GLI ANNI SETTANTA, LE DICOTOMIE, LA GRAZIA

La discussione di ieri sugli anni Settanta che ha occupato tutta Fahrenheit, ha, spero, restituito quella che ne è stata la caratteristica: la volontà di cambiare se stessi insieme alla società, in ogni ambito. Letterario, sociale, politico. E personale, certo.
Per questo non è possibile raccontarli per dicotomie, anche se le dicotomie restano.
Che non servano, avremmo dovuto capirlo da un pezzo. Ce lo ha insegnato fra gli altri il professor Tolkien, facendo soccombere il gentile Frodo al potere dell’anello e, prima ancora, cambiando senso a un aggettivo del poema La battaglia di Maldon, dove si narra del conte inglese Byrthnoth che nel 991 manda a morire i suoi uomini «for his ofermod». «Audacia», si era tradotto fino a Tolkien. «Smisurato orgoglio», corresse il professore.
Ciò che causa morte si deve a questo, e dimenticarlo, trasformando ogni discussione in tifoseria (da entrambe le parti, se di parti si deve parlare) per il nostro smisurato orgoglio, significa vanificare ogni possibilità di confronto politico, culturale e sociale: nei fatti, ormai guardiamo la televisione per sapere chi vince nei dibattiti, non per capire qualcosa di quel che avviene intorno a noi.
Eppure, è quanto viene fatto, in una follia di ripolarizzazione non dissimile da quella che, nel primo periodo dell’invasione russa in Ucraina, portò solerti funzionari dell’Università Bicocca ad annullare le lezioni su Dostoevskij e altre istituzioni a togliere concerti dal cartellone o a evitare la partecipazione russa a festival e manifestazioni. Come se l’azione di un dittatore o di un gruppo terroristico dovesse trascinare con sé lo stigma per gli artisti passati e presenti. Come se l’Italia fosse raccontabile con quella P38 adagiata su un piatto di spaghetti con cui la bollò Der Spiegel nel 1977.
Per questo, ho trovato incredibilmente indicativo il messaggio dell’ascoltatore che, da figlio di divorziati, ha trovato “orribile” la legge sul divorzio. E’ la mia ferita, quindi parlo per tutti. Questi sono i nostri anni, e dobbiamo farci i conti, ogni giorno.

Ps. Nota personale. Ho ricevuto un altro messaggio ieri, che rimproverava, auspicando altre conduzioni, la mia “poca grazia”. Ma quella, Ursula Le Guin alla mano, è per me  un onore. Come scrisse Le Guin, quando entrò al Radcliffe College nel 1947:
“Con tono paterno, il preside del college informò noi ragazze che eravamo lì per imparare a vivere con grazia. Lo diceva a noi, una manciata di pazze intellettuali sgraziate, piene di passione, avide di tutto ciò che Harvard poteva darci: e avremmo dovuto star lì per imparare le buone maniere, comportarci da signore, apparecchiare la tavola con gusto, versare il tè? Ma per fortuna Harvard ci ha dato una formazione eccellente, preparando almeno alcune di noi a capire come e quando rovesciare il tavolo e la caraffa del tè. E per quali motivi.”
Sono fiera, della mia poca grazia. Davvero.

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