FIGLI

Natalia Aspesi riflette sulla maternità. E su quello che è tornato ad essere, soprattutto per le donne, più imperativo che scelta. Leggete.
Non sono più soltanto mamme e babbi vip a sventolare i loro piccini anche infanti sui giornali per famiglie, ma pure i nonni, come il nostro premier che lucidato in modo da sembrare ventenne, ha iniziato la del resto mai interrotta campagna elettorale dalla copertina del suo prestigioso organo di partito, Chi. Lui in mezzo a: 5 figli, due aspiranti generi, un´aspirante nuora, 5 bellissimi nipotini, anche con ciuccio in bocca, di cui almeno un paio gli assomigliano molto, a parte i riccioli biondi. Bambini come propaganda, come l´ennesimo feticcio del successo, accanto allo yacht di 60 metri e alle poltrone stile Luigi XV nei saloni del castello non avito.
Di questa epidemia genitoriale cadono preda anche persone qualsiasi: non è per esempio solo Gianna Nannini, donna libera e anticonformista che, ultracinquantenne, è riuscita finalmente a realizzare il suo desiderio di maternità. Coppie o singoli, quando il metodo classico non dà risultati e diventa sempre più faticoso, ricorrono alle apposite cliniche che se ne infischiano degli anatemi vaticani e delle nostre probe leggi. Ultimamente sono soprattutto le coppie stabili monosesso, a desiderare ardentemente un figlio, offrendo al fortunato fantolino il rifugio protettivo di due mamme o di due babbi; e pare che queste creaturine vengano su benissimo, almeno non peggio degli altri di più tradizionale provenienza, dove ormai i babbi fanno la mamma e la mamma fa mamma e babbo: quando il babbo se ne è andato con una ucraina ventenne ma anche quando il babbo resta, e avendo imparato a cambiare i pannolini e a preparare il biberon, diventa troppo mamma per esercitare il ruolo paterno.
In questo fiorire di nursery, baby alta moda, psichiatri infantili, videogiochi, Tata Matilda e intrattenitori di babyfeste, chi non ha figli torna ad essere, a seconda dei punti di vista, un anarchico, un poveretto, un fortunato, uno stravagante, un asociale, in ogni caso un diverso: soprattutto se di sesso femminile, perché se una donna non è mamma non è una vera donna. E infatti una donna senza figli deve rendere conto ancora adesso di questa sua anomalia: insomma continua ad essere una curiosità da sondaggio e da dolente intervista. Che rispondere? È stato il caso? Così la mia vita non ha senso? I bimbi mi fanno orrore? Sarei stata una mamma perfetta ma non ho mai trovato il giusto padre? Oppure: sono già la mamma dei miei libri. O anche: come figlio mi basta mio marito. Ecc.
Viene in mente il romanzo Ogni passione spenta di Vita Sackville West, in cui l´ottantenne signora rimasta vedova si accorge che i suoi figli, ormai vecchi, le sono estranei e antipatici, oppure un altro bel libro, Le parole tra noi leggere di Lalla Romano, che già dal primo capitolo fa passare la voglia di averne. Ci sono donne che si disperano per non essere madri, e forse sono quelle che possiedono il famoso istinto materno, e quelle che ringraziano il cielo, che probabilmente di quel misterioso istinto sono prive.
Il problema non è tanto mettere al mondo dei figli, quanto saperli crescere. I figli paiono oggi un dono così straordinario che certi genitori non si sentono alla loro altezza, diventandone subito sudditi servili, proni ad ogni urlo selvaggio: magari i bambini anelerebbero a un bel ceffone rassicurante, e invece ottengono solo costosi gadget che li fanno andare in bestia. In questo modo le non mamme e i non babbi organizzano un viaggio al Santuario di Compostela per ringraziare della propria sterilità, con la benedizione dei non figli grati di non dover a tre anni andare a scuola di musica, di hockey e di inglese.
In un altro articolo, sempre su “Diario” di Repubblica,  anche Michela Marzano interviene sulla genitorialità.
Avere dei figli sembra ormai un´ossessione. Come se il fatto di non averne fosse una menomazione. Una mancanza insopportabile. Bisogna averne almeno uno, come si ha un lavoro o una casa. Per realizzarsi ed essere veramente felici. Anche quando si ha tutto, o quasi. Come Elton John che, quando nasce Zachary, dice di essere “sopraffatto dalla gioia”. O Gianna Nannini, che un mese prima della nascita di Penelope, le scrive una lettera su Vanity Fair: «Tu, il più grande amore della mia vita, arrivi dopo il dolore profondo e lo shock».
È come se ormai, ad un certo punto dell´esistenza, i figli facessero parte dell´equilibrio di ogni persona, del benessere individuale. «Ognuno ha il diritto di fare quello che vuole, quando vuole, e con chi vuole», dichiara la rockstar italiana per far tacere i dibattiti suscitati da questa sua gravidanza tardiva. D´altra parte, accanto ai casi delle star, ci sono tante storie di persone normali che sognano un figlio e, spesso, devono combattere con percorsi legislativi complicati e dolorosi. Ma che cosa significa, oggi, essere genitori? Bisogno? Desiderio? Diritto?
Fino a poco tempo fa, era “naturale” sposarsi, fondare una famiglia, avere dei figli. Era scontato, dunque accettato come dato biologico, che esistesse, per la donna, la necessità di diventare madre, di fare un bambino e di occuparsene. Per le famiglie più modeste, un figlio era una vera e propria risorsa economica. Due braccia in più per portare soldi in casa. Per le famiglie aristocratiche e borghesi, i figli assicuravano la trasmissione del patrimonio, la continuità della “stirpe”. Tutto era “naturale”. Tanto più che esisteva un legame indissolubile tra l´atto sessuale e l´atto procreativo: i bambini erano “il frutto della vita”. A partire dagli anni Sessanta e Settanta, però, le cose sono progressivamente cambiate. Da un lato, per la prima volta nella storia, si poteva legittimamente “fare l´amore” senza “fare figli”. Dall´altro lato, i progressi della scienza e della medicina hanno permesso di dissociare la procreazione dalla sessualità: grazie alle tecniche di fecondazione assistita, anche le coppie sterili e omosessuali possono oggi, almeno in teoria, avere dei figli.
La figura del genitore non è più monolitica. Ne esistono di tutti i tipi. Genitori single. Genitori biologici. Genitori adottivi. Genitori eterosessuali. Genitori omosessuali. Certo, da un punto di vista giuridico, non esiste alcuna omogeneità. E anche questo genera disparità e confusioni. In Italia, si ammette ancora solo la fecondazione omologa; in Francia, c´è anche quella eterologa, ma possono usufruirne soltanto le coppie eterosessuali; solo in Spagna, in Belgio, in Olanda e in Svezia è accettata l´omoparentalità. Ma per chi ne ha, oltre che il desiderio, anche i mezzi, tutto sembra ormai possibile. Perché non utilizzarli, allora? Tanto più che la sacralizzazione del “desiderio”, e dunque anche del “desiderio di un figlio”, corrisponde perfettamente ad un´epoca in cui la rivendicazione della propria libertà di scelta si traduce molto più spesso di quanto non si creda in una nuova forma di conformismo. Se tutti desiderano un figlio, perché io non posso? E, soprattutto: se non ci riesco, c´è qualcosa, in me, che non va?
Il desiderio appartiene alla sfera privata e nessuno può intervenire. Nel caso dei figli, però, il privato è anche necessariamente pubblico. O almeno sociale. Non solo perché il desiderio riguarda una terza persona, che ancora non esiste e che, in fondo, non ha chiesto nulla. Ma anche perché i figli, nel momento in cui nascono, non appartengono più solo ai genitori ma cominciano a far parte di una comunità più vasta. Certo, nessuno ha il diritto di giudicare i desideri degli altri. Non esistono dei “buoni desideri” e dei “cattivi desideri”. Esattamente come non esistono delle persone che meritano o meno di diventare genitori. Il desiderio di avere un figlio è sempre complesso e ambivalente. Si può voler un figlio per colmare un vuoto, per avere un erede, per riparare qualcosa della propria storia familiare, per proiettarsi nel futuro, per lasciare una traccia in questo mondo… Esattamente come, nel passato, lo si poteva volere perché succedeva, per abitudine, per rispettare le tradizioni… In fondo poco importa. Se si vuole un figlio, è inutile cercare di capire le ragioni precise di questo desiderio. Non esiste un modello perfetto di genitore capace di garantire l´equilibrio e la serenità dei figli.
Quando sono piccoli, fragili e sprovvisti di tutto, i bambini hanno bisogno che qualcuno si occupi di loro. Poco importa se esiste o meno un legame biologico tra figli e genitori. Poco importa se i genitori sono eterosessuali o omosessuali. La funzione paterna o materna può essere assunta anche dagli zii, dai nonni, dai cugini. Anche l´età dei genitori, in fondo, è relativa. Ciò che conta è che i genitori si occupino dei figli avendo la consapevolezza che non si tratta solo di “oggetti”, di qualcosa che hanno desiderato tanto e che, quando arriva, appartiene loro per sempre. Essere genitori significa permettere ai figli di crescere, di imparare ad “arrangiarsi da soli”, di rendersi progressivamente indipendenti. Essere genitori, più che un diritto, è un dovere. Primo fra tutti, il dovere di “adattarsi” a queste creature che sono nate senza averlo chiesto e che devono poter avere la possibilità, crescendo, di prendere le distanze dal modello materno o paterno che hanno conosciuto. Per diventare adulti, autonomi e liberi anche loro di avere dei desideri da soddisfare.

