C’è un legame con quanto postato ieri? Forse. Nei fatti, Alfonso Berardinelli, sul Corriere della Sera, interviene in una lunga discussione sulla poesia mettendo una pietra tombale sulla narrativa. Così:
“Non credo che la poesia oggi in Italia sia meglio della narrativa. Si tratta di situazioni opposte. La narrativa è corrotta dal mercato, dal miraggio del best-seller, dagli editori, dai premi e dalla povertà culturale degli autori: ma chi scrive un romanzo sa di doversi confrontare con una realtà esterna alla scrittura. La poesia è corrotta invece da se stessa, dall’idea che ha di sé: fuga dalla comunicazione o libera espressione del già saputo. Chi scrive poesia crede di essere giustificato, qualunque cosa scriva, dal fatto che lo scrive al riparo di un’idea-valore, l’idea di poesia. Se ci si liberasse di questa idea consolatoria, si arriverebbe a guardare in faccia la realtà dei testi, e si potrebbe tranquillamente constatare che il 90% di ciò che si legge nelle collane di poesia e nelle antologie, è da dimenticare”.
Non un discorso nuovo, peraltro. E un discorso che si mantiene troppo sul generico per quanto riguarda la narrativa. Eppure, un problema di autocannibalizzazione editoriale esiste. Eccome.
Come spesso succede, la parte più interessante dei discorsi si trova non tanto negli enunciati principali, che qui rasentano la banalità (la narrativa è rovinata dal mercato, la poesia è un feticcio autoreferenziale), ma nelle pieghe, ossia in ciò che passa velocemente, essendo dato per scontato:
“chi scrive un romanzo sa di doversi confrontare con una realtà esterna alla scrittura”.
Ma è proprio questa la missione della narrativa? Siamo sicuri che non sia invece proprio qui il principio della sua decadenza? La corsa al realismo, al romanzo che “parla di” (problemi sociali, questioni di genere, complotti politici, criminalità ed ecomafie), fino a diventare quasi opera su commissione di gruppi di lettori costituiti in lobbies, che non sono i lettori più autentici ma sono gli unici con cui la pigrizia degli editors ritiene di dover negoziare.
La butto lì, come un ipse dixit, giusto per avviare una discussione: la narrativa non ha a che fare con la mimesi del reale (e quando si propone questo scopo produce cattiva arte, come già aveva intuito Platone, a ben leggerlo) ma con l’immaginario, cioè con la possibilità di sfondare e rilanciare l’idea di realtà trascendendo gli stereotipi del linguaggio corrente e del senso comune (che oggi è essenzialmente quello rimpallato dai mass media).
Ma, io per “confrontarsi con una realtà esterna alla scrittur”a pensavo si intendesse il lettore, e non l’oggetto della narrazione (siccome dice che i poeti non hanno la passione di essere letti).
Comunque per la narrativa che “parla di” a cui ti riferisci, Valter, anch’io ho la tua stessa impressione. Secondo me è il limite di tanti “oggetti narrativi ibridi”, che la parte narrativa è penalizzata.
Non ricordo più dove un Wu Ming diceva che l’unico baluardo contro le winx e compagnia è che le bambine e i bambini trovino noiose le loro storie, che infatti sono espedienti per mettere in mostra i personaggi-prodotto: dunque, abituare i bambini ad essere esigenti dal punto di vista narrativo, leggendo loro buone storie ecc.
