Per carità, non voglio fare lezioni. E a che titolo, poi? Quindi, comincio subito con una lezione contenuta in un articolo del 2001. Lo firma Umberto Eco: “l’abilità giornalistica si è atrofizzata e i giornali spendono gran parte del loro tempo a riciclare acqua calda. La simbiosi tra stampa e potere politico deriva dallo stretto rapporto tra i proprietari dei maggiori giornali e la classe politica.”
Ora, dal paradiso dei buoni maestri, se esiste, Eco forse scuoterà bonariamente la testa dopo aver letto i giornali di oggi e visto i telegiornali di ieri sera.
Perché con pochissime eccezioni (le solite, Il Fatto e il Manifesto) i giornali aprono le cronache delle gigantesche, meravigliose piazze di ieri con la notizia degli scontri milanesi. Gli stessi che hanno dato adito alla premier e alle destre tutte di dire che chi si batte per la Palestina è violento, chi è antifascista è violento, chi scende in piazza è violento. Pare che Piantedosi abbia dichiarato che il governo non vieterà mai manifestazioni e cortei. E ci mancherebbe altro: ma è gravissimo che abbia potuto soltanto dirlo.
Date un’occhiata ai giornali, vi prego, e poi date un’occhiata ai social, alle centinaia di fotografie gioiose, sotto il sole o la pioggia, nelle città grandi e in quelle piccole, nei porti e nelle piazze, e tirate le somme.
E a chi scrive oggi su un giornale vorrei ricordare che è esattamente questo il problema: raccontare a partire dall’eccezione e non da tutto il resto.
Dare la priorità al sampietrino e al cassonetto è una responsabilità dei giornali.
Fornire alibi a chi ci governa è una responsabilità dei giornali.
Questa lezioncina, che tale è divenuta, è inutile, ma tanto dovevo. E dunque la chiudo con un’altra lezione, stavolta di Borges:
“Un libro è un oggetto fisico in un mondo di oggetti fisici. È un insieme di simboli morti. Poi arriva il lettore giusto e le parole – o meglio la poesia che sta dietro le parole, perché le parole in sé sono semplici simboli – tornano in vita. Ed ecco la resurrezione della parola”.
Fatele tornare in vita, queste parole. Per favore.
Categoria: Cose che accadono in giro
Nel 1940 uno studente di 17 anni stila “il decalogo del buon danese”, con cui si invita alla resistenza nonviolenta ai nazisti la popolazione. Funzionò, e Arendt ne fu colpita e lo raccontò.
Nel 2025 il sindaco di Ravenna, Alessandro Barattoni, blocca la partenza delle armi destinate a Gaza.
E poi c’è una piccola storia che lo riguarda e riguarda me.
Domenica scorsa, prima della prolusione dantesca al Teatro Alighieri di Ravenna, ho provato il microfono e le luci. Avevo con me una barchetta di carta con i colori di Gaza: me l’avevano data, la sera prima, alcune donne che organizzano piccole e grandi iniziative simboliche. Lanciare barchette di carta, non potendo essere fisicamente su altre barche. Ho promesso che, nel passaggio della prolusione in cui citavo Gaza, avrei sollevato la barchetta per mostrarla al pubblico.
Solo che, una volta dietro le quinte, non la trovavo più: l’avevo infilata fra le pagine del testo, nel punto esatto in cui nominavo i bambini di Gaza. Mi sono data della cretina e della distratta. Ma quando sono entrata in scena, dopo il discorso di apertura istituzionale, fra cui quello del sindaco, ho trovato la barchetta sul leggio. Mi hanno poi raccontato che è stato lo stesso sindaco ad aver visto la barchetta in terra, ad averla avvicinata con la scarpa per raccoglierla e a posizionarla nel punto giusto.
Certo che è una cosa piccolissima. Anzi no. E’ un simbolo. E’ un segnale di attenzione. E ne abbiamo bisogno.
Grazie, sindaco, per tutto.
Leggo le dichiarazioni del ministro delle Finanze israeliano, Bezalel Smotrich, che parla di Gaza come di una “miniera d’oro immobiliare” che si “ripaga da sola. Abbiamo pagato un sacco di soldi per questa guerra. Dobbiamo capire come dividere il terreno in percentuale”. E aggiunge: “La prima fase del rinnovamento della città, la demolizione, l’abbiamo già fatta. Ora dobbiamo costruire”.
