Ci ha lavorato a lungo, Girolamo De Michele: e finalmente è uscito per Minimum Fax La scuola è di tutti. Leggete e diffondete. Su Carmilla trovate un assaggio. Oggi, su Repubblica, Benedetta Tobagi firma la recensione che vi posto qui.
Da quei banchi passano tutti i futuri cittadini. Difficile evitare la retorica del “pilastro della democrazia”: lo è per davvero. In più la scuola elementare conserva nell´immaginario qualcosa di romantico, dal libro Cuore in poi. Nell´Ottocento il maestro aveva un ruolo sociale definito, accanto al gendarme e al prete. A questa missione civilizzatrice e conservatrice si sovrappone, con l´avvento della Repubblica, l´icona del maestro di frontiera, possibilità di riscatto per i figli dei diseredati, schiacciato tra la Costituzione e le sperequazioni profonde di un paese arretrato, mentre le elementari restano quelle uscite dalla riforma Gentile, verticali e nozionistiche.
E oggi? Nessuno osa discutere la centralità della scuola e la sua missione educativa, tanto più in una società in piena crisi (economica, politica, di valori). Ma in cosa consista questa missione, e su come realizzarla, c´è molta confusione. Chi non ha bambini, difficilmente sa cosa succedesse dietro il portone di una scuola primaria dopo la riforma del ´90. Poi nel 2008 il governo comincia a predicare il “ritorno al passato” come panacea contro tutti i mali. Chi ha più di vent´anni è cresciuto a pane e maestro unico e può rimanere facilmente sedotto dall´effetto-nostalgia: che male c´era nel vecchio sistema? Insegnanti, genitori e dirigenti invece protestano, sono amareggiati, indignati, preoccupati (provate a scorrere le centinaia di testimonianze su Repubblica. it).
Sono davvero tutti dei conservatori miopi e politicizzati? Che cosa sta succedendo, davvero, dentro la scuola pubblica dei bambini italiani?
Ci aiuta diradare le nebbie il nuovo saggio di Girolamo De Michele, La scuola è di tutti (minimum fax, pagg. 338, euro 15) «E´ necessario combattere una battaglia per le “precise parole”, per l´esattezza», dichiara. Allora decodifica i “frames” concettuali dietro gli slogan con cui il centrodestra ha mascherato la realtà brutale dei tagli di bilancio alla scuola pubblica e analizza con scrupolo i numeri – solo apparentemente obiettivi – del Ministero e dei rapporti internazionali. Ma soprattutto, inserisce i problemi italiani nel quadro più ampio di una crisi (cioè un momento di potenziale evoluzione, non un´”emergenza”) dell´educazione in atto da decenni a livello globale.
La scuola è chiamata all´arduo compito di preparare bambini e ragazzi a muoversi in una società più complessa, fornendo, oltre alle nozioni, metodi per “imparare a imparare”, anche fuori dai banchi. Non è più affiancata nell´opera educativa da soggetti forti come parrocchia o famiglia, ma assediata da una “società diseducante” i cui modelli contraddicono valori e comportamenti che l´insegnante cerca di trasmettere. De Michele intreccia questi problemi coi dati allarmanti sull´”analfabetismo funzionale” che affligge 2/3 degli italiani, e li rende prede facilmente manipolabili nella società dell´informazione, o sulla mobilità sociale quasi inesistente per i giovani italiani. Una visione ampia, articolata, che mostra la funzione essenziale della scuola pubblica in una democrazia che voglia essere veramente tale.
In questo discorso, il caso della scuola primaria è illuminante. L´Italia, eterna pecora nera, affrontò costruttivamente la “crisi educativa”, con esiti addirittura eccellenti. Dopo decenni di confronti tra politici e specialisti di pedagogia e didattica, nell´85 la scuola elementare si dota di nuovi programmi che mettono al centro il “saper fare” accanto al conoscere, per una “progressiva costruzione delle capacità di pensiero riflessivo e critico e di una indispensabile indipendenza di giudizio”, le competenze relazionali, la capacità di ascoltarsi e stare insieme, oltre alla disciplina. Su queste basi, nel ´90 si avvia una riforma, che ha passato il vaglio della Corte dei Conti, la stagione di lacrime e sangue pre-ingresso nell´euro e un rodaggio faticoso, per regalarci una posizione di eccellenza nelle classifiche internazionali (TIMMS 2007 per la matematica e PIRLS 2006 per la lingua). Con buona pace di chi sostiene che servì solo al sindacato per moltiplicare i posti.
Cosa offriva la primaria pubblica del nuovo millennio? “Modulo” o tempo pieno, ossia due o tre maestri, specializzati in aree disciplinari diverse: ben venga un´attenzione specifica per l´area logico-matematica, in cui l´Italia è sempre indietro. Programmazione collegiale, cioè più teste che concordano la didattica e rispondono alle esigenze dei bambini: più sguardi pronti a cogliere i loro disagi come i talenti. Ore di compresenza: indispensabili per gestire la presenza di bimbi stranieri che non padroneggiano l´italiano, per il recupero di chi resta indietro, specie nelle aree più disagiate, ma anche per gite e laboratori.
