Preferisco Pasolini, ha scritto qualcuno a proposito di Favolacce. Ma Pasolini è vissuto in un altro momento, quando le periferie erano diverse. Non so che idea abbiate delle medesime, ma da abitante di periferia smentisco che siano quella fogna immaginata da Ernesto Galli Della Loggia, da dove si riversano torme di bestie per portare il contagio, metaforico e reale, nei centri storici.
Nel 2008 Walter Siti pubblica Il contagio, appunto: per me il suo romanzo più bello. Vi si sostiene una tesi impeccabile. Questa:
«L’appassionata analisi di Pasolini, vecchia di oltre trent’anni, andrebbe rovesciata: non sono le borgate che si stanno imborghesendo, ma è la borghesia che si sta (per così dire) “imborgatando”. […] (“se hai soldi, una bella macchina e un po’ di cocaina, puoi scopare chiunque”, è un motto del carcere ammirato e condiviso da Fabrizio Corona) – al di là dei casi singoli, vige un’effettiva solidarietà strutturale: nel continuum indifferenziato di chi il mondo non sa più vederlo intero, è l’ideologia di quelli che una volta si chiamavano gli esclusi (i lumpen, i sub-culturali) a risultare egemone.»
E’ quello che è avvenuto. A via Vermeer, dove il romanzo si ambienta in molta parte, si preparano cene di tre portate, si sniffa cocaina, si ospitano VIP di quart’ordine.
«L’appartamento si allarga per oltre duecento metri quadri e dà un’impressione di lusso, pur essendo un alloggio dell’Istituto Case Popolari col fitto bloccato a settanta euro al mese. Così spiega Gianfranco, il padrone di casa e della festa, mostrando orgoglioso le nicchie e i tripli bagni; ha semplicemente abbattuto due pareti divisorie e raggruppato tre unità abitative, liquidando con poche migliaia di euro gli intestatari precedenti; l’Istituto non si è mai occupato della cosa.»
Nella Spinaceto di Favolacce non si vive male, in apparenza. Le villette sono graziose, hanno il giardino, volendo ci si può collocare la piscina (salvo poi distruggerla per evitare di distinguersi troppo, o di allargare i confini della famiglia, forse). Sicuramente ci si crescono bene i figli. Nella periferia romana sono spuntati da anni piccoli complessi residenziali quasi identici: ne conosco e ne ho frequentati diversi. Si entra con un codice numerico, le strade sono curate, ogni villino ha il box auto e i padri tagliano da soli l’erba del giardino e naturalmente grigliano bistecche e salsicce e bruschette nel forno a mattoni di cui i villini sono provvisti. Ci si saluta da un villino all’altro. A volte si cena insieme. Ci si odia, anche, segretamente o meno. Perché sono una delle crescenti gated community, comunità serrate dove ci si rinchiude perché fuori, ehi, non è sicuro, ci sono gli zingheri, ci stanno i ladri, e noi abbiamo i bambini.
“Abbiamo” i bambini significa “possediamo” i bambini. Credo che ancora non si sia ragionato abbastanza sul senso di possesso e iperprotezione che si è sviluppato negli ultimi venti-venticinque anni. Bambini da esibire. Da proteggere spianando macerie, includendo nelle macerie tutti gli altri. Bambini che sono, devono, essere noi, meglio di noi anzi: ma non è affatto il famoso gesto di Ettore, che leva in alto, con speranza, il piccolo Astianatte. E’ poco più di un selfie, invece. Tu sei come me, appunto. E se sei come me devo non ascoltarti ma plasmarti, ignorandoti. E’ l’appagamento infinito del desiderio, quello che si mette in atto. Come scriveva Michela Marzano anni fa, “ sacralizzazione del “desiderio”, e dunque anche del “desiderio di un figlio”, corrisponde perfettamente ad un´epoca in cui la rivendicazione della propria libertà di scelta si traduce molto più spesso di quanto non si creda in una nuova forma di conformismo. Se tutti desiderano un figlio, perché io non posso? E, soprattutto: se non ci riesco, c´è qualcosa, in me, che non va?”. E un padre, in una puntata di Presa diretta del 2016, negava ogni ruolo educativo alla scuola, ribadendo “mio figlio è mio”.
Le cose sono peggiorate anno dopo anno, con le lotte fra genitori sui social, con l’attacco agli insegnanti sui gruppi whatsapp. Chiara Volpato nel suo bellissimo saggio “Le radici psicologiche della disuguaglianza” spiega che in una società disuguale la competitività aumenta, e nel caso del materno, ignorato socialmente o turpemente utilizzato da certi fautori della “famiglia”, a disuguaglianza si somma disuguaglianza, e a competizione si somma competizione e a possesso si somma possesso.
Questo è, e questo il film racconta. E come nella fiaba dei Grimm, i bambini decidono di sottrarsi al gioco. Tranne uno, ma di questo si parla, infine, domani.