ALTAI

Sul Venerdì di oggi, una mia intervista a Wu Ming per Altai. Eccola.

Venezia, 1569. L’Arsenale va a fuoco. Ne viene ritenuto responsabile Emanuele De Zante, spia del potente consigliere Nordio, che lo sceglie come capro espiatorio. De Zante fugge a Costantinopoli e si ritrova al servizio del nemico acerrimo della Serenissima, l’ebreo Giuseppe Nasi, che per realizzare un suo ambizioso progetto spinge il sultano Selim II alla guerra contro Venezia. Al suo fianco, si schiera un misterioso viaggiatore che si fa chiamare Ismail. Ma che un tempo ebbe molti altri nomi.

Questo è lo scenario di Altai, il nuovo romanzo dei Wu Ming appena pubblicato da Einaudi Stile Libero. Un libro importante: perché esce dieci anni dopo Q, il best-seller di esordio del collettivo, e perchè di Q, incredibile galoppata negli anni della Controriforma e delle rivolte contadine tedesche, ritrova le atmosfere e almeno alcuni personaggi. “Altai – dicono i Wu Mingè figlio di un’esigenza molto forte, di una spinta ineludibile. In questi anni ci siamo spinti molto oltre il nostro primo romanzo, e per fare il punto del percorso bisognava ritornare a quella mappa, a quel sistema di riferimento. In senso lato Altai è un seguito, cioè viene dopo Q. Si svolge quindici anni più tardi, vediamo come sono proseguite le vite dei personaggi che nell’epilogo erano sul ciglio di un nuovo mondo, in attesa di essere ricevuti da Solimano il Magnifico. Non è un seguito lineare, però. Non è Q 2. I fili vengono prolungati ma anche deviati, seguendoli ci ritroviamo in un altro universo, c’è un’altra geografia, personaggi nuovi. Speriamo che questo “spiazzamento” sorprenda in positivo chi ha amato il nostro primo libro.

Quello che resta immutato è il rovesciamento storico che vi è proprio, come il racconto della battaglia di Lepanto dalle fila dell’esercito turco. Un modo per evidenziare il conflitto fra due civiltà?

Dumas diceva che la Storia era il chiodo al quale appendeva i suoi romanzi, vale a dire una sorta di sfondo dove proiettare la vicenda dei personaggi. Noi in quel muro di fondo cerchiamo piuttosto una crepa, ci infiliamo dentro una storia, e facciamo leva fino a farlo crollare. Così, oltre a dimostrare che quella costruzione era soltanto una delle molte possibili, possiamo provare a metterne in piedi un’altra. “Scontro di civiltà” è il nome che in questo caso diamo alla crepa, alla voragine, dove abbiamo infilato la trama di Altai. Serviva una prospettiva nuova, perché le crepe sono sul lato meno in vista del muro, dove pochi guardano. Basta cambiare ottica e lo scontro di civiltà sparisce: non esiste oggi e non è mai esistito, se non come artificio retorico.

La sconfitta sembra essere una delle grandi tematiche di Wu Ming. Quel che voi raccontate termina, sempre, con una perdita. Perché?

La scelta è quella di narrare da punti di vista obliqui, stranianti, lontani dalla storiografia ufficiale. Così capita spesso di dare voce a quelli che la storia definisce “i vinti”. A volte però le sconfitte sono tali solo in apparenza, solo se si guarda lo scenario da una prospettiva angusta. La necessità di ripartire dopo uno scacco avvia comunque un processo di crescita, di evoluzione. In Altai volevamo superare una visione della storia tutta ripiegata sull’avvenimento bellico, sullo scontro. La maggior parte degli storici sono maschi occidentali, se non altro per formazione culturale, così si tende a vedere i concetti di “vittoria” e “sconfitta” con occhiali in qualche modo machisti.

In Altai, il potere dei libri va a sovrapporsi con un altro sogno: quello di Nasi che pensa di poter creare un mondo nuovo. La narrazione è una delle vie maestre per riuscirci?