Tempo scuola più lungo (da 27 a 40 ore) e più ricco: al pomeriggio non c´era più il vecchio doposcuola, merenda e compiti, ma lezioni e laboratori, cioè apprendimento attivo. Una ricchezza per i bambini, una necessità per i genitori che lavorano. A parità di maestri incompetenti e lavativi, che non mancano mai (la Gelmini parla di premi al merito, ma nessuna misura è stata varata), il sistema offre più risorse e garanzie. La primaria pre-Gelmini rispondeva alle esigenze di una società profondamente mutata con spirito democratico: molto per tutti i bambini e speciale cura per i più deboli.
Bello, no? Bene, lo stanno demolendo. Il Ministero raccomanda maestro unico, 4 ore mattutine e taglia i posti. Ma i genitori chiedono le ore e la qualità del tempo scuola lungo e i dirigenti sono chiamati all´impossibile quadratura del cerchio. Regna il caos. Classi affollate, patchwork di maestre per coprire i buchi (alla faccia del bisogno di continuità rassicurante). I maestri, sottopagati e sotto pressione, ancorché occupati, di sicuro non lavorano sereni (si parla di merito e mai di motivazione).
Lo scenario tracciato da De Michele è inquietante: c´è un disegno politico per smantellare la scuola pubblica, per foraggiare il business delle scuole private, perché l´ignoranza rende le persone più controllabili. Anche chi non condividesse questa tesi, sarà costretto a domandarsi il perché di una politica così dannosa. Non è “la solita storia”. Disperdono un patrimonio, picconano la base sana della piramide educativa. Danneggiano i bambini e le loro famiglie e la società in cui dovranno vivere, non gli “insegnanti fannulloni”. Almeno, la smettano di mentire.
Senza nulla togliere al lavoro di Girolamo, di cui per ora ho letto e apprezzato solo lo stralcio su Carmilla e il PDF dal sito di minimum fax, suggerirei che si affiancassero al suo libro anche le riflessioni più pacate di Tullio De Mauro, nel suo La cultura degli italiani, non meno critico ma diverso nei toni.
Fosse solo un disegno politico, ancorché grave, sarebbe facile trovare quantomeno due o tre soluzioni da emergenza (e facile è un aggettivo “ottimistico”). La sostanza orrorifica sta, selon moi, nel depredare motivazioni ed energie ad insegnanti continuamente in bilico tra supplenze malandrine e precariato “coatto” (della parola “precario” non se ne può più, ma sembra tener insieme la Weltanschauung che abbiamo creato).
La scuola diventa lo scolo di scontenti e malumori, la cultura scambiata per “buona condotta”, ossia desiderio di “pensiero unico”.
Nemmeno il muro contro muro serve a molto: i politici, tutti, dovrebbero vedere con i ceci sotto le gambe “Entre le murs” di Laurent Cantet e poi trovare una condivisione trasversale che parta dall’assunto che la scuola pubblica è agonizzante. Ma se anche in Svezia svolazza al sei per cento un partito populista e xenofobo, c’è da tremare e noi come ne usciamo vivi?
Ho appena finito il libro, e prima di imbastire una recensione un po’ più articolata sul mio blog, dico volentieri due o tre cose qui.
E’ un libro brillante e incisivo, capace di informare e di suscitare indignazione per quanto di scorretto o anche semplicemente grossolano la pseudo-informazione di regime spaccia come “dati oggettivi” sulla scuola. Il numero presuntamente debordante degli insegnanti rispetto agli alunni nella scuola italiana, l’emergenza del “bullismo”, la scarsa risultanza dell’istruzione italiana rispetto alla media europea, vengono smascherati per quello che sono, cioè dati fasulli o interpretati scorrettamente per avallare un disegno politico ben preciso: stornare finanziamenti dalla scuola statale per orientarli verso la privata (dove i cattolici, spiace dirlo a un cattolico, fanno la figura dell’utile idiota) all’interno di un più generale tentativo di declassamento dell’educazione ad addestramento alla scarsità e alla precarietà, essenziale per la formazione del nuovo proletariato post-fordista.
Però questo è anche un libro che solo un filosofo poteva scrivere perchè, al di là di uno stile brillante e spesso ironico che lo rende larghissimamente leggibile, cerca soprattutto di svelare il pensiero implicito, la filosofia di fondo che l’operazione politica sostiene e veicola. Parlo naturalmente del rifiuto della complessità e del conseguente rifiuto a formare un alunno che vi sia avvezzo “imparando ad imparare” per tutta la vita, e del rifugio in una semplificazione culturale che fa leva sull’autoritarismo della maestra unica-sostituto materno, del nozionismo più obsoleto, del randello del voto in condotta.