Ovviamente non è per niente la stessa cosa, parlare di un problema magari drammatico o voler vendere le winx. Però quando la narrazione diventa pretesto, è raro che sia di qualità…
Purtroppo la letteratura, anzi la narrativa italiana degli ultimi anni è priva di qualsivoglia valore, poca o nulla sostanza; gli autori sono autoreferenziali, diaristic,i e nello stile, anzi nel non-stile minimalisti. L’ultimo Strega andato a Edoardo Nesi con “Storia della mia gente” null’altro è se non un diario narrato. Non val la pena neanche di perdere del tempo per esporre una critica severa o no sù questo lavoro. Non è comunque che le precedenti edizioni del premio abbiano consegnato a critici e lettori dei capolavori o anche solo dei lavori leggibili: perlopiù romanzetti; e Tiziano Scarpa con “Stabat Mater” finisce in tribunale per la seconda volta con l’accusa di plagio. Abbiamo poi Pennacchi, Ammaniti, Paolo Giordano, la Mazzantini. Lavori che lasciano il tempo che trovano e che a mio avviso non era il caso di premiarli con lo Strega. Gli editori riempiono gli scaffali delle librerie con improbabili storie su vampiri e altre creature simili: ci sono bancali stracolmi di simili fesserie, che qualcuno legge (più che altro adolescenti)! Gli stereotipi adoprati sono sempre gli stessi, ma il lettore comune par che non se accorga, perlomeno sin tanto che non raggiunge il limite di saturazione. Va da sé che di simili pubblicazioni non resterà traccia alcuna nel giro di un anno o anche meno. L’editore non punta alla qualità e alla sostanza, ma solo alla commerciabilità istantanea del prodotto; direi che questo è segno dei tempi, tempi bui, non c’è da farsi troppe illusioni. Ci si lamenta che gli italiani non leggono: vorrei ben vedere, con quello che gli viene proposto c’è da farsi il sangue amaro e non poco. Per com’è oggi il catalogo di molti editori meglio è non leggere. Si è sommersi da storie di vampiri, di zombie, di improbabilissime storie sulle BR oltreché sulla mafia, sul fondamentalismo, etc. etc. La criminalità viene trattata dagli autori con un piglio così tanto libero da inibizioni da risultare irreale e non poco fantasiosa. Instant book su BR e mafia è impossibile contarli. Unico lavoro veramente meritevole d’una attenta lettura è “Strage” di Loriano Macchiavelli. In questo caso, e in pochissimi altri, è possibile parlare di Letteratura. Il resto è paccottiglia studiata per essere un mero prodotto e non altro. Il libro deve essere non solo un prodotto, deve essere capace di resistere nel tempo e di vendere nel corso di più generazioni. Questo significa far Letteratura. Scrivere tanto per scrivere e immettere sul mercato instant book modaioli è darsi la zappa sui piedi; in un primo momento il lettore si lascia (purtroppo) catturare dal prodotto, dalla moda, ma c’è un limite a tutto. Il mercato è saturo di simili prodotti editoriali di nessun valore; e il lettore, anche quello più ostinato, ad un certo punto dice ‘basta, non ne posso più della solita solfa’.
In sostanza sì, sono d’accordo con Alfonso Berardinelli. Editori e autori sarebbe bene che ci pensino sù, con molta serietà.
Mah, con la poesia gli editori hanno gettato la spugna mentre con la narrativa rincorrono un ‘improbabile commercialità.
Direi che è un segno dei tempi. La mancanza di punti di riferimento culturali in una società in cui chi produce cultura (gli autori) si deve arrangiare da solo in qualche maniera. E siccome spesso gli autori non sanno autoselezionare da sè i loro testi, finisce che a loro volta contribuiscano anch’essi ad inflazionare il mercato di roba scadente.
Parlando da poeta, di tutte le poesie che vengono pubblicate in rete e su carta ne salvo sempre con mio grande dispiacere pochissime (ha ragione Berardinelli quando dice che molti pensano che la poesia sia “libera espressione del già saputo” oppure, aggiungo io, “ombelicata espressione del nulla”).
Io sono abbastanza disperata. Spero che ci salvi la Rete, l’unico media che riesce ad autoprodurre e diffondere abbastanza capillarmente cultura dal basso in modo a volte anche qualitativamente meritevole.
Non la rete fatta di siti frequentati da gente snob, piena di sè o vetusta, ovviamente, ma quella che produce originalità in grado di muovere azioni e coscienze e che mette l’arte davanti al copywright e all’egoismo personale.
Per parte mia, io è lì che ho scelto di produrre. (Loredana, il tuo è attualmente l’unico blog dove – ogni tanto e parsimoniosamente – mi concedo il lusso di commentare come poeta linkando il mio nome a poetry attack e, una volta tanto, non a vita da streghe 🙂 ).
Echeppalle, Alfo’!
