FAVOLACCE, IL PIFFERAIO DI HAMELIN E BAMBINI CHE FANNO PAURA. TRE

Aspettando la morte che lo avrebbe raggiunto a dieci anni, il piccolo Delfino Louis figlio di Luigi XVI, scriveva sotto dettatura frasette morali e involontariamente (quanto perfidamente) beffarde: “Generosità poco comune, il buon impiego del tempo è una delle cose che contribuiscono maggiormente alla felicità della vita”.
A tredici anni invece, la piccola Ippolita Sforza sorella di Ludovico il Moro, copia con impeccabile calligrafia il De senectute di Cicerone. E Marie Bonaparte consegna ai posteri il Cahier de betises, dove fra i sette e i dieci anni disegna e fa i suoi esercizi di tedesco. Restano, ancora, gli alfabeti tracciati sui muri dai bambini di Pompei, le filastrocche, le poesie dei piccoli deportati nei lager. Poco, pochissimo proviene dalla voce diretta di un’ infanzia di cui invece molto si è detto e soprattutto scritto: “Perché l’ infante, per definizione, non parla: e quando impara a farlo gli si impone il silenzio”, diceva Egle Becchi, docente di pedagogia e autrice de I bambini nella storia. Silenzio come quello che San Girolamo raccomandava a Leta, madre della piccola Paula (che oltre a tacere crescerà “sorda a tutti i musicali stromenti: dovrà ignorare l’ uso del flauto, del liuto e dell’ arpa”).
Nel libro, bellissimo, di Becchi, uscito molti anni fa, si metteva a confronto l’ infanzia della realtà a quella dell’ immaginazione. E dunque piccoli dei e figli di eroi omerici, la Mignon di Goethe e il Pinocchio di Collodi,  la bambina cattiva di Anna Freud, bambini brutalizzati e bambini idealizzati, bimbi perfetti perché sovrumani e perfettibili in virtù dell’ educazione: come i fanciulli dei filosofi, che siano i piccoli abitanti del regno di Armonia descritto da Charles Fourier o il poppante da educare secondo natura prospettato da Rousseau nell’ Emilio.
Bambini dell’ utopia, bambini laici, questi ultimi: che fanno tardi il proprio ingresso nella storia, dopo secoli in cui all’infanzia si guardava più con terrore che con tenerezza. Nell’antichità classica il bambino era messaggero del mondo dei morti: e nel cristianesimo si sdoppia in un essere peccaminoso conteso fra bene e male. Ambiguità vivissima ancora oggi, quando le pubblicazioni sui bambini sembrano aumentare, e quando, infranto un silenzio secolare, i bambini non soltanto parlano, non soltanto appaiono più o meno legittimamente in televisione e in rete, ma diventano apparenti protagonisti del mondo.
Quegli stessi bambini che facevano paura (anche, insieme all’amore, certo) e che fino a non molto tempo fa, se non battezzati, finivano al Limbo (perché per secoli sono stati considerati il grado zero della morale, immuni dalla colpa e dall’etica), sono comunque coloro che non solo abiteranno stanze che non conosceremo neanche in sogno, ma che prenderanno il nostro posto sulla terra. E per questo devono essere protetti, incitati a dare il meglio di sé, ma anche temuti, e vessati. Quando il padre di Favolacce getta le bistecche che ha cucinato dopo la crisi di soffocamento del figlio, furioso perché “neanche un pezzo di carne si può mangiare in questa casa”, esprime un tremendo gesto di resistenza a quello spodestamento, perché non ha ancora rinunciato alla sua stessa  infanzia.
Qualche tempo fa, su Topipittori, si commentava la tragedia di Corinaldo pensando, di nuovo, al Pifferaio di Hamelin:
“Questa fiaba mette a fuoco un’evidenza dirompente: l’incapacità di una comunità adulta di essere all’altezza della crescita della nuova generazione. E non per ragioni astratte o vaghe o filosofiche, fumose e poco comprensibili. Il non mantenere la parola data, il tradire il principio della giustizia, la lealtà, il rispetto e la fiducia su cui si basa il patto sociale, non sono semplicemente un escamotage scusabile per tirare l’acqua al proprio mulino e rendere più floride le casse del governo (e quindi della comunità), ma qualcosa di ben più grave e dalle conseguenze più drammatiche: è minare le fondamenta stesse della comunità nella sua stessa ragione d’essere. E mette a nudo un nodo fondamentale: una comunità adulta che fa questo può essere considerata ancora adeguata a crescere i propri figli? Su che base, su che principi lo farà? Potrà essere credibile la sua parola per i più giovani?”
Nel film, la risposta è no. I bambini fanno paura, ci impediscono di mangiare la carne, ma sono il nostro prolungamento nel tempo. Quando scompaiono, temiamo anche di toccarli, o di pensarli, perché tutto il nostro investimento economico e affettivo è sparito. Come si è arrivati a questo? Domani, di nuovo.

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