Questa discussione che prosegue, sugli Stati Generali dell’Immaginazione, vede ora l’intervento di Giuliana Misserville, già apparso su Leggendaria. “E la narrativa riesce a artigliare un pezzo della nostra anima per portarci a riflettere o si balocca con altro? Perché, come già sosteneva Valerio Evangelisti, solo la fantascienza sembra ancora, oggi come allora, in grado di farsi carico della responsabilità di raccontare il passaggio epocale che stiamo vivendo, affondando le sue trame nelle ambiguità in cui ci dibattiamo”.
Al solito, ogni ulteriore contributo è benvenuto.
Fuori dalle riserve, per nuovi immaginari
Forse mai come nel periodo 2019-2021 in cui il Covid 19 ha falcidiato milioni di vite umane, le persone di ogni continente si sono rese conto di quanto potesse essere fragile la condizione della specie umana. E, al tempo stesso e per cause interconnesse, di come il nostro uso dissennato delle risorse del pianeta e l’aumento della popolazione mondiale aprissero una strada senza ritorno. Eppure continuiamo a bruciare combustibili fossili, a mangiare carne prodotta in quei lager che sono gli allevamenti intensivi, a produrre quantitativi incommensurabili di rifiuti che non riusciamo a smaltire, a fare guerre reali e culturali in nome dell’etnia diversa, del genere e del diverso orientamento sessuale, a pensare di poter fermare le migrazioni, a lucrare su chi meno ha e può, trasformando in merce anche la speranza. Un film come Don’t look up mostra, egregiamente, le contraddizioni in cui ci dibattiamo e la tentazione sempre presente di portare a bilancio tutto e sempre, anche la fine annunciata.
E la narrativa come si rapporta a tutto ciò, riesce a artigliare un pezzo della nostra anima per portarci a riflettere o si balocca con altro? Perché, come già sosteneva Valerio Evangelisti[1], solo la fantascienza sembra ancora, oggi come allora, in grado di farsi carico della responsabilità di raccontare il passaggio epocale che stiamo vivendo, affondando le sue trame nelle ambiguità in cui ci dibattiamo. Science fiction soprattutto nella sua evoluzione di narrativa speculativa, o per dirla con Laura Pugno[2] territorio selvaggio, inaddomesticato, in cui la letteratura diventi uno sguardo in grado di metterci davanti immaginari nuovi, perturbanti, per cui approntare nuove categorie di pensiero.
Del resto, i territori selvaggi sono spazi popolati dalla destabilizzazione del mostruoso, territori che, come sottolinea Nina Ferrante sulla scorta di Paul B. Preciado, ci permettono «di entrare in contatto anche con la parte imperscrutabile e intollerabile del nostro desiderio». Per riconsiderare il nostro posto nel mondo – terrestri tra terrestri ci suggerisce Carla Benedetti – insomma per farla finita con l’uomo vitruviano, per dichiarare morto l’antropocene.
Anche Donna Haraway si e ci rivolge alla fantascienza per sviluppare trame che raccontino un diverso rapporto tra creature umane e non umane in un pianeta infetto. A rischio di saltare nel vuoto, invertire tutte le rotte e come suggeriva Ursula Le Guin lasciarci alle spalle l’abisso dell’inquisitore[3], la trappola delle trappole costituita dalla scelta tra libertà senza felicità o felicità senza libertà, per un nuovo immaginario che ci consenta di danzare sull’orlo del mondo. Di un nuovo mondo, mi permetto di aggiungere.
La fantascienza, e nello specifico la fantascienza femminista, si è distinta come luogo di possibilità dove altri sistemi di vita, relazione, sopravvivenza vengono elaborati, dando vita a forme creative di sovvertimento del potere esistente. (Giada Bonu).
Parafrasando Haraway leggere dunque la fantascienza femminista come strumento politico per ripensare la realtà e rimodularla secondo criteri non identitari e legami e parentele non biologiche o binarie.
