Pensavo, stamattina, a un film bellissimo di Yorgos Lanthimos, L’uccisione di un cervo sacro, che è un film sul Fato, e che riprende idealmente la vicenda del sacrificio di Ifigenia, figlia primogenita di Agamennone e Clitennestra, vergine sacrificata a una dea offesa, Artemide, perché Agamennone, trafiggendo una cerva con una freccia, si era vantato di essere più abile di lei. Lanthimos racconta di un chirurgo che ha commesso un errore durante un’operazione, causando la morte del paziente, e che viene lentamente irretito e infine maledetto dal figlio dell’uomo, un adolescente in grado di far ammalare i figli e la moglie del chirurgo, che saranno condotti a morte se non ne ucciderà uno di sua mano, in modo da pareggiare il conto.
Pensavo a un film, a un’opera d’arte, perché è alle opere d’arte che ci si rivolge, a tentoni, quando non si trovano parole, o quando si avverte che le parole sono usurate, e ci si arresta, con rabbia, con frustrazione. Pensavo alla morte delle due bambine di Latina, e a tutto quanto già sapete, a tutto quanto è già avvenuto, e avviene e avviene: la persecuzione, le denunce, la solitudine, il quadro che sappiamo finché non si arriva al femminicidio e all’uccisione delle figlie, e di se stesso, perché quando la certezza del possesso, così antica, così difficile da sgretolare, viene meno, non si vede un’altra possibilità. Pensavo a quanto ci si è sgolate negli anni sull’importanza dell’educazione sentimentale, sull’urgenza di riflettere e far riflettere sul disastro emotivo che ci attraversa (e qualcuna ha risposto con gli ergastoli, che nulla risolvono). Pensavo alle vispe signore intervistate dai giornali che si permettono di dire dove sono le donne perché non scendono in piazza, senza essersi rese conto che le donne ci sono, scendono in piazza e lavorano nei centri antiviolenza, nella disattenzione generale, salvo quando la cronaca ci riporta a farci spettatori costernati e commentatori inviperiti.
Forse è più comodo pensare al Fato, ma certo, in forma di dea gelosa. Forse è più comodo, e raccapricciante, pensarci. Eppure, da ieri, non riesco a non farmele tornare in mente, le strazianti parole che Euripide attribuisce a Ifigenia. Cos’altro dire, cos’altro scrivere, ancora?
IFIGENIA
Se di Orfeo io avessi la voce, padre,
e persuader potessi col mio canto
anche le pietre a venirmi dietro,
quella strada di certo seguirei.
Solo un’arte m’è dato possedere:
il pianto, e ti abbraccio le ginocchia
piangendo, perché tu non dia la morte
al corpo che tu stesso hai generato.
Troppo giovane sono perché il sole
per me la luce spenga, e mi costringa
a scendere nel regno della notte.
Ricordo quando in braccio mi tenevi
e le carezze che mi prodigavi,
dicendo:”Ti vedrò viver felice
nella casa che sarà del tuo sposo.”
Io,abbracciata al tuo collo, rispondevo:
“Da vecchio tu verrai nella mia casa
com’ospite gradito, e resterai
insieme a me il tempo che vorrai.”
Non mi uccidere, ti supplico in nome
di Pelope e del tuo padre Atreo
ed anche di lei, mia madre che soffrì
nel partorirmi, e deve ancor soffrire
per la mia morte.
Proprio Ifigenia e sua sorella non sono state difese da coloro che hanno lasciato una pistola nelle mani del padre. Uccidere le proprie figlie senza sporcarsi le mani e più facile che eliminarle facendole a pezzi con le proprie mani.
Mi vergogno di una forma di moralismo che non salva e non aiuta, ma questo è quello che penso.