Mi trovo abbastanza d’accordo con il lapidario commento di biondillo, a costo di un’accusa di goliardia. Però, c’è un fatto che mi pare incontrovertibile. Ossia che da tempo gli editori appiccicano l’etichetta di “romanzo” a qualunque tipo di pubblicazione mentre la narrativa pura sembra essere defunta. Nessuno si aspetta di andare in libreria e trovare un nuovo Cervantes, ma sarebbe auspicabile almeno ogni tanto leggere storie dove l’autore c’è per il suo stile, per la sua voce e per la sua fantasia, e non per l’autocelebrazione del proprio bulbo pilifero.
un notissimo intellettuale (che non ama essere citato, quindi evito di farlo), sostiene: “in italia siamo pieni di scrittori. ma mancano i narratori”. Lo Strega (nei limiti di quel che vale e di quello che rappresenta), ha proposto nella cinquina solo 2 romanzi puri (Desiati e Veladiano). Il resto è vita vissuta o esperienze dirette. Ho sempre avuto perplessità di fronte a questo “canone”. A meno che uno non sia Primo Levi. Ma, sinceramente, oggi non vedo chi potrebbe scrivere due sole righe della potenza di “Se questo è un uomo”. Vedo in realtà tanti convinti di saperlo fare, ma probabilmente anche Riccardo Scamarcio è convinto di essere Alec Guinness.
Questa cosa che in Italia tutti autori e pochi narratori la dico spesso anch’io, ma non è la causa del problema (= scarso valore di molta narrativa), semmai l’effetto.
Insisto: la causa è un’inversione perversa, per cui l’assenza del politico in quanto tale (descrizione, diagnosi e terapia del reale sociale) ha portato a una sorta di “supplenza” da parte della letteratura, a cui negli ultimi anni quasi nessuno (me compreso) è riuscito del tutto a sottrarsi. Ne è uscita in molti casi cattiva letteratura, cioè sociologia d’accatto, compresa molta di quella che i Wu Ming chiamano New Italian Epic. Se il “noir” politicamente contaminato (e corretto) ha dato qualche buona prova in passato, oggi è diventato un canone di una noia insopportabile, capace solo di confermare le deduzioni spicciole dell’italiano medio di sinistra di fronte alle pagine di cronaca.
Sono d’accordo con Binaghi quando dice “è uscita in molti casi cattiva letteratura, cioè sociologia d’accatto, compresa molta di quella che i Wu Ming chiamano New Italian Epic”: questa buffa cosa che sarebbe la NIE – che per nostra somma fortuna non ha avuto una presa rilevante o degna di nota – ha imbastardito la narrativa, di certo quella dei WM e di pochi altri che hanno dato credito la NIE. Per dirla in maniera un po’ brutale, la NIE è riuscita solamente a far inalberare qualche critico, ma in ogni caso di poco, difatti la NIE se la sono mangiata con quattro parole, non di più. Ha purtroppo rovinato altri autori vicini ai WM: ad esempio gli ultimi lavori di Evangelisti proprio non riesco a leggerli, e l’ultimo capitolo su Eymerich è rimasto intonso quasi: dopo venti pagine non ho retto più e l’ho abbandonato.
In ogni caso troppi autori, famosi e non, si credono Dio in persona e guai a far della critica costruttiva sui loro lavori: alcuni sono capaci di spararti addosso, a vista. E che dire di Antonio D’Orrico romanziere? Un libro impossibile, di certo tra i più brutti che abbia mai letto. C’è di che piangere sul serio.
Eccheppalle, i commentatori che dicono eccheppalle! :-/
Giorgia, lo ripeto. Che palle. E’ la solita replica estiva, ogni anno. Cambiamo film, ogni tanto.
Mi sembra la triste polemica solariana fra contenutisti e calligrafi. Esistono polemiche fondamentali, diceva Gadda, e polemiche eleganti. Quella su Solaria era, per l’ingegnere, elegantissima.
D’altronde è vero: il 90% di quello che si scrive fa schifo. E dov’è la novità, scusate?
(la conoscete, no, la solita citazione di Theodore Sturgeon che si fa in questi casi…)
E’ che tutti ci si crede parte facente del 10%. Critici compresi. Critici innanzitutto, anzi.
se per affermare qualcosa di sensato siamo qui a citare gadda e non pennacchi un motivo ci sarà
Concordo con Gianni. Il senso del post non è togliersi i sassolini dalle scarpe su quali sono gli scrittori che non ci piacciono: non qui, grazie. Esistono milioni di blog dove ci si può dedicare con profitto a questo sport, di cui ne ho piene le solite tasche.
Il senso va, semmai, nella direzione anticipata ieri. Esiste un problema, nel mondo editoriale italiano. E non piccolo. Parliamo di scelte, parliamo di tendenze, parliamo di coazione a ripetere, secondo me.
I gusti dei singoli, qui, mi interessano molto poco.
