In occasione dell’uscita di Cento racconti di Ray Bradbury, che contiene anche un’intervista del medesimo a Sam Weller di “The Paris Review”, Repubblica ne anticipa una parte, nella traduzione di Anna Ravano. Troppo bella per non riproporla qui.
Ci racconti perché scrive fantascienza.
«La fantascienza è narrativa di idee. Le idee mi eccitano, e appena mi eccito comincia a scorrere l’adrenalina e di lì a poco mi ritrovo a trarre energia dalle idee stesse. La fantascienza è qualunque idea ti venga in mente che non esiste ancora, ma presto esisterà e cambierà ogni cosa per tutti e niente sarà più come prima. Appena ti viene un’idea che cambia una qualche piccola parte del mondo, stai scrivendo fantascienza. È sempre l’arte del possibile, mai dell’impossibile».
Crede che la fantascienza offra agli scrittori una via più facile per misurarsi con le idee?
«È difficile scrivere di idee se si scrivono racconti convenzionali. Metti che scrivi un romanzo come Fahrenheit 451. Parla di roghi di libri, no? Un argomento molto serio. Devi stare attento a non cadere nel paternalismo. E allora collochi la tua storia in un futuro non troppo lontano, inventi un pompiere che brucia i libri invece che spegnere incendi (che è già una bellissima idea) e gli fai scoprire in maniera avventurosa che forse i libri non vanno bruciati. Legge il suo primo libro. Si innamora. A questo punto lo metti su una strada che gli cambierà la vita. È una storia piena di suspense che racchiude la verità che vuoi esporre, senza bisogno di fare prediche. Quando parlo di fantascienza uso spesso la metafora di Perseo e della testa di Medusa. Invece di guardare in faccia Medusa, cioè la verità, ti giri e guardi alle tue spalle il riflesso nel lucido bronzo dello scudo, poi allunghi la spada dietro di te e tagli la testa di Medusa. La fantascienza finge di guardare dentro il futuro ma in realtà guarda il riflesso della verità che è davanti a noi. Si ha quindi una visione di rimbalzo, una verità di rimbalzo, che si può mandare giù e con cui ci si può divertire, invece di sentirsi intelligenti e superintellettuali».
Ha sempre voluto fare lo scrittore?
«Credo di sì. Ho cominciato con Poe. Mi sono innamorato dei suoi gioielli. Poe è un incastonatore di gemme, non trova? Ho iniziato a imitarlo quando avevo sui dodici anni e ho continuato fino ai diciotto. E imitavo anche Edgar Rice Burroughs, e naturalmente il suo John Carter. Scrivevo racconti horror tradizionali, come credo tutti i principianti in questo campo… Adoravo anche illustrare i miei racconti e disegnavo fumetti. Ho sempre desiderato avere una striscia tutta mia, per cui non solo scrivevo di Tarzan, ma disegnavo anche le mie tavole domenicali».
Lei ha citato Burroughs, Carter e Poe. Chi altro ci sarebbe su quel treno?
«Molti poeti: Hopkins, Frost, Shakespeare. E poi romanzieri come Huxley, Steinbeck, Thomas Wolfe…».
Sul suo treno mancano alcuni grossi nomi. Proust, Joyce, Flaubert, Nabokov, scrittori che tendono a vedere la letteratura come una serie di problemi formali. Le è mai interessata questa linea di pensiero?
«No. Se c’è gente che mi fa dormire, mi fa dormire e basta. Dio, quante volte ho cercato di leggere Proust: gli riconosco lo stile e la bellezza dell’espressione. Ma mi fa venire sonno. Lo stesso con Joyce. Joyce non ha molte idee. Vede, a me premono soprattutto le idee e apprezzo di più un certo tipo di narrativa francese e inglese. Non riesco a immaginarmi in un mondo dove non posso avvertire il fascino che le idee hanno su di noi».
Lei è un autodidatta, vero?
«Sì, la mia cultura me la sono fatta tutta in biblioteca. non ho mai frequentato l’università. Alle elementari e al liceo, durante le vacanze estive, trascorrevo lunghe giornate in biblioteca. Mi portavo a casa le riviste di nascosto, le leggevo e poi, sempre di nascosto, le rimettevo al loro posto. Rubavo con gli occhi, insomma, e rimanevo onesto. Non volevo rubare per tenere, e prima di aprirle mi lavavo sempre accuratamente le mani».