Leggo, ascolto, l’atroce frase “Definisca bambino” del presidente della Federazione Amici di Israele, Eyal Mizrahi (a un comico televisivo, Enzo Iacchetti, che qualunque cosa si pensi di lui ha avuto il coraggio di tenergli testa).
Leggo le dichiarazioni della presidente del Consiglio sulla sinistra che odia, e non solo le sue, ma delle destre del mondo che fanno quello che hanno sempre fatto, avvolgere come una spira di fumo velenoso la solitudine, la povertà, lo sconcerto delle persone.
Naturalmente non ho antidoti, come chiunque di noi, e a ogni modo non nell’immediato, perché il lavoro sarà lungo e faticoso (ma ci sarà).
Però ho un riferimento, una lettura, poca cosa, si dirà. Per quel che vale sono i racconti di Alan Moore raccolti in Illuminations.
Uno, in particolare, “Cosa ci è dato sapere su Thunderman”, dove uno dei personaggi, Worsley, guarda le immagini dell’assalto a Capitol Hill, e riflette: “Nel 2016, tutto era stato permeato da una specie di atmosfera fumettistica, non da ultimo Donald Trump, o semplicemente Il Donald, come lo chiamavano ancora i suoi sostenitori, un po’ come Thunderman e Re Fuco. Quell’anno, sei tra i dieci film più amati dal pubblico erano stati sui supereroi, e forse la gente voleva un mondo più semplice, più comprensibile. Volevano grandi nemici e drammatici colpi di scena, a prescindere dal fatto che la loro verosimiglianza fosse forzata, e volevano un personaggio tanto improbabile quanto memorabile che offrisse loro soluzioni facili e al limite del credibile, proprio come le minacce immaginarie che dovevano arginare”.
Ben ritrovato, commentarium.
Come post del rientro, scelgo un florilegio marchigiano in vista delle prossime elezioni regionali. Sul cui risultato, ovviamente, non mi esprimo, perché non sono un’analista politica né una sondaggista né una sibilla. Però riporto qui alcune parti delle rubriche scritte in agosto per l’Espresso, tanto per far capire come le destre si stanno muovendo. Da Giuli ad Acquaroli, da Castelli a Pasqui, si gioca il tutto per tutto. Anche a colpi di patrocini, libri, pecette.
Il blog va in vacanza. Non sparisco, sarò presente sui social, ma ho bisogno di lasciare che i pensieri scorrano, come ogni anno.
Però vi lascio con un consiglio. Leggete quello che ha scritto oggi sul Manifesto Sarah Gainsforth perché fra un inno e l’altro all’operato del sindaco Sala, fra una dichiarazione d’amore per Milano accompagnata dal consiglio di comprare il proprio libro su Milano, insomma fra tutto quello che si legge oggi, lei dice, almeno per me, la cosa giusta.
Tra l’altro:
“Milano ha fatto da apripista alla privatizzazione delle città cedendo in alcuni casi anche gratuitamente aree pubbliche a privati. Così oggi, si sostiene, costruire case per i ceti medi e bassi costa troppo. Ma se le case fossero costruite su suolo pubblico, a scopi abitativi e non speculativi, gli unici costi da sostenere sarebbero quelli di costruzione. E se le plusvalenze realizzate attraverso le trasformazioni fondiarie e immobiliari private fossero tassate adeguatamente, il comune avrebbe più soldi per costruire edilizia sociale e popolare. Ma a Milano la politica stessa è stata esternalizzata agli interessi dei privati e non si può neanche parlare di negoziazione pubblico-privata: a Milano hanno deciso direttamente i privati. Questo processo riguarda però tutte le città italiane; una proposta di legge sulla rigenerazione urbana prevede esplicitamente di affidare lo sviluppo delle città a soggetti privati”.
Buona lettura e buona estate.
Nel 1979 Alberto Fortis scrive Milano e Vincenzo, che ha avuto un certo successo specie per il ritornello.
Naturalmente oggi sarebbe improponibile, perché Facebook la prenderebbe come una minaccia e cancellerebbe ogni post di riferimento e Vincenzo avrebbe querelato (era, per la cronaca, un discografico, Vincenzo Micocci, che secondo Fortis avrebbe ritardato la sua carriera: poi fecero pace e nel 2010 Fortis medesimo scrisse “Vincenzo io ti abbraccerò”).
Fortis non amava i romani, tanto è vero che nello stesso anno scrisse A voi romani, piena di odio per i medesimi e secondo lui motivo di minacce che durano ancora oggi.