37 pensieri su “FIGLI

  1. Concordo. Più con la Marzano che con la Aspesi, della quale non condivido l’esaltazione del ceffone e del padre che fa il padre. Certi metodi dovrebbero essere l’eccezione, quando non esiste altra possibilità (e non quando è la più comoda, la più rapida, quella che evita di discutere…).
    Come donna senza figli ritengo che una delle poche cose buone di aver raggiunto i 40 anni è proprio il fatto che ormai nessuno si aspetta più da te che sforni un paio di pargoletti.
    ” Essere genitori, più che un diritto, è un dovere. Primo fra tutti, il dovere di “adattarsi” a queste creature che sono nate senza averlo chiesto e che devono poter avere la possibilità, crescendo, di prendere le distanze dal modello materno o paterno che hanno conosciuto. Per diventare adulti, autonomi e liberi anche loro di avere dei desideri da soddisfare.” Come non essere d’accordo?
    Ma per fare questo, a loro volta, un genitore ha bisogno di una *sua* tranquillità ed equilibirio personale. Il che implica non solo che non deve essere oppresso da questioni economiche (e su questo nessuno ha mai da obiettare) ma deve anche aver raggiunto un minimo di equilibrio e soddisfazione esistenziale (che non è solo economica e comprende il piano relazionale, culturale etc etc) altrimenti può solo scaricare le sue frustrazioni sui figli, che vengono caricati del dovere morale di essere di conforto al genitore infelice. Last but not least, la “produzione antropologica” richiede tempo, pazienza, impegno…il che contrasta nettamente con le necessità del mondo moderno di essere professionalmente sempre più competitivi e produttivi (se uno consuma le sue migliori energie sul posto di lavoro poi ha ben poco da dare in casa). Torno sempre lì, ma l’essere umano moderno, mero produttore e consumatore di beni, è un essere mutilato.

  2. Mi piace dove mirano entrambi gli articoli meno le partenze. Soprattutto non condivido la partenza di Aspesi. Se non ci deve essere prescrizione culturale sulla genitorialità, per cui è sacrosanto che non mi si rompano i marroni sul fatto che non voglio avere figli, non si deve giudicare il fatto che li desideri e combatta contro un destino avverso. Nannini non si è svegliata a 50 anni con un desiderio di maternità: Nannini ha una storia di aborti. In Italia le coppie che non possono avere figli devono fare dei salti mortali altrove non previsti – il che vale anche per le coppie omogenitoriali. Io sento nell’esordio di Aspesi la sociologizzazione di un desiderio e un certo moralismo spicciolo che non condivido.
    Per il resto sono abbastanza d’accordo (ma ho anche il sospetto che si possa dire di meglio).

