LE DUE DONNE DI GRAMMAMANTI

Comincia il mio ultimo turno di Fahrenheit, che durerà fino al 28 giugno (con una pausa nella settimana di Gita al Faro). Sarete dunque pazienti se userò il blog per riproporre vecchi articoli. Questo, per La Stampa, parla di Grammamanti di Vera Gheno.

 

“Ci sono due donne indispensabili nell’ultimo, bellissimo libro di Vera Gheno, Grammamanti (Einaudi, pagg.133, euro 15): una è la madre sconosciuta che tre milioni di anni fa, da poco ritta sulle gambe, posa il neonato in terra perché non può portarlo aggrappato alla schiena, avendo perso il pelo. Ma la culla improvvisata è scomoda e il bambino piange. Secondo la teoria di Dean Falk, è proprio la necessità di mantenere un contatto vocale con i figli, per rassicurarli, che fioriscono i primi germi del linguaggio. “L’atto del conoscere si fa atto d’amore”,  scrive Gheno, citando bell hooks.
La seconda donna si chiama Louise, è una linguista ed è la protagonista di Arrival, girato nel 2016 da Denis Villeneuve dal racconto Storie della tua vita di Ted Chiang. Su incarico del governo degli Stati Uniti, Louise deve decifrare i misteriosi segni circolari degli alieni arrivati sulla Terra: ci proverà e ci riuscirà (a un costo alto). Il momento più potente del film, dice Gheno, è quando Louise scrive su una lavagnetta la parola human e la pronuncia piú volte, indicando se stessa, e uno degli alieni traccia in risposta un circoletto nero. Questo fa la lingua: ci definisce e ci mette in comunicazione con gli altri, perché la lingua “ci identifica come individui, ma anche come membri di una comunità”.
Grammamanti è un breve e appassionato saggio sulla bellezza e sulla “potente libertà” della lingua, in moltissimi casi ritenuta immutabile. Ma, avverte Gheno, non è mai esistita un’età d’oro della lingua e, generazione dopo generazione, si sono avanzate critiche per modi di dire o vocaboli che ci suonano estranei. In effetti, sembrano aumentare le persone che hanno un rapporto irrisolto con le parole e si indignano davanti a un neologismo, un giovanilismo o un forestierismo. Invece, la lingua ha certamente delle regole, ma è straordinariamente creativa; dunque, si chiede Gheno, è “possibile avere una sana e duratura relazione amorosa con la propria lingua, invece che una basata su un morboso senso del possesso (che per me è quello che fanno i grammarnazi)? Si può passare dalla salvaguardia, dalla difesa (come se la lingua fosse la classica damsel in distress, «una damigella in pericolo»), a un amore maturo, basato sul rispetto?”.
La risposta è sì, e alla fine del libro appare anche un elenco di nove suggerimenti per sostituire l’amore alla protezione. Conoscere, intanto. Sapere come una lingua nasce, evolve, muore, come segue i cambiamenti della società, e  comprendere che non è mai sostanza immobile ma mutevole, che non viene corrotta ma si arricchisce in complessità. Grazie alla nostra interazione con gli altri, perché linguaggio e pensiero non germogliano e crescono se non insieme a chi ci circonda.
Nel saggio, Gheno si occupa delle resistenze, per essere gentili, di coloro che non comprendono la necessità di introdurre formule o suoni o parole che accolgono l’autodefinizione delle altre e degli altri. Dire “diversamente abile” e non “disabile”, spiega,  non è una richiesta dei soggetti disabili, ma la convinzione che la parola fosse disdicevole, un esempio di antilingua calviniana. Definire per sottrazione (“non vedenti”, “non udenti”), significa avere in mente un unico concetto di normalità: il proprio. “La nostra società è fortemente sbilanciata a favore dei «normali» I normali hanno il potere di nominare i «diversi», che sono costretti  a subire denominazioni che non hanno scelto per sé”.  Invece di parlare fino allo sfinimento del politicamente corretto come atto di censura, allora, occorrerebbe ragionare in termini di rispetto, dal momento che le alternative ci sono. E non sono obbligatorie, a differenza di quanto si continua a sostenere immaginando una legge che imponga l’uso di schwa e di architetta: “Trovo il passaggio dal «come si devono dire le cose» al «come si possono dire le cose» importante quanto la rivoluzione copernicana: qualcosa che sembra quasi lapalissiano, ma che ancora viene messo in pratica troppo poco”. Non è una questione di linguaggio inclusivo (che per Gheno ricalca lo stesso limite concettuale), ma di linguaggio ampio, che sta a significare “una riflessione in movimento, l’idea di un universo linguistico in espansione, nel quale non si sostituisce e non si cancella nulla, ma si aggiungono ulteriori modi per esprimersi”. Nessuna rimozione, ma acquisizione, conoscenza, gioia, anche, per le infinite possibilità.
Qualcosa che dovrebbe avvenire anche a scuola, come diceva Tullio De Mauro già nel 1975, auspicando che venisse insegnata un po’ di linguistica e non solo grammatica. Conoscere le regole è ovviamente importante, e la grammatica è essenziale: ma conoscere la lingua implica qualcosa di più. E poi? Sforzarsi, sempre, non irrigidirsi, capire:  “amare richiede fatica: nessuna relazione prospera se non ci si impegna a farla funzionare. Cosí, anche quella con le nostre parole deve essere curata. È una fatica che viene ripagata, perché grammamare ci fa vivere meglio. Per me, la salute passa anche dalle parole: salus per verba, per usare il latino”.”

 

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