Perché tornare alla bibliografia disarmata? Perché le cose peggiorano. Gli umori, soprattutto peggiorano. I sentimenti. Già, parlare di sentimenti pare cosa piccola, ininfluente. Ieri, sulla scia di un post di Nicola Lagioia che parlava, pensate un po’, di amore, e di smarrimento davanti all’allucinazione quotidiana che mette in prima pagina la crescente minaccia nucleare insieme alle prove libere della Ferrari e a qualche divorzio di star, abbiamo provato a discutere proprio di questo. Angoscia, sconcerto per quello che sembrava un incubo del passato e torna a incalzarci nel presente: ma soprattutto la “naturalezza” con cui lo accogliamo. “Passami il sale”, scriveva un acuto ascoltatore, “che ora si è fatta?”. E, accanto, i missili che sorvolano i cieli.
Ci sono state reazioni molto partecipi e altre molto violente. E’ come se una larghissima parte di chi interviene sul punto fosse coinvolta in una sanguinosa partita a Risiko: se trovate irriverente l’accostamento, ricordate bene che chi sui social scrive che bisogna piangere solo i morti ucraini e non gli altri, o viceversa (così è: alla mia età ero convinta che i morti delle guerre dovessero essere pianti tutti), lo fa da casa sua, dalla sua sedia o poltrona, e con lo stesso straniamento che coinvolge chi, su quello che purtroppo è diventato un altro fronte, si interroga sul crescendo di questo orrore, su questa esaltazione di sangue e morte che sembra dilagare.
Se posso, dilaga soprattutto fra i maschi della mia età. Vecchi, dunque. Che forse vedono in questa atroce sete di guerra la possibilità di provare antichi brividi. E quando si parla, appunto, di sentimenti, mostrano lo sprezzo antico verso le donnicciole tremebonde.
Eppure, dovremmo parlarne. Ma non di geopolitica for dummies (quella va lasciata a chi la sa fare, non ai giocatori di Risiko). Dovremmo parlare proprio di questa perdita di centro, di questa assuefazione, di quella che sembra euforia nel bollare come infami i discorsi di pace.
Non sto parlando di quello che avviene in Ucraina: sto parlando di noi, non fosse chiaro. Di come stiamo cambiando. Di come continuiamo a contrapporci. Gli amici contro gli amici, senza chiaroscuri. Stati di allucinazione, sì: ma riconosciamoli, ma fermiamoli, se siamo in tempo.
Per la cronaca. Quella che riporto qui sotto è la parte finale del discorso che Gabriele D’Annunzio tenne a Quarto il 5 maggio 1915. Quello che incendiò gli animi all’interventismo. Quello che costò 17 milioni di morti.
“Il fuoco cresce, e non basta. Chiede d’esser nutrito, tutto chiede, tutto vuole. Voluto aveva il duce di genti un rogo su la sua roccia, che vi si consumasse la sua spoglia d’uomo, che vi si facesse cenere il triste ingombro; e non gli fu acceso.
Non catasta d’acacia né di lentisco né di mirto ma di maschie anime egli oggi dimanda, o Italiani. Non altro più vuole. E lo spirito di sacrificio, che è il suo spirito stesso, che è lo spirito di colui il quale tutto diede e nulla ebbe, domani griderà sul tumulto del sacro
incendio: “Tutto ciò che siete, tutto ciò che avete, e voi datelo alla fiammeggiante Italia!”.
O beati quelli che più hanno, perché più potranno dare, più potranno ardere.
Beati quelli che hanno venti anni, una mente casta, un corpo temprato, una madre animosa.
Beati quelli che, aspettando e confidando, non dissiparono la loro forza, ma la custodirono nella disciplina del guerriero.
Beati quelli che disdegnarono gli amori sterili per essere vergini a questo primo e ultimo amore.
Beati quelli che, avendo nel petto un odio radicato, se lo strapperanno con le lor proprie mani; e poi offriranno la loro offerta.
Beati quelli che, avendo ieri gridato contro l’evento, accetteranno in silenzio l’alta necessità e non più vorranno essere gli ultimi ma i primi.
Beati i giovani che sono affamati e assetati di gloria, perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi, perché avranno da tergere un sangue splendente, da bendare un raggiante dolore.
Beati i puri di cuore, beati i ritornanti con le vittorie, perché vedranno il viso novello di Roma, la fronte ricoronata di Dante, la bellezza trionfale d’Italia”
Leggere queste parole fa rabbrividire. Ma fa rabbrividire che ci sia ancora qualcun* che oggi ne subisca il fascino, seppur collaterale. Ci lamentiamo di vivere in una società troppo disincantata: ebbene, preferisco l’attuale disincanto all’ingenuità e alla “verginità” cui -da qual pulpito!- faceva riferimento D’Annunzio per evocare il sangue che fu poi effettivamente versato a fiumi.