  3. Anche io come Alessandra ho scelto di non avere figli. Non ne ho mai sentito la necessità, ma non mi sento meno donna per questo. Onestamente non mi interesso molto di quali aspettative abbia la società sul mio “presunto dovere” di generare. Rispetto a quanto viene scritto sia dalla Aspesi che dalla Marzano noto una macroscopica accezione alla regola donna = mamma: mi occupo da molti anni di donne con disabilità e nessuno si aspetta da loro che diventino mamme, anzi, spesso se manifestano un desiderio in tal senso vengono scoraggiate (anche dai medici che non vogliono correre rischi), o considerate egoiste.
    La disabilità tende a prevalere sul genere (i disabili sono spesso considerati asessuati) e, dunque, anche sulle aspettative dei ruoli comunemente associati al genere stesso. Nel 2008 ho partecipato ad un seminario su questi temi. Se vi interessa ne potete leggere qui:
    http://www.uildm.org/gruppodonne/donne-e-disabilita/ruoli-imposti-e-ruoli-negati/

  4. “Quando il babbo resta, e avendo imparato a cambiare i pannolini e a preparare il biberon, diventa troppo mamma per esercitare il ruolo paterno (Aspesi)”
    Qual è il ruolo materno? Qual è quello paterno? Sono davvero differenti?
    Se si parla di una famiglia in cui il padre è quello assente e con i pantaloni ovvio che questi avrà un ruolo più che da genitore o da educatore da grande assente. (Questa generalizzazione è in parte forzata, ma passatemela). Nel caso in cui il padre sia presente e faccia senza tante postille semplicemente il genitore, in cosa questo ruolo dovrebbe differire da quello della madre? Secondo me in nulla.
    Credo che se una persona è partecipe durante la crescita del bambino (andando anche al di là delle affinità genetiche fra i soggetti) allora a buon titolo ne sarà genitore e parteciperà agli aspetti della vita dell’altro. Non vedo argomenti o aree che in un dialogo genitore figlio/a siano appannaggio solo si un sesso e quindi a seconda dei casi della madre o del padre.
    Ho davanti agli occhi mia cugina da piccolina che va da mio zio e gli fa: “Babbo mi insegni a fare il guerriero?”. Risposta: “Figlia mia farò di te un uomo!”. Nessuno dei due era impazzito, avevano semplicemente visto insieme Mulan e la piccola si era entusiasmata per l’eroina Disney al punto da volerla emulare preferendola alle altre principesse.
    Nessuno dei fratelli maschi aveva mai duellato con mio zio, T. requisì loro spada e katana di plastica giocandoci per ore.
    E’ una storia un caso, ma dimostra che il padre non è necessariamente quello severo, che porta la figlia a danza e poi va a giocare a calcio con i figli, quelli sono stereotipi. Non è geneticamente programmato per tramandare il calcetto e come difendersi dai bulli.
    Per il resto nessuno si dovrebbe permettere di proferire verbo sulle scelte altrui e sulla volontà di un altro di diventare o no genitore. E’ una questione di rispetto, non credo che si possa dire tutto quello che passa per la testa, soprattutto se il contenuto riguarda sfere particolarmente intime o private di una persona.
    Un saluto a tutti

  5. Mi trovo molto d’accordo con il commento di zauberei.
    Aggiungo solo che ho visto un’intervista a Nannini, e forse dovremmo riflettere sul paradosso di tante critiche, anche del genere per così dire “fuoco amico”, a una donna, appunto, ‘libera e anticonformista’, proprio nel contesto dell’imperativo mediatico e sociale a fare figli di cui si parla.
    La distinzione tra fattori/fattrici e genitori mi sembra importante. Anche per questo la conclusione focalizzata su risorse e rispetto di Michela Marzano mi piace.

  6. Se si pone come valore di partenza la libera scelta consapevole, c’è molto poco da giudicare, in un senso o nell’altro, come dice Zaub. C’è invece da sostenere politicamente e culturalmente la possibilità di essere liberi e di diventare consapevoli, tutti: madri e no, padri e no, etero e no. Non concordo, nell’articolo di Michela Marzano, sul fatto che la sacralizzazione del desiderio di maternità unita ai progressi medici spinga a scelte dettate dal conformistico donna uguale mamma. Chiedersi “Se tutti desiderano un figlio, perché io non posso? E, soprattutto: se non ci riesco, c´è qualcosa, in me, che non va?”, come scrive la Marzano, non è frutto di pressioni conformistiche. Per prima cosa, in una donna che desidera figli e non può averne, queste sono domande ineludibili interiori e profonde, che hanno a che fare con la propria identità biologica e psicologica e con il proprio progetto di vita. Ancora una volta, non si può che rispettare l’unica libertà che è data a queste donne (paragonabile per certi versi a quella delle coppie omosessuali), che è una libertà molto limitata rispetto a quella delle coppie eterosessuali fertili: limitata dalla natura, dalle tecniche mediche tutt’altro che facili e ad esito felice come spesso si lascia intendere, e infine da restrizioni legislative ed economiche. L’unica libertà consapevole che resta qui, e che io difendo a spada tratta vivendo in prima persona la situazione, è quella di desiderare un figlio e nel contempo essere consapevolmente liberi di non volerlo a tutti i costi.

  7. Come a Zauburei mi piace dove vanno a parare i due articoli ma non mi piacciono le premesse. La mia impressione è che la nostra società sia diventata bambinocentrica senza essere affatto a misura di bambino. Il “baminocentrismo” ha dei risvolti inquietanti e produce solo stress nei genitori – senza alleviargli neanche un poco la fatica e il piacere. Sul desiderio di avere o non avere figli credo non sia lecito esprimersi – è un area pre -etica. La pressione per farci diventare tutte mamme però è fortissima, quasi insopportabile.

  8. Dice Barbara: “La pressione per farci diventare tutte mamme però è fortissima, quasi insopportabile.”
    Salvo poi lasciarci completamente soli a combattere con le unghie e con i denti per conquistare un posto al nido, poi alla materna e poi al tempo pieno…

  9. Io sono mamma di due bimbi. Non per bisogno, ne per diritto, ne per desiderio, ne per pressione altrui. Per caso forse. Sono arrivati e ho lasciato che arrivassero. Mi hanno complicato la vita, ma mi hanno fatto crescere. Come suddede dalla notte dei tempi, credo.
    lasciarli liberi. liberi di sbagliare, di provare, di cadere, di desiderare, di crescere è la cosa che sto cercando di fare. Ogni volta che mi scopro a interferire troppo, ad avvicinarmi troppo per evitare che prendano una culata in fondo allo scivolo, a versare l’acqua nel loro bicchiere quando stavano per farlo da soli, a soddisfare un loro desiderio prima ancora che lo esprimano, mi freno. A mia madre veniva naturale, a me no. E’ difficile rispettare la loro libertà. Forse perchè leggiamo troppo, ci prepariamo troppo, vogliamo essere genitori perfetti. Quando la perfezione (grazie al cielo) non esiste. Impareranno più dalla mia imperfezione che da tutto il resto. come è stato per me.