Per lei è molto importante, vero, seguire i propri gusti?
«Dio mio, sì, è tutto. Vent’anni fa mi avevano offerto di scrivere la sceneggiatura di
Guerra e pace per un film. La versione americana, quella diretta da King Vidor. Rifiutai. E tutti a dirmi: “Ma perché? È ridicolo, è un grande libro!”. Rispondevo: “Be’, non per me. Non riesco a leggerlo. Ci ho provato, ma non ce la faccio”. Con questo non voglio dire che sia brutto, solo che io non sono pronto. Descrive una cultura molto particolare. I nomi mi confondono. Mia moglie lo adora. È da vent’anni che ogni tre anni lo rilegge. Mi avevano offerto la cifra usuale per una sceneggiatura del genere: centomila dollari. “Come fai rifiutare una somma simile?” mi chiesero. “Perché non sono capace di mentire”. Tutto qua».
C’è qualche suo romanzo che le ha posto dei problemi particolari?
«Con Fahrenheit 451 è arrivato Montag e mi ha detto: sto impazzendo. Che ti succede, Montag? ho chiesto io. Brucio i libri, dice lui. E io: be’, non vuoi più farlo? E lui: no, io li amo. E allora fa’ qualcosa, gli ho detto. E lui in nove giorni mi ha scritto il romanzo. La grande verità, e tutte le piccole verità le sono affiorate sotto. È un modo di vivere, un modo di vivere appassionato che funziona alla grande. Sei così concentrato a coprire le pareti di affreschi che non ti accorgi che c’è gente nella stanza».
Ha un programma di lavoro preciso quando scrive?
«No, le mie passioni mi spingono alla macchina da scrivere ogni giorno della mia vita, fin da quando avevo dodici anni, per cui non devo preoccuparmi di avere programmi di lavoro. Sono sempre gasato da un nuovo argomento, da una nuova idea. A volte è una poesia, a volte un lavoro teatrale, a volte una sceneggiatura, a volte un saggio. Ma c’è sempre qualcosa di nuovo che mi esplode dentro; e che mi organizza: non sono io a organizzarlo. Mi dice: per amor di Dio, va’ subito alla macchina da scrivere e finisci questa roba».
In che momento del giorno scrive?
«Di solito comincio tra le nove e le dieci di mattina, e a volte, se ho una buona idea, continuo fino al tardo pomeriggio o alla sera».
Dove lavora?
«Posso lavorare ovunque. Da ragazzo, quando vivevo con i miei genitori e mio fratello a Los Angeles, la casa era piccola e scrivevo in camera da letto o nel soggiorno. Battevo a macchina in soggiorno, con la radio accesa e con mia madre, mio padre e mio fratello che parlavano. In seguito, quando ho avuto bisogno di un ufficio e volevo scrivere Fahrenheit 451, venticinque anni fa, sono andato alla UCLA e ho trovato un posto nel seminterrato dove mettevi dieci cent nella macchina da scrivere e potevi usarla per mezz’ora».
Usa un taccuino per gli appunti?
«No, perché appena ho un’idea scrivo un racconto o comincio un romanzo o compongo una poesia. Non ho bisogno di taccuini. Tutto è fatto nel momento stesso in cui mi viene l’idea. Ho il buon senso di correre alla macchina da scrivere e buttare giù tutto fino in fondo. E se non ho a portata di mano una macchina da scrivere mi porto sempre dietro un blocco e scrivo il racconto per strada, se necessario. Ho uno schedario di idee e di storie non finite, questo sì, roba scritta uno, cinque, dieci anni fa. Se un racconto è rimasto fermo a metà per qualche motivo, lo infilo nello schedario. Ci torno su in seguito, sfoglio i titoli e li studio tutti come se mi sottoponessi a un gigantesco test di Rorschach. Aprire quello schedario è come essere un padre uccello che arriva con un verme: guardi in giù e vedi tutti quei piccoli becchi affamati, tutte quelle storie che attendono di essere finite, e dici loro: chi di voi dev’essere nutrita? Chi di voi ha bisogno di essere finita oggi? E la storia che grida più forte, l’idea che allunga di più il collo e spalanca la bocca, è quella che riceve il cibo. La tiro fuori e la finisco nel giro di qualche ora».