“solo 2 romanzi puri (Desiati e Veladiano)” candidati allo Strega…
che poi Ternitti di Desiati è sì un romanzo puro, tecnicamente, e anche ricercato nella scrittura, ma secondo me si può mettere tra i libri che “parlano di”: la questione dell’Eternit/emigrazione è talmente predominante sulle altre componenti narrative (personaggi, intreccio…)!
scusa Loredana, ho parlato di un romanzo singolo (non avevo letto il tuo intervento) ma non per dare un giudizio di valore, ma per esemplificare una tendenza, visto anche che è stato tra i candidati al premio Strega, un premio che dice qualcosa su dove tira il vento del mercato editoriale italiano.
Non so sulla letteratura ma me quello che dice Alfo’ sulla poesia piace nella sua semplicità disarmante e non trovo affatto scontato il fatto di leggerlo su quotidiani generalisti come Il Corriere delle Sera, che non è Nazione Indiana.
Poi boh io che io mi consideri facente parte di quel 90% mediocre piuttosto che di quel 10% figo è un giudizio sulla persona che non modifica il senso del mio discorso per cui non vedo l’importanza di sottolinearlo. Pensa che per come la vedo io la Rete è piena di poesie schifose ma anche di centinaia di fantastici poeti che non sanno manco di esserlo perché non hanno mai scritto un verso eppure i loro post sono intrisi di poesia, pensa…
Per me, quindi, massimo rispetto per chi dice che la poesia pubblicata di oggi è noiosa e prova in parole semplici semplici a spiegare perché. Poi che a te stia sulla balle e stufi è legittimo, come è legittimo che a me stia sulle balle che tu lo dica senza spiegarmi il motivo andando, sì, ad ammucchiarti in quel buon 90% di inutilità della Rete.
Cmq massimo rispetto anche per il lavoro di gianni biondillo, of course.
lippa, concordo sull’inutilità di parlare dei gusti personali. per fare questo ci sono altri consessi. “Esiste un problema, nel mondo editoriale italiano. E non piccolo. Parliamo di scelte, parliamo di tendenze, parliamo di coazione a ripetere, secondo me”, dici. E sono d’accordo. Ma anche il fascismo fu un “problema”, e parlarne senza premettere ciò che fu la prima guerra mondiale o la politica di Giolitti, è parziale. Allora se, come tu dici, c’è un grosso problema, è lecito o no domandarsi come questo problema si è determinato? Fermo restando che non sarà qui che verrà trovata la soluzione, temo. Ma noto, per esempio, una diffusa corrente di pensiero tra gli editori secondo la quale, grosso modo, loro sono pressoché infallibili e sono i lettori a essere impreparati alle lungimiranti proposte che arrivano dalle case editrici. Ho anche sentito dire “ma figurarsi! se oggi dovessimo pubblicare un novello Joyce la gente non lo vorrebbe”.
Be’, io non ho nulla in contrario alla pubblicazione di libri di antonella clerici che insegnino a cucinare lo stracotto ai funghi porcini. Ma qui mi pare si parli di narrativa. E, allora, chi lo ha detto che i lettori non apprezzerebbero letteratura con la L maiuscola? Il tutto, ovviamente, senza mandare al macero Federico Moccia e Fabio Volo. Il problema è che sulla narrativa classica e di qualità non si investe, non si fa scouting. perché ciò viene ritenuto inutile e controproducente a petto dei gusti popolari dell’utente. Liberi di crederlo, gli editori. Poi un giorno mi spiegheranno come mai Superquark di Piero Angela fa il record di ascolti a prescidere dai programmi trasmessi in contemporanea. Siano essi con i comici pseudo satirici o con il plastico di Cogne o con le chiappe abbronzate su un’isola di famosi.
Ovviamente, mi riferivo ad altri interventi, non a Francesca o Enrico 🙂
E non penso nemmeno alla letteratura altissima scritta per persone in numero di cinque. Penso alla cannibalizzazione. Un esordiente sfonda? Che ci si diano novanta esordienti, possibilmente che vengano bene in foto. Un libro sugli angeli piace? Forza con altri cinquanta.
La decrescita di cui parla Cassini e prima di lui Marcos y Marcos, non va intesa come un chiudere le porte al rischio e pubblicare solo nomi collaudati oppure certificati da tre critici. Significa fine del corteggiamento della rete di promotori e venditori. Significa scelta in base a quel di cui ci si convince, e non alla notizia riciclata dell’ultima asta fighissima a Francoforte.