E’ impossibile costruire un mondo diverso se non si è in grado di raccontarlo. Si potrebbe dire che la forza della parola scritta e quella della tecnica sono gli estremi tra i quali si dibatte il protagonista di Altai. E’ grazie ai libri che riscopre ciò che aveva rimosso, la propria storia, il proprio dolore, il senso di fare parte di una comunità in cammino. Perché le narrazioni ci accompagnano sempre, dovunque andiamo, le incontriamo a ogni crocevia e sono il carburante che ci consente di proseguire, di non fermarci e morire. Finché ci sarà qualcuno disposto a raccontare, a raccogliere le storie lungo la via per condividerle con altri viaggiatori, nessuna sconfitta sarà mai definitiva.

Chi è in caccia di etichette potrebbe forse dire che Altai è un romanzo storico, dove i personaggi, tranne pochissimi, sono realmente esistiti. A me sembra anche il romanzo dell’amarezza per un’utopia sgretolata. E’ così?

E’ vero, il romanzo è pervaso di amarezza e malinconia, è attraversato da un senso di perdita, in dalle prime pagine. E’ solo una sfumatura, per quanto importante, dello spettro emozionale che abbiamo cercato di aprire e dispiegare nelle pagine di Altai. E’ il romanzo in cui abbiamo esplorato più da vicino il rapporto tra storia personale e vita pubblica, scelta politica, prospettiva etica. E’ il primo lavoro in cui il protagonista parla diffusamente della propria infanzia. Questa indagine è solo embrionale nei nostri lavori precedenti, qui forse siamo riusciti a portare la tematica su un altro livello di consapevolezza. E’ come se il collettivo, ora, cercasse risposte (o domande giuste) sul rapporto tra personale e pubblico, tra vita e produzione artistica e intellettuale.

Colpisce, anche rispetto a Manituana, la complessità e profondità dei personaggi femminili di Altai. Colpisce il modo in cui il mondo femminile bussa alla porta del maschile senza che ci sia comprensione reciproca. C’è, per la prima volta nei vostri libri, il desiderio e c’è il sesso. Ma i due universi, i due sogni non restano, infine, separati?

Forse leggendo in sequenza i nostri libri si nota: in noi si fa strada una crescente attenzione per i personaggi femminili, per come mettono alla prova le certezze maschili. Ci interroghiamo su come “femminilizzare” gli sguardi, i punti di vista. Proviamo a stare alla larga dai clichés, e non è facile. Sì, in Altai i sogni restano separati, in mezzo c’è un muro fatto di domande sbagliate, e questa separazione è il vero problema, è il dramma. Gli uomini non possono fare alcuna rivoluzione se non la fanno insieme alle donne. Nessun progetto sensato può rinunciare a oltre metà dell’intelligenza e sensibilità disponibile sotto il cielo. Gli uomini si trovano dunque a combattere contro se stessi, contro la propria stolidità e tracotanza. E’ una battaglia durissima, nessuno può farsi illusioni.

 

 

73 pensieri su “ALTAI

  1. @Barbara:”non trovo opportuno molestare ulteriormente il prossimo mio con la storiografia. Se non hai capito è possibile che io mi sia spiegata con poca chiarezza o che tu non sia al corrente del dibattito sulla battaglia di Lepanto. Scusa, ma questa non è proprio la sede adatta per discuterne. Sarebbe troppo OT e non si deve abusare della cortesia altrui.”
    Non vedo proprio come un tuo intervento in tal senso possa essere OT: è da due giorni che in questo spazio si parla di Lepanto e di approccio storiografico. In realtà ti sei spiegata benissimo: sei entrata “lancia in resta” nel blog per accusare di ignoranza storiografica alcune persone e quando ti è stato chiesto di circostanziare le accuse, di articolarle in modo più ampio, di supportarle con argomentazioni valide non lo hai fatto. La tua *boutade* iniziale (eri ironica?!) ha tuttavia dato modo ad altri di ampliare la riflessione scaturita dal post su Altai, aggiungo ai loro commenti questo link: http://www.scrittinediti.it/blog/2009/04/20/sangue-ditalia/

