IL CORPO DEGLI ANNI OTTANTA

Continuando con le memorie giornalistiche, ieri riflettevo sulla ripubblicazione, grazie a Tlon, a Maura Gancitano e a Jennifer Guerra, de Il mito della bellezza di Naomi Wolf, che arrivò in Italia nel 1991 e che per molte di noi fu testo rivelatore. Ci raccontava come l’attenzione, nel decennio appena trascorso, si fosse inchiodata sul corpo e sulla necessità di renderlo il più perfetto possibile proprio per potersi affermare nel lavoro (o anche).
Come è cominciata? Appunto, in quegli anni Ottanta che oggi si celebrano con nostalgia in serie come The stranger things o in film come L’esorcismo della mia migliore amica, che raccontano alle ragazze e ai ragazzi di oggi com’era bello vivere a quel tempo. Bene, dai miei archivi del 2004 salta fuori questo articolo per Repubblica, che racconta altro.

“Per i distratti, o per chi volutamente ignorasse l’ esistenza di una meglio gioventù anche nei detestatissimi Ottanta, c’ è una mostra che si apre oggi alla Stazione Leopolda di Firenze, e che si può visitare per un mese esatto. Si chiama Excess – Moda e underground negli anni ’80, è stata voluta dalla Fondazione Pitti Immagine Discovery, curata da Maria Luisa Frisa e Stefano Tonchi ed è corredata da un robusto catalogo pubblicato in collaborazione con Charta. L’ idea, come fu lo scorso anno per l’ esposizione dedicata all’ adolescenza, è quella di cercare non tanto un’ impossibile sintesi, quanto alcuni possibili attraversamenti estetici che portino almeno ad una suggestione del passato recente. Per dire, fra le molte possibili icone cinematografiche, sono state scelte le due che rispecchiano l’ ambivalenza di quell’ ingombrante decennio: l’ American Gigolò che esaltava i muscoli levigati dalla palestra e ricoperti di bei tessuti e l’ oscuro e piovoso Blade Runner, cui si ispira apertamente la città fatta di containers che ospita gli oggetti, gli abiti, le immagini della mostra.
Le due facce, ovvero, degli Ottanta: per prima quella apparentemente più banale, con il culto narcisistico delle apparenze, le metropoli nevrotiche e bevibili come un aperitivo, e, insomma, quella «democrazia del frivolo» che trovò la sua definizione più resistente, «edonismo reaganiano» in un varietà televisivo (Quelli della notte). Poi quella più spesso lasciata in ombra, con la libertà pericolosa, ma irresistibile, di muoversi su territori di confine, di mescolare stili e appartenenze, il nichilismo punk con le avanguardie del Novecento, e di riportare il tutto su una passerella o in uno spot pubblicitario. Così come, nella mostra, saranno mescolati i nomi gloriosi del made in Italy a quelli dei grandi designer (da Ron Arad a Marco Zanini, passando per Sottsass e Starck) e di artisti come Leigh Bowery, Keith Haring, Robert Mapplethorpe, Pierre et Gilles, Andy Warhol, Bruce Weber.
Detto questo, bisognava trovare almeno un punto di vista per raccontare un decennio che si è aperto con la morte di John Lennon e si è chiuso con la caduta del Muro, affastellando al suo interno l’ aerobica e i graffiti, le giacche con le spalline e il pensiero debole, il ritorno della Barbie e la donna in carriera, le top model e il no future. E la prospettiva scelta è quella del corpo: Maria Luisa Frisa cita un sondaggio Makno dell’ epoca sul tema «corpo e seduzione», dove risultava che l’ 80% degli italiani considerava l’ aspetto fisico decisivo nella valutazione di sé e degli altri. Dopo anni arruffati e cerebrali, insomma, il corpo veniva vezzeggiato, scolpito, esaltato, accarezzato da abiti studiati per essere facili da portare e belli da guardare.
Nelle tre sezioni della mostra, «Superbody», «Transbody» e «Postbody», si passa dalla lettura postfemminista della giacca per signora (attraverso le immagini gemelle di Helmut Newton, «Sie kommen» Dressed e «Sie kommen» Naked) alla strategia del travestimento portata alla perfezione dalle due superstar pop dell’ epoca, Michael Jackson e Madonna. E, insieme, si presagiscono la futura smaterializzazione del corporeo che sarà del cyberpunk (ma i primi quattro romanzi di William Gibson vengono pubblicati proprio negli anni Ottanta) e la tragedia che incrinerà irreversibilmente la festa con la diffusione dell’ Aids. «La sua comparsa – scrive Carlo Antonelli nel catalogo – costringe la generazione festosa, orgiastica e bulimica degli anni Sessanta (ventenni quindi, trentenni, quarantenni e oltre di allora) a una spaventosa presa di coscienza». «Niente – annotava nel suo diario Derek Jarman – ci aveva preparato a questi giorni». Infine, a smentire ogni tentazione nostalgica cui, di questi tempi, sembra facilissimo indulgere, l’ invito dei curatori a leggere la mostra come un racconto dell’ oggi. Perché le tracce di quanto avvenuto, pensato, sperimentato vent’ anni fa, sono assolutamente presenti ora nel pensiero, nel sociale, nell’ arte. E, certo, in dettagli apparentemente di pochissimo conto come quei braccialetti punk che, guarda caso, sono appena tornati di moda”.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato.

Torna in alto