Inizio la settimana con alcune citazioni di e su Leonardo Sciascia. Le motivazioni sono molteplici. Fatele vostre, se volete.
“Uno Stato quale che sia, quali che siano i principi o la classe che effettualmente rappresenta, sempre funziona (o non funziona) attraverso i suoi funzionari. In Sicilia un funzionario che si mostrasse sagace e onesto, resistente alla corruzione o alla pressione dei potenti, veniva o isolato o espulso come corpo estraneo. Il « trasferimento » è stata, e forse è ancora, l’arma del potere mafioso contro il funzionario che non stava al gioco”.
Storia Illustrata – anno XVI – n. 173 – aprile 1972 – A. Mondadori
Editore
“Direi che il dato più probante e preoccupante della corruzione italiana non tanto risieda nel fatto che si rubi nella cosa pubblica e nella privata, quanto nel fatto che si rubi senza l’intelligenza del fare e che persone di assoluta mediocrità si trovino al vertice di pubbliche e private imprese. In queste persone la mediocrità si accompagna ad un elemento maniacale, di follia, che nel favore della fortuna non appare se non per qualche innocuo segno, ma che alle prime difficoltà comincia a manifestarsi e a crescere fino a travolgerli. Si può dire di loro quel che D’Annunzio diceva di Marinetti: che sono dei cretini con qualche lampo di imbecillità: solo che nel contesto in cui agiscono l’imbecillità appare – e in un certo senso e fino a un certo punto è – fantasia. In una società bene ordinata non sarebbero andati molto al di là della qualifica di “impiegati d’ordine”; in una società in fermento, in trasformazione, sarebbero stati subito emarginati – non resistendo alla competizione con gli intelligenti – come poveri “cavalieri d’industria”; in una società non società arrivano ai vertici e ci stanno fin tanto che il contesto stesso che li ha prodotti non li ringoia”.
Il Globo, 24 luglio 1982
“Ruggero Guarini, quand’era ancora responsabile della terza pagina del “Messaggero” – stiamo parlando di trent’anni fa – ha scritto che Sciascia «crede di essere nipote di Voltaire, figlio di Pirandello, fratello di Borges, con una sostanza culturale di derivazione squisitamente giornalistica». Goffredo Fofi, sui “Quaderni Piacentini”, sostiene che “L’opera di Sciascia e il suo aspetto profondamente reazionario finisce per prevalere sui non pochi meriti, la sua programmatica sfiducia nel popolo sul suo ostinato amore per gli ostinati ribelli, la sua amara e inutile vecchiaia su quel che di nuovo la sua opera pure avrebbe potuto avere”. Non è da meno Grazia Cherchi, raffinata critica e consulente editoriale, in una notarella libraria apparsa su “Linus”: L’affaire Moro è “un libro inutile e nato morto, di cui ci siamo dimenticati subito, e senza sforzo”; La Sicilia come metafora è null’altro che “una stracca intervista”, mentre Nero su nero è un patchwork “di note e notarelle, commenti e commentini, motti e mottetti, lamentazioni sul nostro paese, aforismi abortiti”; né è da meno Oreste del Buono; su “Panorama” scolpisce: “E’ come se allo Sciascia che tutti conosciamo e di cui io ho per primo nostalgia, quello lucido e anticipatore degli avvenimenti di Todo modo e del Contesto, si fosse aggiunto adesso un secondo personaggio, una specie di mister Hyde, che parla, scrive, fa il moralista al posto dell’altro”. Non basta. Sempre del Buono, a cui va riconosciuto il primato, tornato ad occuparsi di Sciascia, su “Linus” lo accusa di essere un poco mafioso, e conseguentemente di lanciare “avvertimenti” (mafiosi, beninteso) verso chi dissente dal tripudio generale nei suoi confronti.