  2. Provo a dire qualche pensiero in linea generale non avendo letto Altai ma avendo riflettuto spesso e volentieri sull’ immaginario storico più che sulla storia. Poniamo che i Wu Ming sappiano estesamente e dettagliatamente quale sia lo sfondo su cui hanno collocato la vicenda. Ma fanno un romanzo storico, dunque ci mettono del loro e non sono vincolati in assoluto a riferire solo fatti, opinioni, caratterizzazioni dei personaggi che siano supportate da studi storici. In realtà credo sia difficile (tranne che per personaggi eccelsi, notissimi e che c’han lasciato diari, opere, lettere) riuscire ad avere dalla Storia che cerca certezze (ma che, per via delle lacune, ricordiamolo, non può non essere sempre un po’ soggettiva anche lei) abbastanza materiale per farne un romanzo. Sono infatti convinto che quando lo sguardo del narratore si avvicina per mettere a fuoco i particolari, magari di un singolo personaggio col suo pensiero, fornisce dettagli su dettagli che non possono essere certificati uno ad uno dallo storico (che, più studia, più ha dubbi e non sicurezze). Allora, per esigenze tutte letterarie, lo scrittore di romanzi storici si chiederà quanto di storico e quanto di creativo vuol mettere nella miscela. Potrà adottare un basso profilo e inserire un vago sfondo storico di personaggi e avvenimenti reali che rispecchiano le loro controparti storicamente documentatesenza che sia necessaria alcuna integrazione originale dell’autore a modificare ciò che il pubblico ha ben noto: ci si muoverà dunque negli angoli bui della storia, talmente numerosi da permettere di collocarvi tutte quelle esistenze ignote ma possibili di cui non si ha notizia o si conosce a stento il nome. Se questa è la scelta, ne consegue quasi sicuramente che i personaggi e l’ambiente in cui si muovono dovranno essere plausibili ma d’invenzione tutte le volte che siano qualcosa di più che una scenografia o una vaga menzione.
    L’altro estremo, un po’ holliwoodiano, è il fantasy a base storica, della rilettura audace dove la storia è più che altro un’atmosfera, una serie di figure dell’immaginario collettivo, una serie di suggestioni e temi più o meno obbligati. Gli avvenimenti reali saranno dunque la materia grezza (e non ci si farà scrupolo di smentire gli storici o di ignorarli pur di avere l’opera artistica desiderata) di cui l’autore riprende solo ciò che lo interessa e lo plasma creando un universo che sembra una nostra epoca storica ma in realtà è una realtà parallela, una personale visione senza altro obiettivo che raccontare una possibilità. A tal proposito, mi pare sullo stesso Venerdì, mi par di capire che questo è l’uso che si è fatto del Rinascimento e dei suoi “volti noti” per Assassin’s Creed.
    Scusandomi per il lungo cappello mi chiedo dunque, quasi istintivamente: visto che la storia “vulgata” (questo penso che voleste intendere con “ufficiale”, non quella specialistica e universitaria) compaiono di sicuro i grandi come Solimano, cosa si sa, documenti alla mano,degli altri, di Ismail o dell’ ebreo Giuseppe Nasi? Sono ignoti o semisconosciuti che avete “riempito” con dei personaggi vostri, sono completamente inventati (ma dite che quasi nessun personaggio lo è)? Sono personaggi di cui le ricerche ci forniscono un ritratto abbastanza accurato ma di cui voi date la vostra personale perchè questo, magari, non è un’altro punto di vista su Lepanto ma una “vostra” Lepanto? Grazie