Per esempio.
Ho letto l’intero intervento di Berardinelli e la mia reazione è stata simile a quella di Biondillo.
Apprezzo la volontà di confronto o almeno l’intenzione di parlare della situazione del mercato editoriale italiano, ma alcune affermazioni proprio non mi convincono.
Legare la poesia alle arti visive contemporanee e etichettare entrambe come “noia e incomprensibilità” mi sembra un tantino qualunquista, in primo luogo si sottovaluta la capacità di comprensione del pubblico, che vabbeh non sarà una platea di premi nobel ma neppure un branco di macachi impazziti…
se larga parte del pubblico poi non ha gli strumenti per comprendere è perché chi dovrebbe fornirli (I critici ad esempio) preferisce lanciare anatemi invece di spiegare criteri, metodi e interpretazioni.
Ad esempio in questo intervento, se anche non si voleva fare dei nomi perché non parlare del criterio (soggettivo e personale per carità ma almeno condiviso) con cui si distingue ciò che è buona poesia da ciò che è poesia corrotta, datemi gli elementi per giudicare, alleggerite quel senso di incomprensibilità, aprite un ponte tra me e l’arte, poi potrò essere d’accordo o meno con voi critici, ma intento eviterò di passare avanti e dire eccheppalle!!!!
Mah! Biondillo spara senza spiegare. E questo mi disturba come vedo ha disturbato altri. Che palle!!!
@Laura: difatti il tuo commento mi convince ancora di più che secondo me per valutare se una poesia è noiosa oppure no non occorre che ce lo venga a dire un critico. La poesia è comunicazione emotiva che non sempre necessita di chissà che intelletto. Non è che è avulsa dalla razionalità, è solo che predilige il linguaggio all’anima. La poesia (a parte la prosa poetica, la prosa in verticale o i manifesti poetici che stanno mirabilmente in bilico) è più simile al concetto di arte che a quello di letteratura: si avvale della parola come di un pennello. E ognuno di fronte all’arte reagisce un po’ a modo suo. Per me, leggere una poesia noiosa è come osservare un quadro senz’anima. Ovviamente questa è una spiegazione poetica, non critica :), però, sai, forse è così che dovremmo imparare a giudicare l’arte: con gli occhi dell’arte, che non sempre sono più acuti in chi è esperto.
Io non ho fatto nomi e ho parlato di
“un’inversione perversa, per cui l’assenza del politico in quanto tale (descrizione, diagnosi e terapia del reale sociale) ha portato a una sorta di “supplenza” da parte della letteratura”
fornendo sociologia in sedicesimo anzichè narrativa.
E nessuno mi ha risposto.
esordienti, angeli, vampiri, anoressiche problematiche, stuprate da piccole, rinchiusi nei cessi, solitudine dei numeri primi, malinconia dei verbi difettivi… marmellata, insomma. Lippa ha dato un nome e un cognome ad alcuni fenomeni fuorvianti. I cicli, il riciclare, lo scopiazzare e, inevitabilmente, l’omologare. E alla fine ciò che distingue un autore da un altro sono gli occhiali rotondi o il tatuaggio del nano pisolo.
Volendo estremizzare, era già stato scritto tutto nell’Iliade: amore, guerra, amicizia, tradimenti, magia, sesso, storia, religione, malattie, sciagure. Gli accadimenti umani, compresi quelli emotivi, sono già tutti lì. E non c’erano editori né editor né uffici stampa a promuovere libri come fossero deodoranti per ambienti.
Ma, allora, i russi, shakespeare, joyce, proust, kafka, camus et similia avrebbero dovuto rinunciare a scrivere per mancanza di argomenti? per fortuna non hanno rinunciato. e sono riusciti “semplicemente” a raccontare di cose già esistite come se fosse la prima volta che venissero scritte. ciò perché ci hanno messo del loro quanto a riflessioni, istinto, voce, stile, coscienza e angolo di visuale.
Dostoevskij affermò che nessun russo di quella generazione sarebbe esistito senza Il Cappotto di Gogol. Hemyngway affermò che la letteratura americana era inesistente prima di Huckleberry Finn di Mark Twain. Vero o no (ma fidiamoci), non mi risulta che, poi, Dostoevskij e Hemyngway abbiano scritto minchiate.
Entrambi sono partiti da un qualcosa di esistente, per andare avanti o altrove.
