BRUCIARE

Bruciare. E’ la parola che non può non venirmi in mente davanti agli orrori di questi due giorni. La riprendo, la uso, provo ad allargarla. Fra due giorni ActionAid presenterà i numeri del cosiddetto decreto flussi. A marzo sono morte 39 persone, bruciate nel centro di detenzione per migranti di Ciudad Juárez. Allora ne ho scritto per La Stampa, posto l’articolo qui. Oggi penso a Rafah, ad altri morti fra le fiamme, a una violenza che sembra non avere fine. Ai bambini. Alla nostra impotenza, che le parole non bastano a scalfire. Tutto qui. Cessate il fuoco, ora, subito.

 

“Faceva caldo, la notte che bruciammo Chrome”. Ma no, ma qui la citazione letteraria che scivola dalla punta delle dita sulla tastiera è poca cosa, è solo il fievole, inutile, riflesso della realtà. E poi allora, il 1982, quando William Gibson raccontò in quella storia cyberpunk delle falene sbattevano fino a morire contro le luci al neon, non pensava che avremmo potuto vedere le fiamme, non pensavamo che ci saremmo potuti assuefare alle fiamme stesse.
Siamo davanti al video, che avverte che le immagini potrebbero urtare la nostra suscettibilità (eccome, eccome). Sulla sinistra il primo rosseggiare del fuoco, sulla destra, dietro le sbarre, e sempre dietro le sbarre intravediamo persone. Dall’altra parte, liberi, due uomini, uno immobile, l’altro smanetta sul telefonino, esce. Le fiamme si alzano. C’è una figura prigioniera che si avvicina. Fumo. Non altro. Dietro le sbarre, muoiono bruciati in 39.
Siamo al centro di detenzione per migranti di Ciudad Juárez. I 39 sono arsi vivi perché, a quanto pare, era stato loro detto che sarebbero stati rimpatriati e avevano dato vita a una protesta finita malissimo. Ma gli agenti se ne sono andati, semplicemente. Non sappiamo perché. Quello che sappiamo è che persone che cercavano una vita migliore sono morte, come ne muoiono continuamente. Come sono morti gli uomini, le donne e i bambini sulla spiaggia di Cutro. Davanti all’indifferenza, all’insipienza, al vuoto cosmico che alberga evidentemente in tantissime anime di questo mondo.
E per un perverso disegno è avvenuto a Ciudad Juárez. La città dei femminicidi. La città delle cinquemila  ragazze che lavoravano nelle fabbriche e che vennero uccise negli anni Novanta da non si sa chi. La città dannata di cui parlò Roberto Bolaño in 2666 , ne “la parte dei delitti”. La città dove arrivò un giornalista, Sergio Gonzalez, per scrivere la cronaca di quelle morti. Ne nacque un reportage, Ossa nel deserto, a cui 2666 si ispirò. Roberto Bolaño, alla domanda su come si immaginasse l’inferno, rispose:
“Come Ciudad Juàrez, che è la nostra maledizione e il nostro specchio, lo specchio inquieto delle nostre frustrazioni e della nostra infame interpretazione della libertà e dei nostri desideri”.
Noi guardiamo, dagli schermi dei nostri computer e dei nostri telefoni, sapendo che, sì, è la nostra maledizione e il nostro specchio che stiamo guardando. Non sentiamo le urla, perché nel video che facciamo ripassare non c’è l’audio. Così come non abbiamo ascoltato gli Help, Help, Help che venivano dai morenti di Cutro. E che, anche in questo caso, sono stati ignorati da chi poteva salvare. Come è avvenuto, non più tardi di due settimane fa, in area libica, 30 morti nel mare forza sei, davanti a un mercantile che ha, di nuovo, esitato.
Ci chiediamo perché, ci chiediamo, sgomenti, come sia possibile. Ci diciamo che tutte le vite sono uguali e sappiamo, perché a questo punto dovremmo aver capito, che per molti non è così, che ci sono vite che valgono poco, vite davanti alle quali si può esitare. Non restare a guardare e basta, magari ridendo, quello no, quello è troppo. Ma già quell’esitazione è troppo, perché fa capire che in certi casi, casi di persone che sono considerate di minor valore, esitare va bene, esitare, addirittura, assolve.
Non possiamo salvare tutti, noi. Ma qualcuno poteva, e non lo ha fatto. Qualcuno, magari, anche in questo caso si spingerà anzi a insinuare che quei morti se la sono cercata, perché insomma chi ve lo fa fare a mettere a rischio la vita. Il problema è che a pensarlo, magari silenziosamente o magari no, sono in tanti, e tante, dal calore delle proprie case, le mani sulla tastiera del computer.
Non salvano, non salviamo neanche noi, che ci chiediamo come sia possibile.
E che magari dimentichiamo coloro che valevano poco e sono stati ugualmente bruciati. Penso a qualcosa che è perduto nelle nebbie dell’oblio, come i quattro ragazzini che per gioco, in una notte di maggio del 1979, gettarono benzina e bruciarono vivo Ahmed Ali Giama, 35 anni, in quel vicolo della Pace in Roma che sarebbe divenuto il simbolo dei fragorosi anni Ottanta. Vennero accusati quattro bravi ragazzi, condannati prima a 61 anni di carcere e poi assolti in appello e in Cassazione, e poi sono stati dimenticati anche loro, perché loro erano figli ben educati e Ahmed era solo un somalo che alzava il gomito, un invisibile, un senzatetto che dormiva in strada, mangiava alla Caritas, e quella notte era sdraiato su un pezzo di cartone. Non ci sono colpevoli, non c’è nulla. C’è il fuoco, c’è il dolore. Quattro arbitri di calcio escono da una trattoria, lui è avvolto dalle fiamme e urla, non possono fare niente. Vedono anche tre ragazzi e una ragazza che scappano su due moto, sono intorno ai vent’anni.
Che c’entra, si dirà? Quello è un episodio di cronaca, lontanissimo, questa è una strage, altrettanto lontana. Ma, semplicemente, ci sono ieri come oggi vite che hanno pesi diversi e in quella notte di maggio non sapevamo quanto quella differenza sarebbe diventata più netta, e quanto avremmo dovuto, invece, serbare nella memoria quel gioco feroce, per affrontare quelli di oggi. Perché ogni storia che viene ritenuta marginale ci chiama in causa, perché quelle storie si sono sommate negli anni fino a farci diventare quel che siamo. Quelli di Gibson. Quelli che fanno in fretta ad appiccare le fiamme.
“Ci avevamo messo meno di otto minuti per bruciare Chrome”.

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