Anche la fantascienza italiana si sta muovendo, lentamente, in questa direzione non solo per quel che riguarda la riflessione critica ma per le narrative che vengono messe in campo. Nicoletta Vallorani, soprattutto, (che col suo ultimo romanzo Noi siamo campo di battaglia sembra guardare al queer come rivoluzione sociale necessaria, come argomentavo su Ghinea[4] di febbraio), sottolinea nel suo contributo a questa rivista da una parte la capacità della fantascienza di rompere gli steccati della narrativa di genere assumendo uno status letterario (e proprio Vallorani rappresenta questo snodo allorché Avrai i miei occhi arriva nel 2020 alla finale del Campiello e viene inoltre selezionato per il premio Napoli). Dall’altra il fatto che la fantascienza si proponga come portavoce di un sociale invisibilizzato che ha fatto della marginalità il suo punto di forza e favorisca l’entrata in scena non più solo delle donne ma anche di soggettività altre: «coloured, i poveri, i non normodotati, le persone non binarie». Soggettività che con le loro speculative fiction, escono dalle riserve comanche loro assegnate e sconfinano in territorio libero per appropriarsi e rivendicare la cittadinanza piena delle proprie storie. Con un effetto che si somma al momento assai stimolante che sta vivendo la fantascienza in Italia sul piano editoriale, per cui possiamo disporre delle traduzioni di testi provenienti anche da paesi lontani dal punto di vista storico e culturale con il risultato di allargare il respiro e mandare in soffitta l’idea di una letteratura bianca, eteronormata e neocoloniale[5]. Incrociando, intersezionalmente, i conflitti non solo di razza e genere ma anche quelli economici che rendono la violenza sulle donne e i femminicidi spesso un cortocircuito maledetto. La lotta contro il patriarcato che spesso troviamo nelle personagge della motswana Tlotlo Tsamaase, astro nascente della fantascienza africanfuturista[6], si concretizza in uno stile a volte ibrido che affronta la questione di come raccontare la violenza:
Racconto la storia come vuole essere raccontata. A volte con uno stile più tradizionale, altre volte in forma ibrida. La finzione diventa una metafora e un telescopio che ingrandisce la verità che a volte nella realtà non abbiamo occhi per distinguere (intervista di Giulia Lenti).
Non a caso Martina Del Romano, intervenendo sulla traduzione di testi queer, parla di una fantascienza in «tempestoso divenire» sottolineando anche quanto la fantascienza queer stia divenendo, faticosamente anche in Italia, una proficua nicchia di mercato e che questo boom, benché non altruista o disinteressato, evidenzi l’emergere di una necessità (finalmente) e costituisca ciò che lei chiama «un modo di far sentire la propria voce dai margini e proiettarla verso il centro, un piede nella porta, uno sgambetto alla narrazione dominante».
Che poi è assonante con la funzione che Angelica De Palo assegna alla fantascienza lesbica: «contronarrare extraterritorialità erotiche e sessuali, sentimentali, affettive ed esistenziali». Se nell’ultimo secolo la fantascienza lesbica ha veicolato critiche profonde alle ideologie tradizionali, non di rado è dovuta restare dietro le quinte mentre più di recente sembra voler conquistare la scena.
Strada intrapresa da sempre dalla fantascienza femminista, che ha contribuito negli ultimi anni (via Margaret Atwood e le sue ancelle) a risemantizzare il termine femminista tirandone via la polvere delle varie ondate che si era accumulata e regalandogli nuovo mordente. Se sul gradiente femminista di alcune autrici indaga Romina Braggion, Laura Coci racconta come per lei la memoria sia da considerare «soglia del presente» e come il suo esercizio di «strabismo positivo» le consenta di saldare la «genealogia fantascientifica femminile» con una «generazione di giovani donne che si infutura» (autrici queste, su cui si articola il testo di Nadia Tarantini), trasmettendo a noi il senso del percorso compiuto, in una sorellanza nella scrittura.
Sul senso e la necessità di rileggere i classici della fantascienza, mettendo in dialogo autrici e autori per verificare connessioni e influenze reciproche e talvolta sorprendenti, interviene Oriana Palusci, una studiosa che ci ha regalato testi fondamentali per la fantascienza delle donne e che ribadisce come l’ignoranza sulla scrittura femminile non sia più tollerabile.