Immagino sia inutile chiederle se scrivere è per lei un piacere.
«Ovviamente sì. È la gioia e la pazzia più squisita della mia vita e non capisco gli scrittori per i quali scrivere è fatica. Se dovessi faticare ci rinuncerei, perché lavorare non mi piace. Mi piace giocare».
Bisogna dire che una cosa dove gli scrittori cosiddetti di ‘genere’ stracciano senza fatica quelli cosiddetti (dai critici di ‘genere’) ‘letterari’ è l’autocelebrazione e automitizzazione personale. Se Bradbury ha un problema come scrittore è proprio la povertà delle ‘idee’…
Bradbury? Povertà? Delle idee?
Ho letto l’articolo cartaceo e devo dire che mi ha colpito la personalità effervescente. A me piace Proust, ma se non mi piacesse mi guaderei bene dal dirlo in un’intervista, specie perché l’etichetta “scrittore di genere” vs “maestro della letteratura” scatta immediatamente. E infatti.
Secondo me l’autocelebrazione ce l’hanno anche tanti scrittori “letterari”. E’ una questione di carattere, quel che si scrive c’entra poco. Tu che di scrittori ne conosci molti più di me che ne pensi Loredana?
Il ‘sentimento’ che trasmette, per esempio, Farenheit 451 è potente per chiunque ami leggere libri di carta; l’idea di un regime che brucia direttamente i libri per imporre monoliticamente un pensiero unico ha una superficiale plausibilità pensando, che so, ai roghi di libri nazisti ma non si sposa molto con la realtà attuale, in cui non si sono mai stampati tanti libri e non sono mai stati aperti più canali all’espressione di idee personali. A meno, ovviamente, di non voler equiparare l’avvento di Internet a un pensiero totalitario che punta alla distruzione, almeno metaforica, dei libri…
Quanto all’idea che oggi uno possa passare da ignorante o privo di gusto se afferma di non piacergli Proust è priva di basi nell’esperienza (vero, William?). Provi a dire in pubblico che non ammira King o Tolkien o Lansdale o Dan Brown e veda cosa succede. (con gli autori italiani può farlo tranquillamente: dica che non le piace Camilleri o Saviano o Faletti o la Mazzantini o Volo o Giordano e tutti i suoi amici letterati le daranno entusiasticamente ragione)
C’è qualche differenza fra King, Tolkien, Lansdale e Dan Brown, per la cronaca. Ma forse qualunque cosa io le ribatta, Sascha, è perfettamente inutile. Ha ragione: l’Italia è piena di talenti letterari soffocati nella culla. E come diceva l’immortale Douglas Adams in Guida galattica per gli autostoppisti: “Se c’è in giro una cosa più importante del mio Io, dimmelo che le sparo subito”. 🙂
Più che altro il fatto che nell’opinione dei ‘beninformati’ i best seller esteri, soprattuto americani, sono considerati intoccabili e indiscutibili, mentre quelli italiani degni del massimo disprezzo (nel senso che avremmo dovuto essere noi, tanto meritevoli, e non loro, raccomandati privi di talento). In realtà, di solito, i best seller americani sono esaltati soprattutto come manganello da usare contro gli italiani di successo.
Quanto a Proust dire oggi di apprezzarlo significa in pratica passare, nell’ordine, per ‘gay’, ‘conformista’ e ‘secchione’ mentre affermare di amare gli autori che ho citato (indubbiamente molto differenti) è socialmente approvato e fa tanto community.
Ma per pura curiosità, ha mai letto Bradbury, King o Tolkien (che, ehm, non è americano)? 😀
Sì, tutti (non tutto di tutti, ovvio, ma molto). Perchè?
Io mi riferivo alle loro reputazioni non al loro effettivo valore. Lei conosce la Rete, credo, e sa che su forum e social network è la reputazione che conta, in quanto utile, appunto, a fare community e alzare le mille piccole barriere dei ‘us vs. them’, oggi soprattutto orizzontali dove un tempo erano verticali. La qualità dello snobismo, massificandosi, è molto cambiata, così che dove un tempo uno per tirarsela doveva citare Proust oggi deve citare King (o George Martin per i più trendy e giovani)
Io ho parlato di best seller americani, non di scrittori americani. Se Tolkien non avesse avuto successo negli Usa oggi in Italia lo conoscerebbero quattro gatti: cosa vuole, che faccia il colto, e discetti di letteratura mondiale e dei suoi canali di comunicazione?