Ancora: per Giovanni Raboni Sciascia “è precipitato al livello di un terrorismo piccolo-borghese, per non dire qualunquista”; Giampaolo Pansa sostiene che “il nuovo Sciascia ci fa una gran pena… A me pare che Sciascia si è messo a combattere con Sciascia. Sciascia contro Sciascia. Impegnato a demolire articolo dopo articolo, l’immagine di se stesso”; Claudio Fava dipinge un “Leonardo Sciascia, ormai travolto dagli anni e da antichi livori…”; mentre per Nando Dalla Chiesa, che sostiene di averci pensato a lungo, e di essere giunto “…alla conclusione che… Il giorno della civetta è uno splendido libro sulla mafia, una fotografia perfetta, ma non uno strumento di lotta contro la mafia”.”
Valter Vecellio, Notizie Radicali, marzo 2013
Rubo la seconda citazione e la pubblico sulla mia bacheca FB. Lo penso da sempre, ma saperlo dire così bene, no, quella è un’altra faccenda.
L’affaire Moro è “un libro….di cui ci siamo dimenticati subito”, questo è vero, ma non perché “inutile e nato morto”.
Forse perché nato subito sin troppo vivo, c’era già dentro tutto.
” i ladri intesi come categoria,il tutto per la parte,la solita sineddoche”(cfr Nadia Morbelli su Hanno ammazzato la Marinin)
Può darsi che Sciascia, come letterato, avesse qualche difetto, per così dire, anche se la maggior parte delle critiche riportate nell’ultima citazione mi sembrano – forse mi sbaglierò… – dettate da ostilità “programmatica” contro il “personaggio” Sciascia e le sue prese di posizione politiche, culturali, ecc. (temo non gli si perdonasse facilmente la scelta di abbandonare il PCI. Forse a una parte di “critici militanti” di allora riusciva difficile perdonare chi aveva voltato le spalle alla “casa madre”, e d’improvviso gli trovavano tutti i difetti del mondo… ma sono solo congetture, per carità…).
Comunque, dicevo, a parte i possibili limiti di Sciascia, restano – tra le altre – quelle lucide parole sulla corruzione, argomento da sempre eluso con imbarazzo qui da noi. Su certe cose qui si sorvola, si glissa… Sembra che quel problema non ci riguardi.
La seconda citazione specialmente sembra andare al cuore della questione. Il suo approccio è “impressionistico”, certo, ed è tutt’altro che “scientifico” (nel senso della ricerca sociologica, politologica, ecc.), ma in quelle righe c’è una fotografia nitida, che può risultare un utilissimo punto di partenza per chi voglia seriamente interrogarsi sulla natura del nostro collettivo “male profondo”.
Dovrebbe sorprenderci soprattutto l’attualità di una riflessione, come quella, risalente a trent’anni fa (*”Direi che il dato più probante e preoccupante della corruzione italiana non tanto risieda nel fatto che si rubi nella cosa pubblica e nella privata, quanto nel fatto che si rubi senza l’intelligenza del fare e che persone di assoluta mediocrità si trovino al vertice di pubbliche e private imprese”*, ecc.). Dovrebbe sorprenderci il fatto che una fotografia così “vecchia” risulti scattata stamattina! Dunque davvero siamo “immobili” come in un’eterna fotografia… Abbiamo fatto tanti “cambiamenti” in questi anni, almeno in apparenza, e invece siamo sempre lì. Si vede che il “male” non era in ciò che abbiamo buttato via, o meglio (giacché non mi sento affatto un nostalgico) non era tutto lì – abbiamo preferito illuderci di aver “ripulito le stanze”, ma coi nostri veri “vizi” abbiamo evitato di fare i conti. Difatti, come dicevo, la corruzione rappresenta di solito (ahimè) un tema sul quale glissare, o intorno al quale imbastire tutt’al più comode e genericissime filippiche “moralistiche”, ma senza mai affrontarlo di petto, con la vera intenzione di (provare, almeno provare seriamente a) disfarsene.
Sciascia ce lo ricorda costantemente. “Antipatico”, no?