Quello che non mi convince fino in fondo è l’erronea identificazione che secondo me De Michele compie tra semplificazione e sintesi, mettendo in un solo calderone certo fascismo di ritorno con lo sforzo autenticamente pedagogico di elaborare una narrazione capace di includere il moderno e il post-moderno. Se per quanto riguarda il primo provo fastidio (soprattutto per quanto riguarda le sue ricadute nel sociale), la seconda posizione mi appare ineludibile e però non sufficientemente garantita dallo storicismo e dal relativismo culturale che De Michele assegna come missione democratica a una scuola che accolga davvero tutti e scommetta sulla possibilità di ognuno di costruirsi una mente libera.
Ciò che ho vissuto e appreso, ciò che fa di me un uomo adulto che non solo basta a se stesso ma è in grado di educare, non è semplicemente un sapere e un saper fare, ma anche e soprattutto un riconoscere come valido, un selezionare e un privilegiare nell’ordine del valore. E’ questo che mi rende umano e credibile: mentre l’onestà intellettuale mi chiede di usare questa mia formazione come testimonianza e non come prerequisito richiesto ad altri per usufruire del mio insegnamento, la pretesa di liberarsene per assumere un atteggiamento “neutrale” confonde le modalità politiche della democrazia con l’ambiente concreto delle relazioni sociali.
Ci sarebbe anche la questione schiettamente epistemologica: la consapevolezza delle intelligenze multiple che esclude una rigida gerarchizzazione dei saperi non esclude ma anzi reclama la ricerca di un profilo unitario della persona, di una sintesi antropologica che non solo sia il vero obiettivo dell’educazione ma anche la garanzia della possibilità di trasmissione del sapere da una generazione all’altra (la sua condizione trascendentale, dicono i filosofi).
Ma questa, come direbbe l’impagabile Moustache, è un’altra storia.
Se facessero ministro me, saprei come risolvere tutto.
Magari susciterò una rivolta con la mia opnione, ma ci provo lo stesso a dirla, sperando che ci riflettiate bene.
Nelle scuole ormai non si boccia più, i voti (anche di chi francamente non sa davvero fare molto) sono altissimi… Così si promuovono persone che non lo meritano e le si mandano avanti e si danno diplomi di ragioneria a persone che neanche sanno le tabelline (come faranno a fare il loro lavoro?) e poi questi, illusi dai bei voti (nella mia carriera mi son trovata a dover dare degli 8 a gente che non sapeva scrivere in italiano corretto a causa di pressioni, diciamo, interne all’istituto) si iscrivono all’università e magari diventano medici o politici…
Finché potete aiutate i ragazzi (con corsi di recupero istituiti al pomeriggio dalla scuola stessa), ma fino a un certo punto. Ci sono dei soggetti che a volte non vogliono studiare, punto e basta. E non li si può promuovere solo perché (come ho sentito dire con le mie indignatissime orecchie):
-non possiamo bocciarlo, lo abbiamo bocciato già l’anno scorso (ho capito, ma questo continua a prendere 2)
-non possiamo rimandarlo perché non abbiamo i soldi per fare i corsi di recupero (uno storia se la può preparare anche a casa da solo, mica serve chissà cosa)
-non possiamo bocciarlo perché suo padre è stato operato per un tumore (e i figlio si alza un’ora prima dei compagni non per accudire il padre, ma per stirarsi i capelli)
-dovremmo promuoverla perché quest’anno ha dimostrato molto impegno: è riuscita a perdere quasi 10 chili…
So che il mio discorso potrebbe sembrare molto duro, riflettete: i ragazzi devono anche rendersi conto che non deve essere tutto dovuto e che se c’è un problema reale l’insegnante è pronto ad aiutare, ma se non c’è un minimo di impegno da parte loro, allora non lo si può portare avanti (immaginate quelli che allo stesso modo vengono promossi a scuola guida)
Concordo con De Michele. stanno smantellando la scuola pubblica. Anzi, stanno smantellando il pubblico. Per certi governi “pubblico” è un altro modo di chiamare l’assistenza sociale. Un investimento a perdere insomma.
Non è un caso che si parli della qualità della scuola in termini di stimolo alla competitività, misurabile attraverso test buoni più che altro a misurare il grado di adattabilità dei soggetti a un sapere omologante cui può anche non accompagnarsi alcuna crescita intelletuale e politica.
Andate a vedere le indicazioni didattiche fornite a livello ministeriale nel piano di riordino delle superiori. Non si è mai visto nulla di scritto peggio. Nessun progetto, nessuna prospettiva. Dominano pressapochismo e pigrizia.
La smantellazione della scuola pubblica ha il fine di rendere l’istruzione una cosa solo per una certa tipologia di ceti (ricchi), cercando di mantenere la popolazione a un livello culturale basso, perché dalla conoscenza viene potere. Un potere capace di contrastare le menzogne che vengono propinate da una certa propaganda della classe dirigente.