Naturalmente non mi illudo di spiegare quello che sta accadendo ed è accaduto a Milano con qualche strofa di molti anni fa. Però, da romana sia pur recalcitrante ci ritrovo una piccola porzione di verità. Che evidentemente non riguarda soltanto le due città, ma un sistema che non è neppure del tutto italiano, quello di una crescita a dispetto di ogni prospettiva di futuro reale, fatta di apparenza (il dannatissimo decoro) e non di sostanza (il verde urbano, l’attenzione per la parte non ricca della popolazione).
Roma e Milano non sono così distanti da questo punto di vista, e neanche altre città italiane, e non solo italiane. Tutto questo è banale, lo so, ma temo che se non ci concentriamo su questo, la nostra indignazione durerà il tempo di una canzonetta.
I sogni sono strani. Questa mattina mi sono svegliata con in testa la frase del Riccardo III di Shakespeare (e del bellissimo romanzo di Javier Marías) : “Domani nella battaglia pensa a me, e cada la tua spada senza filo: dispera e muori!”.
I sogni sono strani, evocano fantasmi, appunto, e chiedono giustizia. E in questi giorni ho diversi fantasmi intorno a me e molto sconcerto: sì, sto parlando ancora di alberi e di verde urbano e, no, non lo faccio per riposizionarmi come mi è stato graziosamente detto un paio di giorni fa facendomi rimanere malissimo, né perché la mossa prima, quella che mi ha fatto capire quanto grave sia la situazione, è avvenuta letteralmente “nel mio cortile”, con il taglio delle decine di alberi alti e sani sul terreno accanto a me che ha fatto alzare di diversi gradi, termometro alla mano, la temperatura delle case di fronte, private di ombra. Lo faccio perché è la cosa più importante che posso fare in questo momento.
Mi stanno arrivando da tutta Italia commenti e segnalazioni su tagli indiscriminati del verde urbano, tanto che non riuscirò in un solo post a riportare tutto quel che sta avvenendo. Ma quel che sta avvenendo, appunto, è che a fronte degli abbattimenti e degli scempi, esistono decine di comitati di cittadine e cittadini che provano a fermarli: anche qui, non riesco a elencarli tutti, dal Comitato Besta a Bologna alla rete di Onda. E questo, alla luce di quanto sta avvenendo a Milano, è molto interessante e importante: i cantieri, la “rigenerazione urbana”, i grattacieli, eccetera. Ma quelle due parole, “rigenerazione urbana”, tornano ovunque: e significano una sola cosa, mattoni per il decoro, preteso non si sa bene da chi e attuato in nome di una cittadinanza fantasma che desidererebbe gradoni assolati invece di verde e ombra.
Per esempio, mi arriva la storia dei platani di Venezia.
In questi giorni ho postato vari articoli, incluso il mio su L’Espresso, sull’avanzata del cemento nelle città e sul progressivo abbattimento di alberi. La tendenza maggioritaria dei commenti è di testimonianza: ovvero cittadine e cittadini da ogni parte d’Italia che raccontano cosa avviene nelle loro città. E sarebbe importante leggere questi commenti e farne tesoro.
Però ce n’è una minoritaria ma rumorosa. Persone che scrivono: bugia, Roma è ricca di verde, anzi è la più ricca di tutte. Oppure, da Bologna, qualcuna che strilla: ma insomma, non si può più fare niente!
Dunque, Roma. Secondo Roma Capitale, “dal novembre 2021 al febbraio 2025 sono stati messi a dimora 29.665 alberi giovani, sono stati abbattuti ben 13.281 alberi adulti, sono state rimosse 10.365 ceppaie, sono state effettuate circa 120.000 potature”
Ma gli alberelli giovani, come spiega Antonio Pascale, vengono piantati male e non curati, dunque muoiono. Quanto alla potatura, “si preferisce la capitozzatura. Vietata in teoria ma di fatto quella più usata. In pratica, gli alberi diventano pali della luce. Un obbrobrio (avrei voluto farvi vedere come pochi mesi fa hanno ridotto gli olmi di via di Donna Olimpia, a Roma). Voi dite: ma così almeno non cadono. No, al contrario, così cadono di sicuro”.
Insomma, a fronte degli alberelli piantati, si sono tagliati o capitozzati malissimo parecchi altri. Che significa? Che a Roma si va avanti come si può, per fare appunto la foto col sindaco o l’assessore, e non è vero affatto che il verde aumenta. Aumenta formalmente, nei fatti diminuisce.
Bologna, dunque, tanto per fermarci a due città, perché sto ricevendo parecchie segnalazioni da tutta Italia.