  3. @ Marco B.
    senza rovinare la lettura a nessuno, posso dire che tutti i membri della famiglia Nasi sono personaggi realmente esistiti. Tutti i “pezzi grossi” della corte ottomana e del governo imperiale sono realmente esistiti. Ismail e’ un personaggio immaginario ma anche no, perche’ in realta’ gia’ in Q i diversi nomi che gli abbiamo fatto adottare e ogni volta cambiare corrispondevano in larga parte a personaggi “minori” trovati nelle fonti, agitatori che comparivano qui e la’ nelle cronache delle rivolte e delle guerre di religione del XVI secolo. Immaginammo che tutti quei personaggi fossero in realta’ sempre lo stesso che cambiava nome. Nella realta’ storica, l’anabattista Gerrit “Gert” Boekbinder – l’uomo che arrivo’ a Munster insieme a Jan di Leida, soprannominato “Gert dal chiostro” (in Q, per un motivo noto a chi ha letto il romanzo, diventava “dal pozzo”) – non aveva nulla a che fare, presumibilmente, col misterioso “Tiziano” che ritroviamo in Italia, coinvolto nella vicenda del Beneficio di Cristo. In Q, invece, sono addirittura la stessa persona!
    Nel corso degli anni abbiamo riflettuto molto su cosa differenzi i romanzi storici scritti oggi (almeno i nostri) da quelli originali, quelli del XIX e primo XX secolo (Scott, Manzoni, Hugo, Dumas, Salgari, Sabatini etc.)
    La differenza e’ che quelli erano romanzi di ambientazione storica. La storia forniva lo sfondo dal quale si stagliavano personaggi in maggioranza immaginari, che vivevano le loro esperienze e avventure nell’atmosfera ricostruita grazie alle fonti: Renzo Tramaglino, i tre moschettieri, Andre-Louis Moreau etc. A volte, personaggi realmente esistiti facevano dei cameo, o anche delle apparizioni significative, ma la scrittura faceva in modo che vi fosse una netta distinzione tra questi e i personaggi principali. In aereo, pochi giorni fa, ho letto Scaramouche di Rafael Sabatini (1921), un romanzo che mi ha stupito, mi aspettavo un polpettone e invece quella e’ solo l’apparenza, il gioco dell’autore con le convenzioni del genere cappa-e-spada. In realta’ e’ un romanzo sottile, brioso, coinvolgente, addirittura marxisteggiante in alcune analisi della rivoluzione francese (che e’ evidentemente un’allegoria di quella russa, visto l’anno di pubblicazione). Bene, in quel romanzo compare anche Danton, e di sfuggita anche Robespierre, ma per il resto i personaggi sono fittizi, ed e’ sempre abbastanza chiaro al lettore – perche’ il narratore lo segnala con un cambio di registro – cosa sia invenzione e cosa invece no.
    [Poi ci sono i romanzi storici che hanno come protagonisti grandi personaggi e ne ri-narrano le avventure (Ettore Fieramosca di D’Azeglio), oppure ne immaginano sentimenti e/o vita segreta, ma anche in quel caso il rapporto tra invenzione e realta’ e’ abbastanza chiaro.]
    Nei nostri libri (ma non solo nei nostri, penso sia una caratteristica del romanzo storico degli ultimi anni), il rapporto si rovescia: quasi tutti i personaggi sono realmente esistiti e la storia non e’ solo il fondale ma si sposta in avanti, ce l’abbiamo a un centimetro dal naso. I personaggi reali e quelli fittizi interagiscono senza che la voce narrante segnali quali sono gli uni e quali gli altri. Gli elementi di invenzione stanno nelle connessioni tra i vari elementi, come nell’esempio da Q che riportavo sopra. Wu Ming 2, nel suo saggio “La salvezza di Euridice” (che chiude il libro New Italian Epic ed e’ la nostra piu’ compiuta dichiarazione di poetica) dice che dall’ambientazione storica siamo passati alla trasformazione storica. Questo e’ dovuto in buona parte alla rete, e alla conseguente abbondanza e accessibilita’ delle fonti, accessibilita’ un tempo inconcepibile. Oggi possiamo consultare piu’ archivi in piu’ lingue, essere informati dell’esistenza di piu’ libri, possiamo ordinare testi con grande facilita’. E’ possibile mappare alcuni grandi macro-eventi (es. la rivoluzione americana, e ancor piu’ la seconda guerra mondiale) praticamente “in scala 1:1”: abbiamo carteggi, diari, annate di giornali e riviste, studi, controstudi, reperti, interviste, registrazioni, cartelle mediche, scritte sui muri, di tutto e di piu’.
    Cosa diventa, in un contesto del genere, l’invenzione storica del romanziere, la fiction storica? Nelle ultime presentazioni io, prendendo le mosse dalla riflessione collettiva a cui WM2 ha dato una forma nel suo saggio, ho definito la fiction una “sottile lamina che infiliamo nelle fessure tra una fonte e l’altra”. WM2 ha usato la metafora di un muro (la storia) con alcune crepe. Noi infiliamo cunei in quelle crepe, le allarghiamo, e ci infiliamo dentro i nostri romanzi. Quindi non si tratta piu’ di uno sfondo, di un’ambientazione. Ecco, questa e’ la differenza principale tra come usiamo la storia noi e come la usavano i giganteschi nostri padri e nonni letterari, sulle cui spalle stiamo in piedi e grazie ai cui passi nella tradizione – che continua a modificarsi – possiamo andare avanti.

