo giocato al gioco della torre, e buttato giù i vecchi, i malati, i fumatori, i vulnerabili, che mondo abbiamo costruito? E, se posso, cosa avverrà e cosa sta già avvenendo delle donne, nella stragrande maggioranza dei casi già al centro di un ritorno all’indietro che le vuole contemporaneamente a occuparsi di figli, genitori anziani se conviventi, e smart working quando c’è?
Non voglio aggiungere angoscia ad angoscia, ma sarebbe meglio non sperare in un interruttore magico che, una volta affievolita l’emergenza (affievolita, non sparita, facciamo pace con questo concetto: ci sarà un’altra ondata con molta probabilità, e poi ancora come le onde del mare, finché il mare stesso non si calmerà: non prima di un anno e mezzo) ci restituisca al mondo nuovi, cordiali, positivi. Saremo peggiori. Ci stiamo già diventando, e in questo i social sono un’ottima spia. A meno, certo, di non restare lucidi, e di non ripeterci ogni minuto che la morte, o la rovina, degli altri non ci ha mai salvato e non ci salverà adesso.
Sanno che se quell’infelice non fosse là a piagnucolare nel buio, l’altro, il suonatore di flauto, non potrebbe suonare una musica gaia mentre i giovani cavalieri si allineano, bellissimi, per la corsa, nel sole della prima mattina d’estate. Adesso credete in loro? Non sono un po’ piú credibili?
Ursula K. Le Guin, Quelli che si allontanano da Omelas
http://ilpescatorediparole.blog.kataweb.it/ Loredana,
le tue sono considerazioni amare ma realistiche. Se ascoltiamo l’eco che arriva dai social, dai media, dalle fonti esterne alle nostre capsule di sopravvivenza, non possiamo non convenire che è già in atto una caccia ai colpevoli, un tutti contro tutti che non ci porterà da nessuna parte e servirà solo ad alimentare una rabbia cieca. Credo invece che il dopo epidemia potrebbe rappresentare una straordinaria occasione per ripensare le nostre esistenze in termini nuovi. A cominciare dal linguaggio che “crei” un nuovo lessico. Una lingua nuova che faccia riferimento a nuove categorie di pensiero è, io penso, cosa necessaria. Occorre fondare,fondare, una società che superi questa neoliberista dominata dalla finanza e dalla concentrazione di enormi fortune nelle mani di pochi. Siamo nell’ultima fase del capitalismo e l’accumulo di capitale non passa più attraverso il possesso dei mezzi di produzione ma dal possesso dei dati e della proprietà intellettuale. Tutto questo, amplificato dalla virtualità del mondo digitale, porta a compimento l’operazione cominciata nei campi di concentramento nazisti di annullamento dell’individuo, della persona. Solo così possiamo spiegarci la nostra indifferenza verso le quantificazioni numeriche di quanti soffrono o perdono la vita a causa del disequilibrio che domina il mondo. Redistribuire la ricchezza, ridisegnare le città, mettere l’ambiente al centro di un grande progetto mondiale, un nuovo umanesimo insomma, ma che riservi pari dignità a flora, fauna e risorse naturali.
Io credo che,metaforicamente, questo virus sia un anticorpo generato da un sistema che non ci regge più.
Scusi la prolissità.
Continuiamo a ripeterci che alla fine della fiera saremo migliori di adesso, solo per sentirci in grado di cambiare noi stessi in positivo e che quindi anche la cosa peggiore che può capitarci non sarà una condanna, perché già adesso non siamo un granché, ma una manna dal cielo che ci eleverà. È umana la cosa, forse…
Anch’io penso e vedo che non siamo più buoni, più tolleranti, più tranquillamente consapevoli di andare in una direzione comune, giusta.
Io per prima non riesco a trovare le armoniche con cui rapportarmi agli altri che non capisco e non mi capiscono.
Devo lavorare molto, molto sulle reazioni e smorzarle di parecchio.
Ma le cose non credo siano andate sempre male.
Sarà perché non avevamo niente da perdere dopo la seconda guerra mondiale, ma tutto da guadagnare e conquistare, che un dottore che stimo tantissimo (una persona nata alla fine del ’44), un vero intellettuale che conosceva il corregionale Andrea Camilleri anni prima che diventasse scrittore amato dai più e comunque un grande lettore forte, mi ha raccontato che dopo la guerra c’era un clima di solidarietà bellissimo.
E lui non è una sognatore ma un uomo molto lucido e un po’ disilluso.
Un abbraccio.
P.S. Sottoscrivo tutto quanto dice Luigi, qua sopra sul rifondare il linguaggio e sull’avere il coraggio di una visione nuova e cominciare a pensare di andare oltre al fallimento del capitalismo.
P.P.S. Anche perché i fascisti là fuori stanno in attesa di dare la loro sterzata antidemocratica con la scusa della crisi sanitaria ed economica.
Certo, gli automatismi in genere sono funzionali alla conservazione, alla restaurazione. Ma i pochi e buoni “ribelli”, invece di arrabbiarsi come sollecitano quelli che lanciano sempre il sasso e poi nascondono tutte e due le mani, farebbero forse bene ad allontanarsi dalla melma social e restare aggrappati al sentimento del presente che si sta sperimentando in questo tempo di consapevolezza, forza, visioni e legami ritrovati. Cara Loredana, chi potrà, faccia del suo meglio, anche se finisse per rivelarsi solo un ennesimo esercizio di utopia.
I social potranno anche essere melma, Francesca, ma forniscono uno specchio del nostro sentire.