Mi è amico Platone, ma ancor di più mi è amica la verità, diceva uno bravo. Sciascia ragionava allo stesso modo. Molti altri no. La fuoriuscita dal PCI per avere tenuto fede a questo principio, facendo anche la figura del bugiardo per colpa di intellettuali organici e senza principi come Guttuso, tutta la manfrina retorica dell’antimafia che lui prese di petto unicamente sulla base di una questione di diritto e di principio. Battaglie intellettuali di principio, appunto, condotte con totale spregio del proprio interesse. Non lo capivano allora, non lo capiranno adesso.
Ho letto ieri che uno studio dimostra come la passione politica offusca le capacità intellettuali. Chi cerca di dar ragione alla propria parte commette, più o meno inconsciamente, errori di valutazione che altrimenti non farebbe. Sciascia era proprio di tutt’altra pasta.
@ Guglielmo Pispisa: lo studio in realtà era più articolato, a dispetto dei titoli dei giornali che ne hanno parlato, e tendeva a mostrare come, non solo in politica, tendiamo a usare la ragione non tanto per indagare a mente libera fenomeni che non conosciamo, ma piuttosto a posteriori, per giustificare i nostri pregiudizi; ignorando le informazioni che li confutano e valorizzando quelle che li rafforzano. E, nel condividere quasi tutto quel (poco, purtroppo) che ho avuto modo di sapere sul pensiero di Sciascia, temo che qualche volta ci sia cascato anche lui. Essere umano, come tutti noi, ancorché più acuto e più talentuoso. La polemica sui professionisti dell’antimafia, per esempio, a me non pare cogliere nel segno: in un mondo ideale avrà pure ragione lui, ma in quello reale un fenomeno complesso come la mafia non può combattersi assegnando ai PM, indifferentemente, processi di mafia e liti di condominio. La specializzazione è una caratteristica fondamentale di ogni professione complessa, perché non dovrebbe essere così anche per la magistratura?
Nessuno è perfetto, nemmeno Sciascia, ma proprio quella polemica venne cavalcata in maniera indegna dai suoi mediocri detrattori per screditarlo, addirittura dandogli del mafioso. Il che veramente…
Ah, all’uso strumentale di quella posizione, ti riferivi. Mah, io certa gentaglia tendo a relegarla nel retrobottega della memoria. Un po’ come Pupo Alfano, che si permette di dare del cattivo maestro a Rodotà che ha pronunciato parole chiarissime e condivisibili, quando l’intera storia di quel signore (e sottolineo signore) avrebbe dovuto attestare le sue intenzioni; e l’intera barzelletta che è la storia di Alfano, degno di fare l’avvocaticchio delle liti di condominio a Palermo e invece miracolato ministro dal Re Pagliaccio, avrebbe dovuto qualificare le sue parole per quello che erano: materia organica maleodorante che usciva dall’orifizio sbagliato. O forse nel suo caso era quello giusto. Certo, la vicenda di Sciascia è più drammatica e articolata, ma lo spirito mi pare lo stesso.
Non mi sembra corretto. Si citano due brani di Sciascia sulla corruzione (lucidi, come si dice di solito) e poi, a seguire, un pastone di critiche nei suoi confronti ma non relative a quei brani, così da dire l’impressione che Grazia Cherchi, Oreste Del Buono e Giovanni Raboni siano a favore della corruzione, un modo di argomentare degno dei radicali (è loro il pastone) ma che infastidisce qui. Se dobbiamo dire che Sciascia non è criticabile anche quando magari se lo merita diciamolo, ma senza infangare altre persone. Ricordiamo che l’ultimo intervento pubblico prima della morte Sciascia lo dedicò a Salman Rushdie che era stato appena colpito dalla fatwa per i Versetti Satanici: disse, andreottianamente, che se l’era andata a cercare.
(e per favore, smettiamola di considerare L’Affaire Moro, acuto quant’è, come l’ultima parola sul caso: siamo ancora convinti che il punto centrale di quella vicenda fosse la posizione del PCI sull’autenticità o meno delle lettere di Moro dalla prigionia? Insomma, non facciamo i radicali)