Vecchi tempi. La vostra eccetera sfoglia i quotidiani (tema unico: la recessione) e pensa a quando l’antico era nuovo. E a quando il nuovo medesimo si affacciava prendendosi molte pause, e permetteva di rifletterci sopra. Come piccolo dono di Natale, dunque, un vecchio articolo (della serie: non si butta via niente). Data: 9 ottobre 1993. Tema: la voce. Sottotema: il telefonino. Vostro.
Al telefonino serve una metafisica. La sociologia ci ha già detto tutto quello che poteva, il galateo ne ha condannato l’ uso improprio a teatro e nei ristoranti, la cultura ne ha preso ufficiosamente le distanze come oggetto utile ma cafone. Una metafisica, invece, potrebbe rivelarci che attraverso il telefonino e, in assoluto, attraverso l’ uso della Voce mediata dalla tecnica, sta prendendo forma una trasformazione che non riguarda solo il costume. Corrado Bologna, il docente di Filologia romanza autore dell’ acutissimo saggio Flatus vocis, nei possessori di cellulari rinviene addirittura il soffio di Mercurio, dio dei crocicchi, dei ladri e dei comunicatori.
Guarda caso, sono proprio gli incroci delle strade i luoghi prescelti per intrecciare, senza fili, conversazioni lecite e illecite di affari e di amore. A Mercurio e ai suoi pari non serviva un corpo per manifestarsi: bastava la Voce. E tanto basta alle sue terrestri discendenze. Se già il telefono, come rievocava uno stupefatto Walter Benjamin, si “imponeva in quanto voce”, abolendo la presenza fisica dell’ interlocutore, il cellulare accelera il paradosso: non c’ è più bisogno di una parvenza di corporeità (rintracciare qualcuno in un luogo abitato dal suo corpo: la casa o l’ ufficio). La Voce stessa si fa corpo. Antichissimo processo, ben noto ai grandi mistici, agli sciamani, ai poeti medievali che attraverso la Voce venivano invasi dall’ amore o dalla divinità: e dimenticato in età moderna con la subordinazione della parola alla scrittura. In età post-moderna, e grazie alla forza moltiplicatrice della tecnologia, la Voce riacquista potenza. Anche se in modalità impensate, e trascurate perché ferocemente “popolari”.
Avviene, ad esempio, che migliaia di persone ricalchino senza saperlo le orme di Dante cercando l’ Amore nella Parola: magari amore con la minuscola, magari scegliendosi (tramite telefonata intercontinentale a luci rosse) una pornodiva anziché una Diva. Avviene anche che la parola torni ad essere rito collettivo: con il Karaoke di Fiorello anziché nelle cerimonie dei Dogon africani. Avviene che il rap si trovi inconsapevolmente a riprodurre la lingua perduta dell’ Eden, ricomponendo l’ antica frattura tra “voce di parola” e “voce di canto” di cui parlava Rousseau. Avviene, ancora, che il poeta scelga di affidarsi alla parola parlata dopo averla sperimentata nella scrittura: come ha fatto Oriana Fallaci registrando su audiocassette per la Rizzoli la trentasettesima edizione di Lettera a un bambino mai nato. Per restituire, ha dichiarato, “la parola scritta alla sua essenza originaria: la corporeità del suono che la partorisce”. Episodi frammentari: ma nient’ affatto casuali. “Nella nostra civiltà – dice Corrado Bologna – si sta aprendo uno spiraglio fra le grandi opposizioni di sacro e profano, interiore ed esteriore: e la Voce, che un tempo era esperienza sacrale e collettiva, conosce un’ utilizzazione laica e individuale. Nessuno si sognerebbe di trovare una valenza sacra nel rap. Eppure i rappers non differiscono in nulla dai cantori sacri, né i loro testi sono così lontani dall’ epica tuareg, che raccontava, ritmandola, la cronaca. Oggi come nel passato, la Voce fa tendere il quotidiano al simbolico. La stessa cosa avviene nel Karaoke, dove l’ imitazione diventa un rituale collettivo. Ma, insisto, laico: perché la Voce non è più il soffio di Dio descritto nella Bibbia, ma il soffio dell’ Interiorità. La cultura occidentale ci arriva oggi, molti secoli dopo le civiltà orientali prebuddiste, che sapevano ‘ dar voce agli organi interni’ attraverso la preghiera. E si trova di fronte ad una nuova armonia: non necessariamente deliziosa. La Voce del nostro tempo, quella che ci arriva dallo spiraglio, può essere, indistintamente, l’ urlo primordiale del tirannosauro di Jurassic Park o il sussurro degli angeli. O, ancora, il tic-tac del cuore materno”.
Mamma e tecnologia perché, riprodotta, digitalizzata, ricostruita, la Voce continua ad affondare la propria forza simbolica nel suono primario per eccellenza: il suono dell’ Altro, percepito nel ventre materno. “L’ onnipresente telefonino – prosegue Bologna – ricopre una funzione identica a quella della voce della madre che attenua al bambino l’ orrore del silenzio puro. E’ suono della pancia. Suono del corpo”. Anche in senso erotico, dunque. “Assolutamente sì la pubblicità Sip con la ragazzina di ‘ Quanto mi ami?’ , non fa che ripercorrere il mito delle sirene. La seduzione passa per la voce: si parla e si bacia con lo stesso organo, che ci è già servito a succhiare il latte del primo nutrimento. La diffusione dell’ eros telefonico è uno dei sintomi della ricorporalizzazione della Voce cui stiamo assistendo. E che è la conseguenza, in qualche modo, della forte insistenza sul corpo che si è verificata in questi ultimi anni. Per merito delle donne, soprattutto. Oltre al ruggito del tirannosauro, c’ è un’ altra cosa che mi ha colpito in Jurassic Park: quando il matematico e l’ archeologo dicono ‘ i dinosauri distruggeranno l’ uomo’ , la biologa che è con loro risponde: ‘ Sì, e le donne erediteranno la terra’ . Possibile”.
Maurizio Feraris ci ha pensato moooooolto dopo…