  10. “magari i bambini anelerebbero a un bel ceffone rassicurante”
    Forse il ceffone no 😉 , ma sentirsi dire dei no, avere una guida, dei punti fermi quando non sono ancora capaci di valutare maturamente da soli questo sì. Soprattutto gli manca il confronto con figure adulte.
    Il problema della questione figli è proprio l’ossessione di averli e usarli per ostentazione, per sentirsi gratificati e apprezzati: il trattare l’individuo come oggetto che aggiunge valore alla propria persona, al proprio ego.
    Bisogna ritrovare la realtà della vita, non l’apparenza: il figlio prima di tutto è un individuo e va rispettato, perché non appartiene a nessuno. Certo si è responsabili d’averlo messo al mondo, perché non è lui ad aver chiesto di nascere. Ma occorre farsi sempre una domanda, a cui va risposto sinceramente: perché si vuole mettere al mondo un figlio?
    Una cosa va ricordata: nel passato, forse anche adesso, esistevano tribù dove i bambini erano figli dell’intera comunità, non solo di due indivisui, e tutti avevano il compito di educarli e crescerli, proponendo così modelli di riferimento diversi, crescendo i piccoli più aperti e completi. Questa era vera crescita e responsabilità.

  11. Mi permetto di intervenire in questo interessante dibattito, per suggerire un terzo sguardo sulla questione attraverso un romanzo: “Nascere non basta”, di Ippolita Avalli. E’ un romanzo a mio avviso molto bello, che risponde a questioni simili a quelle qui affrontate: il doloroso distacco dei figli fino al loro diventare “alieni”, la maternità di una donna sola come scelta anti-convenzionale (lontanissima dai corsi di danza a tre anni o dagli spot della pampers), ma anche quella tendenza a porsi al totale servizio di quell’altro essere che è il figlio.

  12. Salve, io ho una quarantina d’anni, non voglio figli e non ne ho mai voluti perché non ne ho mai sentito la necessità. Ho un bellissimo rapporto di coppia e la cosa fondamentale è che la pensiamo allo stesso modo.
    Il resto non conta. L’importante è stare bene con se stessi. Chi si permette di dire che una donna non è donna se non ha fatto figli non merita la minima attenzione. Niente è automatico, nemmeno il volere figli per una donna.

  13. che altro dire? dico che concordo, che essere genitore è semplicemente difficile o difficilmente semplice, sciegliete voi, che non è obbligatorio esserlo. I figli per citare malamente, e me ne scuso, Gibran non sono figli nostri, ma della vita e quindi….dopo averli ospitati e poi dati “in pasto” al mondo non ci rimane che il duro lavoro di lasciarli viaggiare in senso lato e non….però qualche asilo nido in più non guasterebbe 😉

  14. Resta il fatto che siamo uno dei paesi europei con natalità bassissima, anche a causa dello Stato che non ci aiuta per niente. E chi li mantiene due o tre figli oggi con uno stipendio medio? Ha voglia la società a mettere la pressione…

  15. Trovo stravagante che si ponga la questione “figli” come un imperativo sociale o come un desiderio soggettivo, come se si trattasse di un dovere civico, di una moda da seguire o di un’espressione dell’io desiderante, quando l’unico contesto in cui è concepibile una scelta di questo tipo è quello della coppia. E questo non perchè così piace a me, ma perchè questa è la realtà dei fatti: un figlio nasce dall’unione sessuale, e il fatto che questa unione possa essere “tecnicamente” assistita non cambia il ruolo del soggetto (la coppia) e dell’avverbio (naturalmente o tecnicamente).
    Tutto il resto è fuffa, davvero. L’articolo della Aspesi, in particolare, è cucinato con una serie interminabile di luoghi comuni sui pro e i contro e le modalità della maternità, come se i figli fossero semplicemente un’appendice (desiderata o imposta) del corpo materno. Ho due figli ultraventenni che girano per casa e posso garantire a chiunque ne faccia richiesta che i figli sono (e richiedono) un’evoluzione nella vita di coppia. Evoluzione che non è certo obbligatoria ma che si verifica solo quando è realmente condivisa.
    Sottratta a questo contesto, la prole diventa un soprammobile di una vita intesa come “opera d’arte”, che ognuno pone e dispone come crede, anche a costo di inserirvi soggetti anzichè oggetti d’arredamento.
    A questo punto meglio restare alla Barbie.

  16. Magari i figli anelerebbero a un bel ceffone rassicurante scrive la Aspesi…
    Direi di no. I bambini non anelano per niente a un ceffone. Non credo esistano persone che anelino a un bel ceffone. La violenza, di qualunque genere, non è per niente rassicurante. E i bambini sono persone, in sedicesimi, forse, ma persone.
    sentir parlare di ruolo paterno e materno poi riporta la discussione a toni anni 50…
    Il fatto che, dice Binaghi, la scelta di avere un figlio sia concepibile solo in una coppia mi lascia molto perplesso. Forse non sarà giusto ma moltissimi”single” anelano ad avere figli e spesso vi riescono. Sarà ingiusto, barbaro ma mi sembra che succederà sempre più spesso.

  17. “Quando il babbo resta, e avendo imparato a cambiare i pannolini e a preparare il biberon, diventa troppo mamma per esercitare il ruolo paterno (Aspesi)”
    Quoto Antonio de Curtis (Totò): Ma mi faccia il piacere!
    Consiglio poi a chi passa dalla Svezia di evitare i ceffoni ai bambini visto che qui sono reato. Save the Children ha in corso una campagna per far si che tutti i paesi europei mettano fuori legge le punizioni fisiche ai bambini. La violenza genera solo violenza.