A questi nuovi immaginari che stanno riempiendo gli scaffali delle librerie sta veramente stretta l’etichetta di narrativa di genere. Tanto più che in molti di loro, con efficacia e variegato valore letterario, si trova la narrazione reiterata da sempre e sulla quale nell’ultimo triennio ci siamo ritrovat3 tutt3: il confronto con la catastrofe possibile, l’addio alla terra e alla vita così come la conosciamo. Ma quale può essere il senso di tali narrazioni distopiche? A ragione Giulia Abbate lamenta un depotenziamento di questa «forma di fantascienza sociale e di controcultura, un tempo potente dispositivo al servizio della critica politica». Ora invece, prosegue Abbate:
La distopia è dunque appetibile non solo come animale da reddito, ma anche come arma ideologica, perché diventa funzionale allo status quo, da che dovrebbe rimetterlo in discussione.
Rifunzionalizzare la narrativa distopica, reinterpretarla come espressione della critica sociale di soggettività antagoniste al potere, rinvigorirla con una cura massiccia di utopia, di cui la distopia è sempre l’altra faccia e con la quale vive in perenne e ambigua tensione[7]. Non si tratta di rispolverare un facile o difficile ottimismo della volontà di gramsciana memoria, che a volte riecheggia in alcune storie solapunk. E’ che il cammino è incerto e di fronte alla catastrofe possiamo solo accettare il rischio del cambiamento indicatoci da Le Guin perché, come scrive Antonia Caruso nel suo ragionamento sulle connessioni e differenze tra fantascienza queer e queerness fantascientifica, «il meglio deve ancora venire». E se il meglio verrà sarà queer e femminista, sulla pagina e nella vita reale.
Bibliografia
Carla Benedetti
La letteratura ci salverà dall’estinzione
Einaudi 2021
Laura Pugno
In territorio selvaggio
Nottetempo 2018
Pp. 120, euro 9,50, kindle euro 5,99
Donna Haraway
Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto
Nero Edizioni, 2019
Ursula Le Guin
«Una visione non euclidea della California come luogo freddo», in
I sogni si spiegano da soli. Immaginazione, utopia, femminismo
Big Sur 2022
Pp. 245, euro 18,00
Giada Bonu
«Cosa può un immaginario. La fantascienza femminista nei movimenti contemporanei», in
Sister of Revolution. Letture politiche di fantascienza»
DWF 1-2, 2019
Pp. 119, euro 14,00
Antonia Anna Ferrante
Cosa può un compost.
Fare con le ecologie femministe e queer
Luca Sossella editore, 2022
Pp. 126, euro 10
[1] Valerio Evangelisti, Una narrativa adeguata ai tempi, 2000, in Le strade di Alphaville. Conflitto, immaginario e stili nella paraletteratura, a cura di Alberto Sebastiani, Odoya 2022.
[2] Nel suo saggio Laura Pugno non si riferisce alla fantascienza; e tuttavia trovo che la metafora del selvaggio da lei utilizzata sia assai appropriata anche per una discussione sulla fantascienza.
[3] Mi riferisco al saggio di Ursula Le Guin, Una visione non euclidea della California come luogo freddo. Per una discussione su questo saggio potete leggere se volete https://www.machina-deriveapprodi.com/post/in-cerca-di-altre-mappe-1-decolonializzare-la-fantascienza
[4] https://www.instagram.com/p/CpMm1NtsDf1/?hl=it
[5] Esigenza sulla quale si muovevano anche i contributi dello speciale «Pensare il futuro», in Leggendaria n. 124/2017 con interventi di Anna Maria Crispino, Federica Fabbiani, Sara Bennet, Bia Sarasini, Monique Laurent, Lidia Curti, Stamatia Portanova, Marina Vitale, Silvana Carotenuto e Antonia Anna Ferrante.
[6] Sull’Africanfuturismo potete leggere https://www.machina-deriveapprodi.com/post/in-cerca-di-altre-mappe-2-io-non-scrivo-afrofuturismo.
[7] Sulla mescolanza e le porosità tra utopia e distopia, si può leggere lo speciale «Mixtopia», in Leggendaria n. 143/2020, con contributi di Giuliana Misserville, Nicoletta Vallorani, Nadia Tarantini, Giulia Abbate, Sara Pollice, Marta Palvarini e Federica Fabbiani.