Sono colpita, molto, dal romanzo di Camilla Noli (australiana di origini italiane), La notte si avvicina. E anche un po’ dubbiosa.
Colpita perchè il libro è spietato, e affonda le dita in quella zona d’ombra della maternità che viene giudiziosamente negata, d’abitudine: e dove turbinano la stanchezza, l’insofferenza, il rifiuto. Che esistono, ed esistono quasi sempre: se ci si fa i conti, se si guarda in faccia la matrigna cattiva che aggrotta le sopracciglia, svaniscono, o diventano ininfluenti.
La mamma del romanzo è stanca. Soprattutto stanca: ha due bambini molto piccoli, un marito che le ha suggerito di lasciare il lavoro che amava (lei era- per autodefinizione- un’intellettuale), un giro di amicizie che si è ristretto ad altre mamme. Mamme che si ritrovano a casa dell’una o dell’altra per parlare di pannolini, ciucciotti, sesso coniugale. E dormire sulle sedie. La mamma del romanzo non riesce più a leggere. E la sua primogenita di poco più di un anno la sottopone ad un gioco al rialzo continuo.
Succede quel che si immagina: ma non come lo si immagina. Non c’è nessuna concessione ai buoni sentimenti o alla retorica, in questo strano libro, privo di pietà per il mostro, ma anche per le sue vittime. Strano.
Ps. I dubbi? Uno. La sottile, ma inestirpabile convinzione che le madri, per essere buone madri, debbano comunque rinunciare a tutto. Noli non lo dice, ma in chi legge la sensazione rimane. Non è una novità, comunque.
Ci ho l’imbarazzo che sempre mi capita quando in un blog si parla di un libro che non ho letto, e ci sono gli indizi per fare un commento e però ti dici e vabbè se il libro non l’hai letto?
Io sono un po’ stanca della retorica della buona madre che deve rinunciare a tutto e di quell’altra che una buona mamma assomiglia a una specie di madonna de filippo lippi, che poi se così fosse in realtà sarebbe un personaggio di Palahniuk.
Ma il commento che mi è sovvenuto, ma è da prender ecolle pinze, perchè il libro non l’ho letto e il commento è perciò fanfarone – ma siamo sicuri che se era così tanto intellettuale riusciva a smettere di essere intellettuale e si abbandonava al giro di amichette mamme in preda a raptus da pannolino? E’ così labile l’intellettualità della donna?
La maternità non trasforma radicalmente esprime potenzialità. Se una abdica con tanta velocità questa intellettualità adorata era un vestitino come un altro, piuttosto che un modo esistenziale. Ma io vedo in questa trama di un libro magari bello e ben scritto, un modo strano di concepire l’intellettualità femminile, quando c’è perchè non è obbligatoria. Un modo distorto. Perchè ecco: ne conosco a mazzi di femmine intellettuali che bestemmiano per i costi della maternità. Ma nessuna si è trasformata in una massaia della brianza.
Se per intellettuale intendiamo colui il quale per compiere il proprio lavoro deve usare soprattutto l’intelletto, allora smette di lavorare e quindi anche di essere un intellettuale. Se essere un intellettuale rappresenta un modo di vivere e la lente attraverso la quale si guarda la realtà, allora non si potrà mai smettere di esserlo.
ha ragione zauberei, “maternità” non deve per forza significare “rinunciare”.
buon natale.
Anch’io come Zauberei non ho letto il libro, e quindi non esprimo pareri sullo specifico. Ma il tema mi affascina, e quindi intervengo magari anche un po’ a sproposito.