La mia impressione è che oggi troppi autori si accingano a scrivere con una voce nella testa che gli suggerisce “ecco, stai per consegnare alle patrie lettere qualcosa che prima di te non è mai stato scritto. né per argomento né per qualità”. In questo, spesso, sono spalleggiati e caricati a pallettoni da editori che (a volte penso) credono che dickens sia una marca di cellulare.
Quando ci si accinge a scrivere con questo presupposto, secondo me la cazzata è garantita. O comunque viene fuori un prodotto imbastardito dall’omologazione.
Non me ne vogliano Bertante o i suoi ammiratori, ma se “Nina dei lupi” non è “La strada” è anche perché lui si è sentito in obbligo di stupire con effetti speciali. A Cormac McCarthy è bastato uno sgangherato carrello del supermercato spinto da un uomo e da suo figlio.
Però. Se la narrativa bestsellerizza imbarbarendo e nel contempo la poesia arrocca autoreferendosi – possiamo ascrivere entrambi questi problemi (che hanno dinamiche antitetiche) al medesimo livello, ossia quello “editoriale”?
Conosco troppo poco il mondo della poesia per tracciarne mappe, ma non so se anche in questo territorio c’è l’autocannibalizzazione… Ovviamente, il trombonismo di Berardinelli resta, e dispiace.
(Enrico, e McCarthy ha copiato il carrello da Kazuo Koike e Goseki Kojima – e il manga di Lone Wolf & Cub. I bravi copiano dai bravi… dopo averli metabolizzati!)
ok.e adesso andiamo tutti a riunirci in piazza del popolo per raccogliere fondi contro l’estinzione dello scoiattolo vermiglio della marsica
Io sono un poeta, non leggetemi
Sono un poeta, vi prego vi supplico
Non leggetemi sono un poeta
Gnam gnam gnam
Seriamente, quelli del reparto cultura al corriere dovrebbe vagliare meglio gli interventi. Questo verso troppo lungo, quest’altro non vuol dire nulla ecc. come si faceva una volta. Sempre una volta. Lo si è fatto una volta, e poi basta.
Ma qualcuno con più esperienza si ricorda se è mai stato scritto “bravi, stiamo andando alla grande, che testi, che romanzi!”?
Io scrivo canzoni, suono in un gruppo, quello che vorrei è: vivere facendo questo, il che comporta o vendere un sacco di dischi o suonare spesso dal vivo in posti in cui ti pagano bene, il che comporta avere un pubblico. Tutto questo è comprensibile da una parte ma osceno da un’altra. Cioè io non ho voglia di farmi il culo come gli altri e spero di diventare abbastanza famoso da farmi mantenere dalla gente. Ma non solo, sono anche felice di essermi prodotto un disco, di scrivere le canzoni per il prossimo, di pensare che magari mi troverò un lavoretto e così potrò continuare a registrare dischi sperando ugualmente di piacere a più gente possibile. Sono un po’ stronzo un po’ no.
Dello stato qualitativo della narrativa attuale ha veramente senso nullo parlare, cioè se sia buono, poco buono, meglio di prima, peggio di prima ecc. sono discorsi inutili, diventano belli solo se li fa qualcuno di preparato e colto, e ti racconta qualcosa. Per esempio il discorso di Binaghi potrebbe essere approfondito, togliendogli di dosso la decadenza però.
Gli editori vogliono vendere il più possibile. se il libro di “A” vende solo un tot, gli affianco il libro di “B”, che venderà un altro tot. Al fine di guadagnare di più invece di vendere il più possibile i libri di “A” e di “B”, si è ritenuto più conveniente accogliere i vari “C”, “D”, e cosi via. Nel mondo ideale di qualcuno in libreria avremmo una decina di poeti e una cinquantina di romanzieri, il resto sulla rete, sott’acqua, dove gli pare. Invece di ricevere le telefonate delle compagnie telefoniche avremmo quelle degli editori: “avete letto i libri di “A” e di “B”? non ancora? Cosa aspettate?”