Tanto per cominciare, domani c’è un’iniziativa da seguire. Alle 17 ci sarà un flashmob in piazza dell’Unità, dove vogliono abbattere gli alberi. Ci sarà un’altra iniziativa venerdì, titolo “Hands Off San Leo”, ovvero il giardino di San Leonardo entrato nelle mire della Johns Hopkins University, su cui c’è qualcosa da sapere.
Per farla corta, non è che occuparsi degli alberi significa essere noiosi passatisti o addirittura complottisti anti-sindaci. Significa provare a salvare le nostre città, e noi stessi, e i nostri figli e figlie.
Se poi si preferisce continuare così perché la politica ha lo sguardo sempre più corto e l’unico futuro che concepisce è quello della prossima scadenza elettorale, strillate pure. Ma Saramago avrebbe un paio di cosette da dire sulla cecità.
Sono curiosi segni del destino, non credete? A pochi minuti dalla diretta di questa mattina di Pagina3, arriva la notizia della morte di Goffredo Fofi, personalità enorme e difficile e dagli innumerevoli meriti.
Il curioso segno del destino è che avevo deciso di leggere in apertura il lungo articolo di Stefania Consigliere e Cristina Zavaroni “Rimozione forzata” che trovate su Giap!, insieme alla postilla dei Wu Ming, e che racconta come la frattura che si creò allora fra “rimasti pandemici” e “disvedenti” non si è mai sanata, e che in virtù anzi di quella frattura abbiamo accettato tutto.
E’ soprattutto nei rapporti fra gli esseri umani che le cose sono cambiate: la spaccatura ha preso il posto del dialogo, l’irrigidimento ha sostituito il dubbio, l’incapacità di concepire un futuro ha sostituito la progettualità, o la visione, o l’incanto o chiamatelo come volete.
Ecco, sono andata a ricercarmi un vecchio articolo di Goffredo Fofi scritto nei mesi del primo lockdown, quando molti si erano già trasformati in vigilanti e spie. E lui, questo, l’aveva visto e scritto:
“La distanza è grande, tra il buon cittadino e il cittadino servile e rivendicativo, pronto a obbedire a qualsiasi potere pur di sentirsi qualcuno, e fustigatore di ogni esempio di autonomia, di chi predica il rispetto di una legge comune ma nell’esigenza di una legge giusta e migliore, di una giustizia reale. Dagli zelanti bisogna guardarsi, oggi e domani. E dai loro sostenitori politici! E almeno per me e spero non solo per me, vale la scritta che un amico mi dice di aver visto scritta a calce sull’argine di una ferrovia alle porte di Firenze: “Ora pazienti poi disobbedienti”.”
Oggi Donatella Di Pietrantonio mi ha dato molto da pensare, con il suo bellissimo articolo sui prematuri che trovate su Lucy sulla cultura.
Leggere per i bambini e le bambine nati troppo presto non significa soltanto aiutare, con la propria voce, i piccoli. Significa ricreare un gruppo solidale.
Quando è nata la mia primogenita, prematura, molte cose non si sapevano: allora la pratica del marsupio per mantenere figlio o figlia pelle a pelle non si usava, e bisognava aspettare che qualcuno si distraesse per infilare le mani negli oblò dell’incubatrice e strappare un contatto, una carezza, qualche canzone da sussurrare, perché magari nessuno ce lo aveva detto, ma avevamo bisogno di toccare la pelle dei figli, di far sentire che eravamo presenti, che anche se eravamo stati separati troppo presto eravamo comunque vicini, e che saremmo usciti da là insieme.
Ma anche allora, in quella stanza che risuonava di bip e campanelli che avevamo imparato a percepire come rassicuranti o minacciosi, non eravamo sole, noi madri dei troppo piccoli: c’erano appunto le infermiere, le altre mamme, ci si rassicurava o consolava a vicenda.
Io sono sicura che succeda ancora, perché nonostante tutto credo che negli esseri umani ci sia parecchia luce, oltre all’ombra che vediamo ogni giorno, ogni minuto. Mi chiedo però perché dimentichiamo le cose buone e belle che abbiamo avuto e abbiamo.
Non ho risposte e non credo che la colpa sia, o non solo, dei social. Credo, ma se ne parlerà meglio domani, che troppo abbiamo rimosso dalle nostre vite.
Intanto, tengo caro il finale della Biblioteca di Babele di Borges che Donatella Di Pietrantonio leggeva al piccolo che le era stato assegnato:
“Questa elegante speranza rallegra la mia solitudine”.