DIRITTO, ROVESCIO, ABORTO: CONDIVIDERE LA MEMORIA

Uso per un po’ questo blog come memorandum, perché la discussione che si sta sviluppando in questi giorni sull’aborto e su cosa, a proposito di interruzione di gravidanza, pensi la ministra per la famiglia e natalità e pari opportunità non è una scaramuccia, non è un attacco, non è una schermaglia. Riguarda, invece, la conservazione della memoria comune (insieme, ovviamente, a quella che è e resta la tutela di un diritto).
Ieri Giulia Siviero sul Post ha scritto un articolo impeccabile. Dove confuta, fra l’altro, la citazione di Carla Lonzi fatta da Eugenia Roccella nella risposta al mio articolo su La Stampa:

“Roccella cita Carla Lonzi, una delle iniziatrici del femminismo italiano che ebbe, rispetto ai femminismi che si affermavano nel mondo nella seconda metà degli anni Sessanta, una sua originalità e una sua autonomia: il pensiero della differenza sessuale. Le femministe della differenza, così come Lonzi, sostenevano che l’aborto non fosse un diritto, ma in una direzione diametralmente opposta a quella della nuova ministra e non certo per difendere posizioni antiabortiste.

Lonzi e il femminismo della differenza avevano affrontato in maniera originale e complesso il tema dell’aborto rifiutando la rivendicazione politica di legalizzazione che allora stavano portando avanti radicali, socialisti e un’altra parte del movimento femminista.

Perché le donne abortiscono, si chiedeva Lonzi? «Perché restano incinte». Ma perché restano incinte? Perché non si sono «espresse sessualmente» e perché si sono conformate «all’atto e al modello sessuale sicuramente prediletti dal maschio patriarcale» anche se questo poteva significare per loro «restare incinte e quindi dover ricorrere a una interruzione della gravidanza».

Per Lonzi le donne sono costrette all’aborto perché è stato loro imposto un modello di sessualità centrato sul piacere vaginale e basato unicamente sul piacere maschile. Un piacere che conduce alla procreazione: «Il concepimento è frutto di una violenza della cultura sessuale maschile sulla donna, che viene poi responsabilizzata di una situazione che invece ha subìto. Negandole la libertà di aborto l’uomo trasforma il suo sopruso in una colpa della donna. Concedendole tale libertà l’uomo la solleva della propria condanna attirandola in una nuova solidarietà».

In questo sistema sia il concepimento che l’aborto, negato o concesso, appaiono gestiti dall’uomo. Diceva Lonzi: «Sotto questa luce la legalizzazione dell’aborto chiesta al maschio ha un aspetto sinistro poiché la legalizzazione dell’aborto e anche l’aborto libero serviranno a codificare le voluttà della passività come espressione del sesso femminile». L’aborto, insomma, non è la soluzione per una donna libera, ma «per la donna colonizzata dal sistema patriarcale». La via d’uscita, per Lonzi, partiva dalla sfera della sessualità, da un ripensamento e da una ri-contrattazione del rapporto sessuale in cui piacere e procreazione non fossero più identificati.

Dire che l’aborto non era un diritto significava dunque dire che era molto più che un diritto”.

Su Facebook, Lea Melandri scrive:

“-è vero che negli anni 70 una parte del femminismo milanese – la Libreria delle donne, il pensiero della differenza, da cui il libro “Non credevi avere dei diritti ” (1987)- era a sostegno della depenalizzazione e non per l’approvazione di una legge. È l’esistenza di una legge che permette di parlare dell’aborto come diritto, e non solo come libertà di decidere.

-Non è vera, perciò, l’ affermazione fatta da Roccella che “il femminismo” non considera l’aborto un diritto, dal momento che è stata la posizione solo di una sua componente.

– Pur non d’accordo per l’approvazione di una legge, la Libreria delle donne ha comunque sostenuto che l’aborto non doveva più essere un crimine. Diversa è oggi la posizione di Roccella, che non si limita a dire che l’aborto non è un diritto, ma non ⁰ vorrebbe più neppure la libertà di abortire.

-Roccella, come ha scritto giustamente Loredana Lipperini, può benissimo aver cambiato idea nel corso del tempo. Ma non può dirsi oggi femminista, quando nessuna componente del femminismo oggi è contro la legge 194 che garantisce l’aborto”.
Aggiunge una bravissima studiosa che sui social si firma Bleue Blissett:
“Nei femminismi degli anni Settanta sono presenti molteplici riflessioni sull’aborto. Se è vero che il femminismo della differenza (e in particolare il collettivo di Via Cherubini, Milano) elabora una riflessione in cui l’aborto è “più” che un diritto, è anche vero che il lemma “diritto” ricorre in numerosi documenti di molti altri gruppi e collettivi che NON hanno le posizioni del collettivo di Via Cherubini e che sono parte importante e viva dei femminismi degli anni Settanta. Resta chiaro che, seppure con pratiche e teorizzazioni diverse, le associazioni e i gruppi femminili e femministi di quegli anni si batterono con forza per mutare la situazione sociale, culturale e politica causata dall’interdizione dell’aborto. Su questa scorta, la malafede intellettuale di Roccella è evidente e la strategia è chiara: manipolare la discussione sullo statuto di diritto dell’aborto per indebolire la depenalizzazione – facendo credere che per i femminismi italiani essa non fosse una questione cruciale e che, in fondo, ne possiamo fare a meno. Ed è proprio il ricorso a questa strategia, che mira a inquinare il dibattito con informazioni e dati manipolati e che è tipica dei movimenti no-choice, a confermare e giustificare una volta di più le preoccupazioni per la legge 194.”
Infine oggi Emma Bonino scrive:
“Ho incontrato Eugenia Roccella pochissime volte, quando entrambe frequentavamo il Partito Radicale, negli anni Settanta: io ero molto attiva nelle battaglie per l’aborto; lei faceva già parte del Movimento di Liberazione della donna. Ed era, come tutte le attiviste di quel gruppo in quegli anni, molto preparata e accurata. Roccella ha scritto ieri sulla Stampa che, all’epoca, nelle riunioni del partito sull’aborto, le femministe contestavano ai radicali di voler tradire il loro slogan, «nessuna legge sul nostro corpo». I miei ricordi sono diversi. Penso a Mauro Mellini, che anziché dire per intero «aborto libero e gratuito», lo slogan di radicali e femministe, si fermava a «libero», ma non ho in mente altre divergenze o contestazioni. Certo, nel movimento femminista ci sono sempre state anime diverse, pensieri diversi, ma quando l’obiettivo era chiedere che venisse legalizzata l’interruzione volontaria di gravidanza per liberarci dalla piaga dell’aborto clandestino, ci fu unità anche con chi pensava che abortire fosse il modo più invasivo per garantire alle donne il diritto di scegliere come e se diventare madri”.
Ricostruire memoria è il primo passo. Credo che questo lavoro, peraltro mai cessato, diventerà più fitto nel tempo che abbiamo davanti.

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