@giorgia sono d’accordo con ciò che dici, per questo scrivevo che penso sia giusto che il critico metta il pubblico a conoscenza dei criteri con cui lui giudica la poesia, ma poi ognuno di noi è libero di approcciarsi all’arte con tutta la sua personale esperienza, magari una poesia non perfetta dal punto di vista stilistico è in grado di emozionarmi di più di una che non lo è, quello che è importante secondo me è che il critico cerchi di farmi avvicinare all’opera, non che mi faccia venir voglia di dire “eccheppalle”, altrimenti il rischio è sempre quello di rimanere chiusi nei circolini dell’intellighenzia e allontanare i lettori. se la missione è allontanare noia, incomprensibilità e anche la pigrizia, anche i critici devono farsi il loro esame di coscienza e fare la loro parte con onestà, sensibilità e serietà!
Ps ne approfitto per farti i complimenti per le tue poesie!!
@paperinomane: io sono un poeta già morto. non leggetemi, perché le mie poesie sono fatte per essere lette quando non ci sarò più :D!
@laura: si anch’io vorrei sapere questi criteri. li aspetto al varco. ma forse non era questo l’obiettivo dell’articolo. cmq visto che mi hai stimolato, adesso finalmente posso dirlo anch’io: che palle i circolini! che palle le antologie! che palle i concorsi! tutta roba che mi ha fatto sempre scappare. ma oddio ma una volta con la letteratura, soprattutto con la poesia, si facevano le rivoluzioni, oggi al massimo ci si distrae sul letto!!! non sarà che se la poesia è noiosa è anche un po’ per colpa loro più che dei poeti?
Eccheppalle! =P
Ho il vago sospeto che Beradinelli a volte faccia ululati alla luna come i coyotes in Tex Willer. Almeno per quel che mi riguarda leggo raramente i contemporanei, e del resto come si fa a prenderli in mano prima di avere letto tutta la letteratura o la poesia del passato che ha lasciato memoria e tracce durature? Ma mi rendo conto che con questo modo di pensare generalizzato molti dovrebbero rimanere disoccupati…
E’ una vera fortuna che nel corso dei secoli vi sia sempre stata abbastanza gente stupida, superficiale o modaiola disposta a leggere la narrativa o la poesia (o la musica o il cinema o la pittura etc) del proprio tempo invece di concentrarsi sulla grande grande arte del passato: avremmo finito per averne molto poca, di grande arte del passato…
Non so se mi sono espresso male, ma dicendo che leggo raramente non vuol dire che non leggo, ma che non vado a caso o a moda o a pubblcità ma che scelgo dopo attenta riflessione. Tanto per fare un esempio, al tempo si preferiva Teleman a Bach…ecco, per quel che mi riguarda preferirei evitare questi abbagli (che ci riesca o meno è un’altro paio di maniche).
Un sacco di altri autori, anche nel passato più remoto, hanno “fatto sociologia”. Il che di solito dava un contenuto in più alla loro letteratura (o l’arte deve parlare sempre solo del suo mondo, in altre parole peccare di autoriflessività). Il romanzo e la narrativa spesso raccontano l’oggi. In passaato, se ancora ce ne ricordiamo, l’hanno fatto bene, argutamente, rappresentativamente e non senza una certa espressività (non erano un saggio, ma di sicuro, togliendogli tutti i riferimenti ad un certo contesto o al confronto con il loro tempo poco ne sarebbe restato: non esiste solo una bellezza della forma, ma anche una dei rapporti, dei contenuti, della “struttura”, del cosa si dice oltre del come lo si dice. Basta coll’estetismo). Come mai, vi chiede il lettore svogliato e poco aggiornato di cui sopra, quella degli ultimi venti (ormai trenta) anni sarebbe d’accatto e quella di un Dickens, di un Calvino o di una Austen sarebbe invece degna di un capolavoro? Per sfuggire agli “ululati alla luna” provate a fare un’analisi, anche prolissa se volete: cosa manca a queste opere? In cosa sono state mutilate da questi tempi di speculazioni pubblicitarie? E, per dio, c’è un’essere su questa terra che mi dia una definizione, un manifesto della New Italian Epic? (o come io credo è solo un’autodefinizione di stile, come quella di certi metallari settari che si definiscono “nu bombastic grind post-metal” dov’è chiaro che spesso le uniche cose che si capiscono sono che è “metal” e che il movimento in questione è così particolare che l’artista in questione è il fondatore, il sostenitore e spesso anche l’ultimo epigono del medesimo?)