Se vuole, è libero di discettare. Quanto alla reputazione sulla rete, sinceramente, la ignori: è possibile tirarsela anche citando la marca di una margarina, al momento. Ma il noi verso loro, che è inevitabile quanto poco utile, rischierebbe di mettere tutto in uno dei due calderoni: leggere Martin è degnissimo, anche se non si tratta di vertice letterario (mentre “letterari” sono, eccome, gli altri incolpevoli “best-selleristi”, Dan Brown escluso), ma di ottimi romanzi. E poi, se accetta la piccola profezia, credo che rimpiangeremo fra non molto questo tipo di barriere: perché andiamo incontro ad anni di “nano-seller”, sia per numeri che per qualità.
Io penso che il fatto che si pubblichi tanto non è necessariamente sinonimo di buona cultura, anzi. Il rischio è di confondere i lettori… Mi fa un po’ impressione vedere mischiati tanti autori insieme come nel calderone delle streghe… leggere di tutto non vuol dire non imparare a discernere e non è solo questione di gusti. Il grande britannico Tolkien era prima di tutto un grande studioso di storia, in particolare medievale, ma aveva qualcosa di suo da comunicare nel linguaggio, nella storia, nella unicità della descrizione di ambienti e personaggi… così come ciascun scrittore serio… Scusi l’ignoranza (eheheh!!!) ma mettere Volo accanto a Mazzantini… a me vengono i brividi. Ritornando al filone principale, Bradbury, che è poi anche collegato all’eccesso di pubblicazioni che non sono sempre un valore o di valore, ci sono oggi molti modi di mettere al rogo i libri… dando fuoco alla cultura non nel senso di darle energia, ma in quello di distruggerla… e si sposa eccome con la nostra realtà!
Bellissima intervista, altro che!
Vedo che il tuo blog Loredana attira sempre più bastian contrari…
😉
In effetti io quando leggo di come gli e-book elimineranno fra breve gli odiati libri di carta salvando tante foreste non posso fare a meno di pensare a Bradbury. C’è gente che i libri tradizionali li odia sul serio, però si tratta di gente che afferma (secondo me mente ma è un’opinione personale) che l’importante non è il supporto ma il testo e che rende disponibili i libri online è un grand contributo alla conoscenza umana. Il fatto resta: se consideriamo la sola quantità (e nel mondo di Farenheit 451 si agisce drasticamente proprio sulla quantità, azzerandola) è ovvio che non s’è mai pubblicato e comunicato tanto come adesso.
E non si è mai venduto di meno 🙂
Elena, saresti più contenta se tutti la pensassero allo stesso modo, uniti e monolitici?
A me piacciono sia Proust che Bradbury. Problemi? 😉
c’è un libro scritto meravigliosamente,su cui però mi sono neanche troppo misteriosamente incagliato nelle prime pagine(un po lo stesso discorso che si puà fare con le fiction rai,perfette e inguardabili),in cui qualcuno porta avanti una teoria secondo cui il don chisciotte di cervantes è un libro scritto contro i libri.Probabilmente perchè il rischio che corrono i lettori viscerali è quello di sentirsi troppo spesso dei don quixotte dai sogni frustrati.Teoria affascinante,e dolorosa insieme..
http://www.youtube.com/watch?v=oYWklAV_cwQ
p.s.ah,il libro è l’accademia pessoa
Poi è chiaro che, online, puoi anche tentare di parlare in termini più generali o critici ma poi sei sempre risucchiato verso il mi piace/non mi piace. Resistere non serve a niente, per citare un libro che se fosse stato scritto da un americano e tradotto sarebbe diventato un best seller.
La metafora dello scudo di Perseo è double face. Perseo non uccide il mostro, ma lo incatena al proprio servizio sullo scudo: tolto il velo che la ricopre, la testa di Medusa inchiodata sullo scudo torna a paralizzare chi la guarda. Se al posto di Perseo metti la ragione che combatte i mostri, cioè Medusa… (non è mia, è di Hans Blumenberg)
10 cent per un uso di mezz’ora della macchina per scrivere, era già costosa allora. Avrei chiesto se escogitava degli stratagemmi per aggirare quel costo 🙂
Poscritto: idem come Biondillo.