  18. Quanto al “ceffone rassicurante”, forse è il caso di ricordare cosa scrive Alice Miller, una terapeuta che ha combattuto una lunga e dura battaglia contro la “pedagogia nera”, a volte scontrandosi con la stessa psicanalisi ortodossa.
    “1) Ogni bambino viene al mondo per crescere, svilupparsi, vivere, amare ed esprimere i propri bisogni e sentimenti, allo scopo di meglio tutelare la propria persona.
    2) Per potersi sviluppare armoniosamente, il bambino ha bisogno di ricevere attenzione e protezione da parte di adulti che lo prendano sul serio, gli vogliano bene e lo aiutino onestamente a orientarsi nella vita.
    3) Nel caso in cui questi bisogni vitali del bambino vengano frustrati, egli viene allora sfruttato per soddisfare i bisogni degli adulti, cintato, punito, maltrattato, manipolato, trascurato, ingannato, senza che in suo aiuto intervenga alcun testimone di tali violenze. In tal modo l’integrità del bambino viene lesa in maniera irreparabile.
    4) La normale reazione a tali lesioni della propria integrità sarebbe di ira e dolore, ma poiché in un ambiente simile l’ira rimane un sentimento proibito per il bambino e poiché l’esperienza del dolore sarebbe insopportabile nella solitudine, egli deve reprimere tali sentimenti, rimuovere il ricordo del trauma e idealizzare i suoi aggressori. In seguito non sarà più consapevole di ciò che gli è stato fatto.
    5) I sentimenti di ira, impotenza, disperazione, desiderio struggente, paura e dolore – ormai scissi dallo sfondo che li aveva motivati – continuano tuttavia a esprimersi in atti distruttivi rivolti contro gli altri (criminalità e stermini) o contro sé stessi (tossicomanie, alcolismo, prostituzione, disturbi psichici, suicidio).
    6) Vittime di tali atti vendicativi sono assai spesso i propri figli, che hanno la funzione di capri espiatori e la cui persecuzione è ancor sempre pienamente legittimata nella nostra società, anzi gode persino di alta considerazione, non appena si autodefinisca ”educazione”. Il tragico è che si picchiano i propri figli per non prendere atto di ciò che ci hanno fatto i nostri genitori.
    7) Perché un bambino maltrattato non divenga un delinquente o un malato mentale, è necessario che egli, perlomeno una volta nella vita, incontri una persona la quale sappia per certo che ”deviante” non è il bambino picchiato e smarrito, bensì l’ambiente che lo circonda. La consapevolezza o l’ignoranza della società aiutano, in tal senso, a salvare una vita o contribuiscono a distruggerla. Di qui la grande opportunità che viene offerta a parenti, avvocati, giudici, medici e assistenti sociali di stare, senza mezzi termini, dalla parte del bambino e di dargli la loro fiducia.
    8) Finora la società proteggeva gli adulti e colpevolizzava le vittime. Nel suo accecamento, essa si appoggiava a teorie che, corrispondendo ancora interamente al modello educativo dei nostri nonni, vedevano nel bambino una creatura astuta, un essere dominato da impulsi malvagi, che racconta storie non vere e critica poveri genitori innocenti, oppure li desidera sessualmente. In realtà, invece, non v’è bambino che non sia pronto ad addossarsi lui stesso la colpa della crudeltà dei genitori, al fine di scaricare da loro, che egli continua pur sempre ad amare, ogni responsabilità.
    9) Solo da alcuni anni, grazie all’impiego di nuovi metodi terapeutici, si può dimostrare che le esperienze traumatiche rimosse nell’infanzia vengono immagazzinate nella memoria corporea e che esse, rimaste a livello inconscio, continuano a esercitare la loro influenza sulla vita dell’individuo ormai adulto. I rilevamenti elettronici compiuti sul feto hanno inoltre rivelato una realtà che finora non era stata percepita dalla maggior parte degli adulti: e cioè che sin dai primi attimi di vita il bambino è in grado di recepire e di apprendere atteggiamenti sia di tenerezza che di crudeltà.
    10) Grazie a queste nuove conoscenze, ogni comportamento assurdo rivela la sua logica sino a quel momento nascosta, non appena le esperienze traumatiche subite nell’infanzia non debbano più rimanere nell’ombra.
    11) L’aver acquisito sensibilità per le crudeltà commesse verso i bambini, che sinora venivano generalmente negate, e per le loro conseguenze arresterà il riprodursi della violenza di generazione in generazione.
    12) Gli individui che nell’infanzia non hanno dovuto subire violazioni alla loro integrità, e a cui è stato consentito di sperimentare protezione, rispetto e lealtà da pane dei loro genitori, da giovani e anche in seguito saranno intelligenti, ricettivi, capaci di immedesimarsi negli altri e molto sensibili. Godranno della gioia di vivere e non avranno affatto bisogno di far del male agli altri o a sé stessi, né addirittura di uccidere. Useranno il proprio potere per difendersi, e non per aggredire gli altri. Non potranno fare a meno ci rispettare e proteggere i più deboli, ossia anche i propri figli, dal momento che essi stessi, un tempo, hanno compiuto tale esperienza, e dal momento che fin dall’inizio in loro è stato memorizzato proprio questo sapere (e non la crudeltà). Questi individui non saranno mai nella condizione di capire come mai i loro avi nel passato abbiano dovuto impiantare una mastodontica industria bellica per sentirsi a loro agio e sicuri nel mondo. Dal momento che il compito inconscio della loro vita non starà più nel difendersi dalle minacce subite nell’infanzia, essi saranno in grado di affrontare in maniera più razionale e creativa le minacce presenti nella realtà.”