@Binaghi Quale sarebbe la distinzione fra reale ed immaginario? Il reale non sono le cose, i “facts” degli inglesi, gli avvenimenti, ma è la cultura dell’oggi, il modo di vivere e pensare, che produce invenzioni, eventi, tipi umani e soprattutto li connota, tanto da produrre un paesaggio mentale applicabile, dopo la sua invenzione, ad epoche e momenti successivi (di qui l’universalità, che riscatta dalla contingenza della “sociologia” anche quando essa è massicciamente presente, che si garantisce i lettori del domani). In altre parole il reale è l’immaginario del mondo che ti sta intorno. Quale altro reale esiste? Persino i nostri sensi sono un’interfaccia interpretativa e il nostro cervello lo è alla seconda…gli oggetti? Checcenefrega degli oggetti? Anche la scienza ha rinunciato all’oggettività, accontentandosi di una pragmatica predittività.
@Marco B.
A rispondere a questa domanda (la distinzione fra reale e immaginario) dovremmo filosofare per giorni. Facciamola più semplice: chiamo “reale” il riflesso ideologico di senso comune, rimpallato dai media, su quello che si dice realtà. Non è un problema di argomenti ma di percezione diffusa, di linguaggio corrente, di antropologia implicita e stereotipata, presa com’è e riproposta tale e quale con il carico del crimine e/o del sesso per attizzare sensi estenuati e la condanna politicamente corretta per rassicurare il perbenismo progressista del lettore medio. Un esempio? Prova a pensare alla differtenza tra l’idea stessa di una collana come “Verdenero” (senza dire con questo che è composta solo di brutti libri) e un romanzo come “Marcovaldo” di Calvino. Si potrebbe dire che entrambi trattano temi ecologici, ma veramente è impossibile non notare come lo straniamento poetico, la rivelazione dell’umana, stiano tutti dalla parte del secondo.
Infatti secondo me il punto non è l’oggetto della narrazione, ma la capacità del singolo autore: se l’autore non è all’altezza tecnicamentte, e , direi, poeticamente, cioè in estrema sintesi è scarso come scrittore, può parlare di quello che vuole ma produrrà un romanzo mediocre, sia che sia ambientato nel mondo contemporaneo e affronti anche temi di attualità spinta, sia che tratti di fatine o di vampiri. L’impressione anche mia è che molti editori applichino lo stesso criterio dei libri sui vampiri anche alle tematiche “di attualità”, non importa se il libro è bello o brutto, bastsa che “parli di” che in questo periodo si vende.
@binaghi Quel reale lì è già immaginario: condiviso, spesso scontato, ma entra anche negli scrittori come idee del tempo presente. In passato molti libri si sono nutriti anche solo di questo e oggi sono molto rappresentativi dell’epoca. Perchè la ricerca dell’originalità a tutti i costi? Si può anche trattare bene di argomenti noti e con un approccio noto. Non si può essere tutti iniziatori e innovatori. Capisco cosa vuoi dire con verdenero. E’ tutto così costruito a tavolino, sembra con un bel calderone di ingredienti un po’ buttati là, senza temi che permeino i romanzi ma apparentemente con un po’ di questo, un po’ di quello, spesso banalizzando. Ecco, non è la scrittura o i temi che mancano ma piuttosto la capacità di credere, di trasportare in un mondo in modo convinto, non creando situazioni di cartapesta
E poi ho notato una cosa dalle descrizioni: sembra assurdo, pensavo non fosse possibile ma i libri di verdenero non accennano a temi ampli e a problemi dell’oggi concepiti come istanze nuove di esigenze di sempre. Sembra siano cose del qui ed ora, senza il respiro dell’eternità e dell’uomo, come se fossero accidentali. Sono nonsense, nel senso che sono fotografie mute, mere prese d’atto che non inseriscono le cose in grandi circuiti di collegamenti extra ed intertestuali (e forse neanche intratematici/intratestuali). E così anche la coerenza, la struttura, la visione d’insieme e la perpetua novità di testi anche non bellissimi ma universali ca a farsi benedire. Mi piacerebbe sapere perchè tutto questo realismo, poi, in epoca postmodernista: le persone sono anche reazioni, idee, non solo facce e pezzi di società, no? E poi questi scrittori ci diranno qualcosa di profondo e sentito?Vogliono essere scrittori-reporter, ma che ricerche ed esperienze hanno fatto sull’argomento?
Forse ho capito cos’è. Per questi scrittori, la storia di ieri non esiste. Tipico di un mondo istantaneo, come le zuppe liofilizzate. Ovvio che non c’è un accenno ai collegamenti tra l’oggi e il sempre.