Questa è una storia piccola, e dunque ininfluente. Ma queste settimane sono fatte anche di storie piccole, dunque accettatela. La mia reclusione più lunga, come ho già raccontato, risale al 1992: da metà marzo e fino alla fine di giugno sono rimasta in ospedale, al Fatebenefratelli, aspettando la nascita di mia figlia, in una gravidanza molto a rischio.
Mi rendo conto di aver istintivamente applicato allora le stesse strategie che sto usando oggi, e forse per questo, a parte i picchi di malumore, tristezza, paura che pure arrivano quotidianamente, in fondo vado avanti. Ora come allora, ogni mattina mi vesto come se dovessi uscire: magari non mi trucco, uso jeans e maglioncini, ma non è che d’abitudine indossi vestiario molto diverso, occasioni pubbliche a parte. Ora come allora, divido la giornata in segmenti: fare colazione, leggere i giornali, leggere libri, aprire il computer e il cellulare. Nel 1992 non c’era connessione Internet così come l’abbiamo oggi, ma avevo un gigantesco cellulare, e lo accendevo. E avevo un portatile, e lo accendevo e scrivevo. Ricordo di aver letto attentamente e recensito, per esempio, “Palomar, Han, Candaule e altri. Scritti di critica letteraria” di Sossio Giametta, vedi che scherzi fa la memoria. Poi caracollavo fino a un fax e mandavo l’articolo (c’era un fax, c’era una parrucchiera, c’era un’edicola, nell’ospedale). Passeggiata dopo pranzo, per le già narrate terrazzette, come ora passeggio avanti e indietro nel giardino. Il pomeriggio era dedicato a leggere e scrivere allora, condurre ora (o scrivere, nei weekend).
Si va e si andava avanti, in questo modo. E certo, c’erano gli altri, quelli che erano fuori. Quelli che, ricordo come fosse ora, festeggiavano il primo maggio sugli argini del fiume, e io li guardavo e sospiravo. C’era quella ventata di vita che portavano i visitatori, vestiti non con una tuta o con i jeans premaman, ma con borse e sciarpine di seta e colori, e io mi dicevo, pazienza, passerà. Un giorno dovevo andare a fare non so quale esame che non poteva essere fatto in ospedale. Uscire, dunque. Il ginecologo, che era anche un amico, e lo è ancora, guardò me, guardò mio marito e sorrise: “certo, al ritorno dall’esame, ci sarebbe la sora Lella, giusto qui di fronte”. Così fu: rubai un’ora in più e mangiai la più indimenticabile, divina, profumata, carbonara della mia vita.
Qual è la fine della storia? Mia figlia è nata, anche se è rimasta ancora venti giorni in pediatria, e alla fine abbiamo varcato il portone dell’ospedale. Ma io, a quel punto, avevo paura di uscire. Mi sentivo priva di ogni protezione, indifesa, impreparata ad affrontare il mondo. Ci sono voluti mesi prima che mi riabituassi. L’ho sognato a lungo, l’ospedale. Non più ora.
Accadrà lo stesso, immagino. Con la differenza che qui non c’è un termine come allora, e quando si torna non sarà tutto passato. Ed è per questo che metto su un piatto della bilancia la paura di tornare e sull’altro piatto, però, tutta la perplessità per un cambio di narrazione troppo repentino e violento per non dare da pensare: non è possibile dire alle persone, fino a ieri, che se si esce si muore, e se vanno a fare la spesa hanno le famose mani sporche di sangue, e il giorno dopo, ancora con morti e contagi che aumentano, che bisogna subito tornare a produrre. Anche menti salde vacillano, con questa contraddizione illogica, o meglio, sembra, molto logica: vuoi morire di pandemia o di fame, cara?
Me lo chiedo e poi vado avanti, come tutti, certamente. Un passo dopo l’altro, così come li contavo ventotto anni fa, in un’altra primavera. E, come allora, scrivo dei giorni che attraverso: un giorno, come si suol dire, tutto questo ci sarà utile.