  19. Ho trovato grandioso l’articolo di Aspesi, che con umorismo ha passato in rassegna tutti interrogativi morali, etici, pratici e simbolici di questa compulsione a possedere uno o più bambini (qualsiasi origine o costo abbiano).
    Voglio anche sottolineare il fatto che – essendoci donne che i figli non li vogliono – quello di maternità NON E’ UN ISTINTO INNATO che prima o poi colpisce chiunque abbia un utero, e che comunque non è legato all’esistenza di una coppia perchè ci sono tante donne che i figli li hanno voluti e cresciuti DA SOLE.
    Non ho capito invece, come al solito, dove voglia andare a parare la Marzano… 🙁

  20. Francamente, del mondo dei vip faremmo bene a interessarci meno, credo. E anche di tutte quelle altre cose (baby alta moda -?- baby feste e psichiatri infantili…), ammennicoli dei vip.
    Resta il fatto che una donna che oggi non voglia avere figli ha molti meno problemi di cent’anni fa. Può lavorare, mantenersi da sola, e fare la vita che crede.
    Detto questo, lontano dai riflettori, il desiderio di maternità può essere forte per mille altri motivi: dobbiamo analizzarli?
    Poi c’è la faccenda di come si fa i genitori.
    Non è un po’ troppa carne al fuoco?

  21. in entrambi gli articoli vedo l’indice puntato e un ghigno di superiorità.
    devo sentirmi in colpa per aver desiderato un cucciolo? io mi vedo piú come animale che come donna moderna se esserlo equivale a rifiutarsi di avere gigli. capisco e accetto chi non vuole essere genitore ma non mi sembra corretto compatire o screditare chi sente il desiderio di esserlo.

  22. Quando si affrontano questi discorsi mi viene sempre in mente una considerazione magari banale, ma a mio parere non stupida. Se, per ipotesi, tutti decidessimo di non fare più figli, la razza umana si estinguerebbe nel giro di pochi decenni (cosa che magari qualcuno auspica… io personalmente no). Se, d’altra parte, tutti avessimo continuato e continuassimo a fare figli, magari secondo il nostro potenziale biologico (come la mia bisnonna che ne ebbe dodici), arriveremmo molto presto alla catastrofe demografica. Per questo mi sembra che la riduzione delle nascite (che riguarda comunque solo una parte limitata dell’umanità), al di là di considerazioni politiche, psicologiche, culturali ecc. più sottili, possa essere vista anche come un processo di adattamento della specie alle attuali condizioni della vita e del pianeta, che non sono le stesse di cent’anni fa.
    Non potrebbe essere questa semplice considerazione un punto di partenza per una reciproca tolleranza tra chi desidera avere figli e chi non desidera averne? Credo, come immagino tutti o quasi tutti qui, che il problema non sia avere figli o non averne, quanto rispettare le scelte di ognuno e soprattutto promuovere i modi che consentano a tutti di sostenere quelle scelte in modo cosciente e sereno.

  23. Un modo cosciente e sereno di porre il problema, Frau Dinosauro, non è, però, quello di presentare il proprio punto di vista suffragato da considerazioni che attengono al senso (e alla paura) comune. Mi riferisco a quella di prospettare la catastrofe demografica presentandola come un effetto che attiene al razionale e l’ipotesi opposta a processi spontanei (adattamento). Magari si potrebbe fare lo sforzo per dire, e prima pensare, che potremmo tutti impegnarci per avere un mondo più giusto, adottando tutti i bambini adottabili e vedere come il pianeta e chi lo abita sarebbe diverso, meno inquinato, meno affamato, meno grasso e malato per via dell’ingordigia…Come si rispettano le scelte di chi non ha figli se ciò che passa è di nuovo l’ingiunzione moral(istica)e di conformarsi ai dettami patriarcali e, in Italia e altrove, cattolici? Forse, come dice lei, è già in atto un processo di adattamento che facilita il risultato di cui io parlo, in modo “spontaneo”, di certo non è incoraggiato culturalmente perché sotto quel punto di vista si continua a colpevolizzare le donne fornendo il continuo monito: dipenderà da te se la specie si estingue. Stesso monito è rivolto ai gay. Così si diffonde un giudizio pesantissimo verso chiunque decida di adottare metodi contraccettivi e, per le donne, di agire la propria autodeterminazione. Lo trovo incivile, inopportuno, violento. Per cui prima di arrivare a ciò che lei correttamente auspica, bisognerebe, mi scusi, evitare anche di utilizzare terminologie censorie.
    Infine, mi perdoni se ho usato il suo intervento per dire la mia e se l’ho fatto in parte sottolineando ciò che lei dice ma che è intenta a superare. La verità è che preferisco confrontarmi con chi ha già fatto un passo oltre il proprio pensiero, come nel suo apprezzabilissimo caso. E la ringrazio.

  24. Dell’articolo di Marzano mi colpisce un punto che non mi pare sia stato ancora toccato nel dibattito, e cioè il passaggio in cui si sottolinea l’aspetto ”sociale” o ”pubblico” della genitorialità: ”non solo perché il desiderio riguarda una terza persona, che ancora non esiste e che, in fondo, non ha chiesto nulla. Ma anche perché i figli, nel momento in cui nascono, non appartengono più solo ai genitori ma cominciano a far parte di una comunità più vasta”.
    In nome di un analogo prinicipio ho contestato qualche tempo fa in un dibattito su Fb quella che a me pare una forma di deprecabile ostentazione narcisistica all’interno del suddetto social network, e cioè la pubblicazione, in quantità e frequenza intollerabili, di materiale fotografico o filmato riguardante infanti o pupi in età appena scolare da parte di novelle Cornelie, ma anche, devo dire, o soprattutto, di novelli Marii Merola. I ritratti di pupi carpiti all’interno della vita domestica, dalla colazione del mattino alla passeggiata nel parco, mi sembrano una forma di esibizione tanto più perniciosa quanto meno autorizzata dalle ”vittime” di questa ossessione della vetrina che tutti ci contagia (nel social network, ma non solo, evidentemente). Ma un conto è far pieno e consapevole uso dei mezzi e delle possibilità di autopromozione/esibizione/ostentazione, un conto è imporre un’analoga modalità a chi non abbia ancora potuto sviluppare i necessari strumenti di difesa rispetto alle possibili conseguenze di una sovraesposizione continua. Ovviamente le reazioni alla mia polemica sono state vibranti e assai varie, ma per lo più scomposte, e i genitori fotografi compulsivi hanno rivendicato il loro sacrosanto diritto di condividere con la comunità degli ”amici” (amici? in numero di 2mila, ormai, mediamente, per ciascuno di noi, nel social network) il loro ”orgoglio mater/paterno”, e altrettanto puntuale è arrivata la taccia di insensibilità all’idillio familiare addossata a persone ”evidentemente” sole, ”evidentemente” infelici, ”evidentemente” incapaci di condividere ”le gioie della vita”.
    Non è importante sapere se io abbia o meno dei figli, e perché. Alfieri nella Vita pone molto chiaramente l’idea che il bambino sia una persona in formazione e non un adulto miniaturizzato e che l’educazione (cioè l’accompagnamento alla maturità) non debba dunque passare attraverso punizioni (il supplizio della reticella, per Alfieri, il ceffone della Aspesi) o lusinghe (le foto-orgoglio mater/paterno), ma, piuttosto, consistere nel confronto con la (presumibilmente) maggiore esperienza dell’adulto, nel processo di crescita e di formazione di una coscienza personale e di desideri autonomi. Poi, pure chi non ha figli, figlio è stato obbligatoriamente, e un genitore appostato in ogni angolo della casa a fotografare qualunque operazione quotidiana come fosse un allunaggio, semplicemente perché non si hanno ancora tutti i denti in bocca o le gambe ben salde, non credo sia auspicabile per nessuno, neppure per i più esibizionisti di noi.