E’ vero, maternità non significa per forza “rinuncia”, e nemmeno “riprendere una vecchia tradizione” per arrivare a far “accadere quel che si immagina”. Insomma tra il diventare una casalinga della brianza e il compiere i gesti più estremi ci sono una quantità di sfumature, e di modi di vivere la maternità (come tutte le esperienze della propria vita, eh) che permettono di non rinunciare… eppure, eppure, zauberei, c’è ad un certo punto, anche – e oserei dire forse soprattutto, se non sembrasse eccesso di presunzione – nelle donne più consapevoli, un grado di solitudine e di stanchezza tale che davvero arrivi a chiederti ma chi cazzo sono io? com’è che mi sono trasformata in una specie di automa che cambia pannolini, accudisce, cucina, pulisce, e non ha letteralmente la forza (mentale e fisica) per fare altro? per percepirsi anche in una dimensione altra?ci sono dei momenti in cui la solitudine (e il giro delle mamme con cui parli di pannolini, denti, svezzamenti, e soprattutto di quando hai partorito come hai partorito dove hai partorito, ci sono donne che ancora dopo anni trovano che sia un meraviglioso argomento per passare ore ai giardinetti mentre i figli ormai hanno l’età degli sturbi ormonali, insomma questo sembra essere l’unico giro di socialità che ti è consentito), la solitudine ti piomba addosso e in quel momento lì non riesci a comprendere che è una fase, che se tieni duro prima o poi, con fatica riuscirai a ritrovare tutte le altre dimensioni che fanno la tua vita, la tua individualità. Ma quando ci sei in mezzo, davvero non vedi come e quando potrai tornare ad essere una donna pensante. E’ la solitudine che ammazza, è la maternità vissuta come un evento esclusivamente individuale – non ha più nulla di “sociale”, il diventare madre, diventi una categoria a parte, isolata, in quarantena. Ecco, allora non è che rinunci perchè quell’abito mentale era un vestitino grazioso, ma perchè sei lasciata completamente sola di fronte al tuo essere madre; e sono d’accordo che la maternità esprima potenzialità; è anche un modo, almeno per me lo è stato, lo è ancora, ora che i miei figli hanno dieci e otto anni, è un modo trionfante di scoprire davvero fino in fondo la tua potenzialità come persona (persona, non donna solamente), è un percorso complicatissimo dentro e intorno a te stessa. Ma capisco anche che ad un certo punto ci possa sentire completamente annichilite di fronte al non riuscire più ad afferrare anche la te stessa che c’era prima, e quella che stai costruendo durante, e chi sarai dopo.
a me viene in mente un librino di Carlotto, “niente piu’ niente al mondo”, dalla tematica simile, solo che li si trattava di un milieu proletario…quello mi aveva lasciato dubbioso; non solo questa mamma protagonista mi sembrava una vittima troppo impotente e troppo acritica, ma anche, stringi stringi, sembrava che la causa di tutto finisse per essere la poverta’, la diseguaglianza di classe…
c’era un riduzionismo di classe che trovavo un po’ vecchio…non c’era per esempio nessuna riflessione sulla violenza di tutto quell’immaginario materno cosi’ pernicioso per le donne, e alla cui costruzione purtroppo ha partecipato anche un certo tipo di femminismo…
Questo libro non l’ho letto neanche io quindi anche il mio e’ un commento fanfarone, pero’ gia’ mettere in rilievo “quella zona d’ombra della maternità che viene giudiziosamente negata”, mi sembra una azione, direi, “politica” importante.
Paola Signorino – devo dirlo, il tuo commento mi è piaciuto moltissimo perchè ha detto delle cose che capisco come molto vere, tutte dalla prima all’ultima. Magari non mi ci ritrovo del tutto perchè sola o no, io già dal ginecologo quando una signora vicina mi informa sullo stato delle sue ovaie mi trasformo in un riccio velenoso. Semo così di famiglia ecco. Ora sono io quella che aspetta un pargolo (ecco l’ho detto non volevo ma me scappa – scusa Loredana!) ma ecco. Quando arrivò il bimbo di mia sorella io le regalai una scatola piena di trucchi, per ricordarle che c’era in lei una femmina viva da qualche parte, e non solo la pervasiva madre, e quando le mie amiche hanno partorito e ora che hanno i bebè piccini – io sono stata e sono per loro uno degli agganci col mondo. Il parlare del se continuo e anche certo dei pannolini. Ma siccome lo sanno che so allergica alla dissertazione da pannolino oltre la soglia del rincoglionimento esse si contengono. E ne abbiamo parlato apertamente e loro sono contente. Perchè i libri a loro piacciono ancora. Ecco, se tutto andrà bene, e dunque nascerà er mio di pupo, io cercherò questa continuità intorno a me colla vecchia me.