  4. Cara Anna Luisa,
    io ignoravo di essere entrata in una sorta di guerra con qualcuno. Semplicemente trovo il tono della discussione abbastanza noioso. Wu Ming I scrive addirittura che giochiamo a non capirci, neanche fossi sua sorella. Da quanto ho visto questa discussione va avanti da mesi su diversi blog: io non ne sapevo niente. Porgo le mie scuse a tutti e mi eclisso per sempre. Cordiali saluti.

  5. “Dunque, tutto ciò a me fa molto ridere. Per la prima volta decido di commentare su un blog, espongo le mie idee (mi pare pacatamente), mi firmo con nome e cognome e poi arriva uno che, per darsi un tono da intellettuale si firma Ekerot (ciccio, anche a me paice Bergman e anch’io, quand’ero piccino, mi trastullavo con un’iconografia mortifera à la Bataille, ma poi si cresce, eh…) e che non so manco chi sia e, poiché non mi straccio le vesti in segno di giubilo per l’ennesimo capolavoro dei cinque (che comunque, pur non apprezzandoli, rispetto), sostanzialmente dice che non esisto. Tu senti puzza di troll. Io di merda. E adesso buon divertimento, ché litigare attraverso una tastiera è grottesco.”
    (Postato venerdì, 20 novembre 2009 alle 1:28 pm da Nicola Frau )
    La comprensibile reazione di Nicola è stata immediatamente e ridicolmente CENSURATA. E non è la prima volta che la Lipperini toglie il DIRITTO DI REPLICA a chi ha dovuto subire sue ingiuste insinuazioni.
    (Da http://www.lapeperini.wordpress.com )

  6. Perche’, scusa, e’ forse un insulto “facciamo a non capirci”?
    [“Facciamo”, non “giochiamo” come hai scritto tu]
    E’ una comunissima espressione idiomatica. Si usa per discussioni in cui, anziche’ cercare i punti comuni (ma io ci ho provato, eh), ci si incaponisce a fraintendersi.
    E che c’entrano le sorelle? Boh.
    E quale sarebbe la discussione che “va avanti da mesi su diversi blog”? Boh.
    Ma soprattutto, perche’ rispondere sempre in questo modo petulante e sprezzante a qualunque curiosita’ altrui, a qualunque manifestazione di disponibilita’ al dialogo?
    “mi eclisso per sempre”.
    Mah. Se a te piace distinguerti cosi’… Siamo in un paese libero. Ciao, ma davvero.