  25. Mi colpisce molto il commento di Gilda. Perché è vero: assai frequentemente la reazione verso chi non dico critica, ma tenta di riflettere su un fenomeno generale, che non riguarda dunque le singole esistenze, bensì una tendenza, è identica. Chi avanza un dubbio sul modo di condividere (e a volte di esibire) maternità e paternità (o anche chi avanza qualche dubbio punto) viene definito come una persona sola e infelice, magari vecchia, magari cattiva, certamente con le scarpe basse.
    Voglio dire che si colpisce, ormai, la persona: non le sue idee, anche se è a causa delle sue idee che si tenta, a tutti i costi, di ferire, e di ferire nel privato, però. Soprattutto se si tocca un nervo scoperto.
    Proprio su questo blog, mesi fa, una commentatrice disse che evidentemente non mi ero spezzata la schiena nelle gravidanze. A parte l’inconsapevole crudeltà dell’affermazione (ho perso due figli prima di avere Lotta e Oliviero), sbigottisce il “taci tu che non sai”.
    Esiste, che lo vogliamo o meno, una nuova retorica del materno. Sia pure in un paese che in nulla aiuta e sostiene le madri e i padri (o in molto poco). Farci i conti non significa sminuire la genitorialità: ma, a mio parere, capire cosa significa essere genitori in un contesto sociale. E non nella solita ottica del “cazzi miei”, “cazzi tuoi”.

  26. Grazie a lei, @ Donatella, per avermi dato la possibilità di approfondire il mio punto di vista. Il mio intervento precedente era volutamente terra-terra. Intendevo semplicemente dire che, se parliamo di ”senso comune” nell’accezione migliore del termine, che potrebbe essere quella di senso del ”bene comune”, di tutta l’umanità, mi sembra che nessuna delle due scelte – quella di avere figli e quella di non averne – possa essere attaccabile a priori. Dato che, come lei sottolinea, le condanne più o meno esplicite vengono soprattutto da una parte, che vuole magari rifarsi (con quanta onestà intellettuale?, mi chiedo) al biblico ”crescete e moltiplicatevi”, forse il rischio di una possibile catastrofe demografica potrebbe essere un argomento convincente – non certo per imporre inconcepibili limiti a chi desidera procreare, ma per far passare l’idea che, al contrario, la scelta di non procreare (indipendentemente dalle sue motivazioni) non è affatto, in una prospettiva globale, una scelta egoistica e anti-vita.
    Spero di non essere fraintesa. Ripeto che, per me personalmente, il punto di partenza rimane il rispetto delle scelte altrui. Ma se critico l’assenza di tolleranza che si manifesta in certe tendenze, di quelle tendenze critico anche l’assenza, a mio parere, di qualsiasi logica.
    Mi viene però anche da fare una considerazione rivolta all’altra parte in causa. Posso ben comprendere il fastidio, da parte di una donna che ha scelto in piena coscienza di non avere figli, nei confronti di certe domande o atteggiamenti che tendono a sottolineare una sua supposta ”diversità” (= anomalia, anormalità?). Non vorrei però che si sviluppasse un’ipersensibilità in questo senso. Credo si debba tenere conto del fatto che certe condizioni – concrete e mentali – da un punto di vista storico sono ancora relativamente recenti. Mi riferisco innanzi tutto alla possibilità tecnica per le donne di un controllo sicuro della propria capacità riproduttiva. Se oggi molte donne scelgono di non avere figli, è anche semplicemente perché finalmente possono farlo! Progresso scientifico, comportamenti e mentalità (individuali e collettivi) si sviluppano parallelamente e si influenzano a vicenda – ma i loro tempi non sempre coincidono. Per questo, anche dove la razionalità abbia già portato a certe conclusioni, è possibile che a livello inconscio sopravvivano altri modelli, retaggio di culture più datate. Mi spiego: di fronte a un’amica che mi dice di non volere dei figli, confesso che potrebbe sorgermi spontanea la domanda: perché? Domanda che per me non implica, a livello cosciente, un giudizio o una condanna, ma semplicemente una curiosità; domanda che però, forse, non mi sorgerebbe così spontanea se le donne della mia età intorno a me che hanno scelto di non avere figli fossero il 50% e non il 10%. Quello che voglio dire è che l’assimilazione a livello profondo di certi cambiamenti culturali e sociali non è automatica e può richiedere tempo. E la fase di transizione che richiede può essere utile a capirsi e confrontarsi – con gli altri, e anche con se stessi. Senza presupporre automaticamente l’esistenza di ”cattive intenzioni”.
    Spero anche in questo caso di essere stata chiara. Vorrei commentare anch’io l’interessante intervento di Gilda Policastro ma sono sempre in ritardo rispetto ai commenti e quindi chiudo qui…