Però le cose che hai detto – lo so sono molto vere.
agghiacciante davvero agghiacciante
eppure così attuale
Si parla poco dell’ambivalenza materna e quando la si vive in prima persona ci si ritrova sole e sgomente a affrontarla. Un bambino è un ciclone nella vita di una donna e in quel delicatissimo momento si dovrebbe poter contare sulla propria madre, sulla suocera, su amiche a loro volta già madri… E’ un’esperienza entusiasmante e “modificante”, ma anche molto difficile la maternità. Se il rapporto con la propria madre
non ha consentito una identificazione chiara o è stato problematico, il bambino evoca ferite ancora aperte e i suoi problemi si intersecano con quelli della mamma bambina facendo venire fuori un bel pasticcio. Ricordo mia suocera: ostentò una sicurezza fasulla. Davanti al mio disorientamento, alla stanchezza mortale di quelle interminabili notti passate a passeggiare e cantare ninne nanne, sentenziò”Una madre sa sempre cosa fare” mentre io affondavo nella cacca. E non metaforicamente. Mia madre si dileguò e ricordo che passai momenti durissimi soprattutto perchè non mi fu possibile condividere quell’esperienza con altre donne disponbili all’ascolto, a un confronto sincero che mi permettesse di comunicare ciò che effettivamente provavo.
Quella madre perfetta, capace di rinunciare al sonno, mi fosse stato richiesto di rinunciare ai libri!, per quattro lunghi anni fu un fantasma inquietante con il quale mi misurai…
” E’ così labile l’intelettualità della donna?” si chiede zaub. Io ero rimbecillita e ancora oggi ho problemi di sonno “vigile”. Non dimentichiamo che una delle forme di tortura più feroci è impedire a una persona di dormire. Fiacca le tempre più salde, però ti permette di odiare il tuo aguzzino.
Mio figlio, oggi, stimato professionista in carriera, dorme quattro/cinque ore per notte. E’ nato così.
A proposito di rimbecillimento, mai superato del tutto, volevo augurare un
pupo “mangia e dormi” a zaub e un Natale sereno a tutti gli altri.
e allora, sia, nessun commento sul libro, ma sul rapporto maternità-intellettualità. Il mio punto di vista è quello di una ‘ragazza’ fortunata: marito-sorella-mamma-papà-suocera-suocero-zie acquisite a puntellar la mamma-mucca (che sarei poi stata io, nevvero…) e relativo discendente – e un mese dopo il lieto evento, eccomi attaccata al computer a tradurre (libera professionista precaria). E al secondo mese, a pensare: ma come fanno quelle donne che decidono di portare avanti una gravidanza e di avere prole da sole – con ‘da sole’ intendo proprio da sole: niente partner, niente parenti, niente rete sociale privata o pubblica… Come fanno? perché io non so come avrei potuto fare. Anche al di là dell’intellettualità, proprio solo in rapporto al mio esistere.
Con tutta questa bella rete sociale, il pargolo se n’è andato a spasso per il paesucolo langarolo e ha conosciuto tutti, molto più di quanto non abbia fatto la mamma in sei anni – e quindi le altre mamme le hanno incontrate il papà e i nonni masculi, adibiti alla passeggiata. Non ho esperienza quindi di chiaccherate monocorde sul tema: e come la fa la cacca?
e poi per fortuna a sei mesi il micronido comunale.
Dopo di che: non c’è niente da fare, una creatura totaldipendente da te, lattemunita o meno che tu sia, semplicemente perché è tua/tuo figlia/o, un po’ ti fa rimbecillire, almeno fino a quando non riesci a dormire di nuovo le tue ore di sonno – @zauberei: voglia il cielo che puppi e dorma, ma comunque pupperà almeno ogni tre ore anche di notte! hai voglia a recuperare di giorno! – ma questo non vale solo per le ‘intellettuali’, vale per tutt* (mio marito fa il contadino e era sclerato uguale).
Così, per tornare al tema: se ho capito bene, il dubbio a proposito del libro in questione è che velatamente riproponga l’adagio “ogni (buona) maternità si basa sulla rinuncia a se stessa”. Per come la vedo io, l’esperienza della maternità è certo un’ulteriore occasione di rimettersi in discussione, di essere ‘crisi’ positiva – come dice Signorino – ma con l’aggravante di portare con sé un tale carico di pre-giudizi ristagnanti nelll’immaginario collettivo – e quindi bene o male anche nell’immaginario personale – con cui ciascuna* deve misurarsi, quello sì, tendenzialmente in solitudine. ed è quello, forse, che alla lunga pesa.
* (e anche ciascuno: io ho scoperto per esempio che il papà temeva potessi instaurare un rapporto univoco con il figlio, tagliandolo fuori completamente – ma varda!)
ok, sproloquiato abbastanza – auguri!