  7. Su diversi blog da mesi impazza la polemica tra Wu Ming e il resto del mondo. Non sono interessata a partecipare. Per quanto relativo al “facciamo a non capirci” intendo dire che è un tipo di espressione che un personaggio pubblico, ancorché ancorato a un’identità collettiva, dovrebbe rivolgere a un suo stretto parente, non a chi posta un commento su un blog, soprattutto se la persona che scrive non ha espresso alcun giudizio – né positivo né negativo – sui romanzi ma solo sull’intervista che, come leggo nel vostro sito, rilasciate solo via mail. Ognuno si distingue come crede. Questo è il mio ultimo post. Wu Ming 1, buona vita…

  8. allora, sto leggendo “ultramar-l’invenzione europea del nuovo mondo” di aldo andrea Cassi e c’è un passaggio che mi ha fatto subito pensare a questa discussione, per cui intanto lo inserisco: sarà OT, però il periodo è quello per cui pazientate.
    L’autore parla dell’Archivio General de Indias di Siviglia, che contiene circa 14 milioni di pagine manoscritte conservate nello splendido palazzo eccetera. Prosegue dicendo che ” il dibattito sulla legittimità della Conquista non rimase confinato negli ambiti Universitari o nelle Juntas ( ? ), ma coinvolse l’intera società civile del tempo. Segue elenco. “Sotto questo aspetto, anche il pù mediocre pamphlet, redatto dal meno brillante dei letrados o dal più infervorato dei missionari, si presentava ed era accolto come contributo scientifico. ” i 14 milioni di carte cominciarono ad essere raccolti dal 1784, allo scopo di formulare una replica ufficiale ( che non fu mai formulata ) alle accuse inglesi di cattiva e crudele amministrazione coloniale. Ebbene, possiamo dire che questo marchio d’origine ha segnato quasi indelebilmente la storiografia ( anche quella giuridica ) della Conquista. Poi Cassi parla di contrapposte visioni protrattesi fino ad oggi, dice ” la doppia anima della storiografia sulla Conquista innerva ancora molte delle ricerche contemporanee.”
    EMBE’? direte voi.
    Comunque io Altai l’ho letto, non chiedetemi citazioni che non è aria, e nel leggerlo ho provato in due diversi punti delle sensazioni epidermiche ( epidermiche?) notevoli: confesso anche con un po’ di imbarazzo che all’apparire di Ismail mi sono venuti i brividi, tipo quando vedi quei film dove c’è una partita di un qualsiasi sport e c’è l’azione decisiva girata al rallenty. Poi invece ho provato sconforto durante la scena della conquista di famagosta. ( OCCHIO SPOILER)I sogni di una nuova vita infranti da una mazzata secca, quell’uomo che muore bruciato vivo, e sempre Ismail mi pare che rivolgendosi al protagonista gli chiede se aveva visto quello che voleva vedere. Intanto questo, per le riflessioni sul lungo periodo si vedrà…

  9. La questione ‘scontro di civiltà’, perdonate, non la vedo poi così preponderante nel libro. E’ semmai un’impressione che può dare una lettura della sinossi, oriente vs occidente, ecc. Ma è storia, interpretiamola, ma non perdiamo la testa.
    Io vedo piuttosto un’evoluzione del testo precedente.
    Il finale di Q fa capire come le rivoluzioni, i grandi cambiamenti, accadano solo col tacito assenso dei padroni, del capitale.
    In Q si passava dal fango delle strade, all’attacco al cuore finanziario di un impero che in realtà è uguale a se stesso, e che cambia religione solo per motivi economici.
    Stavolta gli assedi sono visti da fuori e dalle corti, il punto di vista ‘esterno’ che in Q al massimo si intuiva.

  10. @barbara
    Dal tuo primo intervento: “Cicero pro domo sua, tuttavia mi sembra che i nostri più che alla storiografia pensano al manuale del liceo. Dopo quello, un saggio storiografico non l’hanno più visto. Figuriamoci letto”.
    Ringrazia però Wu Ming che ti ha risposto con cortesia, rispetto e serietà. Il tuo primo intervento non ha ad esempio nulla di tutto ciò. Mi fermo subito qui perché non voglio alimentare una polemica che sembra solo e tutta tua. Ciao.

  11. Gli interventi censori alla cazzo della Lippa, che a un certo punto ha censurato persino se stessa rendendo incomprensibile una certa osservazione di Wu Ming 1, rendono tutto talmente slegato e fasullo che conviene stendere un velo pietoso sul commentarium (prevalentemente promozionale) di questo post.

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