  27. Io credo che Gilda Policastro abbia ragione: fotografare osessivamente i pargoli per poi mostrare le foto a mezzo mondo non mi sembra sano…c’è anche da dire che quando le persone si sentono dire che nel loro modo di esprimere la felicità c’è qualcosa di sbagliato o di discutibile..bè reagiscono male, mi sembra anche comprensibile senza voler giustificare attacchi personali che sono ingiustificabili.
    Hai voglia a dire rifletto sul fenomeno generale, il fenomeno generale o no che sia investe sempre singole esistenze: se uno per esempio dice “l’ateismo dominante nella nostra società ci porterà alla rovina”, io non credente mi risento anche se non ce l’aveva proprio con me e questo vale per tematche anche più delicate.
    E io so benissimo che ogni volta che esprimo un parere su un tema particolarmente “caldo” ci sarà una quantità di gente che si risentirà e potrebbe anche dirmi (e me l’ha detto) che non capisco nulla, che sono un idiota ecc..questo ripeto non giustifica attaccare la persona anzichè l’idea (quando l’idea c’è, perchè io non ne sarei sempre così sicuro riguardo a certa gente con cui ho duellato sul web, non qui) che è comportamento deprecabile…ma sul web trovi ogni genere di persona compresi i maleducati, i permalosi, i frustrati che prendono internet per uno sfogatoio..chissà non escludo che in certe circostanze io stesso sia finito in una di queste deprecabili schiere
    Sul “zitto tu che non sai”, sì nel caso in esame non va bene perchè pure chi non è genitore ha comunque avuto dei genitori, però parlando di ivg in giro per il web, mi è capitato di trovare degli antiabortisti a cui avrei voluto rispondere in quel modo.
    Gravidanza, aborto, figli, sessualità, sessualità, eros, corpi e “gestione” degli stessi sono campi minati, ovviamente ciò non significa stiamo zitti, significa parliamone sapendo che è un campo minato.

  28. Pian piano magari ci si renderà conto che insana è l’esibizione in quanto tale, che riguardi figli, animali domestici, muscoli, culi, tette o petti villosi.
    C’è qualcosa di profondamente perverso nell’atto dell’ostentazione visibile, forse chi è andato più vicino a comprenderla è Girard quando mette in relazione invidia e mimetismo, e definisce la società di massa come un “inferno mimetico”.

  29. C’è esibizione ed esibizione. Io mi fermerei a criticare (sempre con cautela) l’esibizione e l’ostentazione dei figli piccoli

  30. D’accordo con Valter Binaghi. L’ostentazione punta ad occupare spazio, non solo visivo, quello spazio che senza imitazione, forse non occuperemmo. Peggio se ci serviamo di altri per espanderci, dato che le immagini sono, comunque la si metta, intepretazioni soggettive, non importa quanto e se artistiche.

  31. Qualcuno diceva poco fa: società bambinocentrica. Verissimo. Forse perché i bambini sono pochi, meno che in passato comunque, e il tasso di natalità è credo tra i più bassi di tutti i tempi, in Italia, ma dunque eccoli perennemente ostentati come i ”gioielli” di Cornelia, dicevo prima, o, ancora peggio, posti al centro di qualsivoglia contesto, spesso con fastidio o imbarazzo di chi non ne condivide la tirannia (e c’è un passaggio molto bello di un libro di poesia uscito lo scorso anno, I mondi, di Guido Mazzoni, in cui una cena fra amici viene improvvisamente turbata dalla presenza di un neonato su cui i genitori tentano costantemente di far convergere l’attenzione di tutti i commensali per il resto della serata, inevitabilmente falsata da questa presenza ”aliena”). Mi permetto di raccontare un piccolo fatto vero, per offrire una testimonianza, e stavolta non dal web ma dalla vita di fuori, di come spesso attorno ai bambini ci sia un malinteso senso di rispetto ovvero di iperprotezione. Accompagno una persona in ospedale, questa persona ha 74 e un tumore terminale. Non ci sono posti a sedere nell’atrio, così faccio sedere la persona nella sala d’attesa del reparto più prossimo, che è quello di pediatria. Intanto prendo il numero, faccio la coda agli sportelli, mi dicono che devo attendere la chiamata a voce dal fondo del corridoio. Ma la persona che accompagno mi richiama dalla sala d’attesa, perché ha bisogno della mia assistenza. Com’è logico, nella sala d’attesa di pediatria ci sono molti bambini, alcuni sono stranieri, anche molto piccoli: giocano insieme o per conto proprio, senza troppi schiamazzi. La figlia di due genitori molto adulti, almeno sui 40 anni entrambi, urla e salta dappertutto, senza che i due se ne curino più di tanto. Ha circa 4 anni, forse anche 5. La persona che io sto accompagnando, ripeto, di 74 anni, e con un tumore terminale, dice a voce alta: ”se questa bambina continua a urlare così, non sentiremo mai la chiamata dell’infermiera”. La madre della bambina a quel punto comincia a inveire all’indirizzo della persona, anziana e malata, a suo dire ”abusiva in quella stanza”, precisando che sua figlia ha tutto il diritto di urlare e schiamazzare quanto le pare, in quanto bambina. Non so se avesse ragione lei, se un malato terminale che non ha un altro posto dove sedersi in ospedale si debba considerare ”abusivo” in una stanza di bambini e se i bambini ovunque si trovino abbiano sempre il diritto di schiamazzare come se fossero al parco o in casa loro. So che i miei amici che vivono all’estero mi parlano di carrozze di treni o di sale d’aspetto in cui si riescono ancora a leggere dei libri o a conversare, perché i bambini non vanno in giro correndo su e giù per il vagone, magari urlando a squarciagola, ma vengono aiutati dai genitori a comprendere che gli spazi da dividere con altri vanno rispettati e non occupati o totalmente invasi. (Scusate se vado off topic, ma secondo me, come diceva qualche libro fa Aldo Nove, ”sono storie, sono urgenti, dobbiamo dircele”).

  32. Detesto le persone che accusano le donne che non desiderano figli di avere “qualcosa che non va”.
    Al tempo stesso, trovo insopportabile il tono della Aspesi, che deride senza ritegno il fatto che altre donne vogliano avere dei bambini (senza calcolare gli uomini, che possono volerlo o non volerlo allo stesso modo), raffigurandole come creaturine grottesche che si affannano a ottenere il pupattolo per ricavarne l’agognato riconoscimento sociale. Arriva a vette di retorica conformista (le mamme che fanno i papà, i papà che fanno le mamme) che da lei non mi aspettavo, e addirittura esalta il sano ceffone educativo, manco fosse la Santanché.
    Molto diverso è l’atteggiamento di Michela Marzano, molto più condivisibile il suo articolo.

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