IL DOLORE NON E' QUESTO: LA VIOLENZA NON E' UNA QUESTIONE DI CONTABILITA'

In un bel giorno di maggio del 1976 Marco Pannella percorre i non molti metri che separano via di Torre Argentina, sede del Partito radicale, da via delle Botteghe Oscure, sede del Pci. Con lui un drappello di militanti. In mano ha una rosa. L’idea è quella, simbolica, di porgere il fiore come simbolo di non violenza ai compagni che quotidianamente critica e punzecchia. Come è noto, dal militante che apre il portone becca  una sberla. Poche ore dopo lo ascoltavamo parlare al telefono dicendo, col suo vocione: “La guancia mi fa male, ma il dolore non è questo”.
Il ricordo spunta fuori dopo un messaggio sms ricevuto ieri, dove si puntualizzava che no, la nostra non è una società violenta, o che cresce in violenza, perché i numeri ci dicono che semmai gli omicidi sono di molto diminuiti. Naturalmente è vero. Altrettanto naturalmente, credo che la violenza non sia, non solo, una questione contabile.
Quel che vedo, e che naturalmente non posso ridurre a numero in quanto non calcolabile, è di contro un aumento della violenza: verbale, magari. Perché anche i più miti, o quel che più miti si ritenevano, quando posano le dita sulla tastiera non riescono a trattenersi dall’esprimere pensieri violenti: non tutti uguali, certo. Non tutti si lasciano andare ad auspicare orrori e torture, oppure a dispensare battutacce che un tempo si sarebbero definite da bar salvo poi definirle esperimento sociale, come quel docente universitario che persino si sorprende della reazione collettiva. Questa non è violenza, si dirà. Questa è libera espressione del proprio pensiero. Certo. Non assimilabile, aggiungo subito, a un pestaggio, a un assassinio, a uno stupro. Qualcuno potrebbe spingersi ad affermare che proprio la possibilità di dare libero sfogo ai propri lati oscuri limita e diminuisce la violenza fisica.
Non ci credo.
Sono cresciuta in un altro modo, e in un altro mondo. Ho sempre ritenuto che la scelta non violenta fosse l’unica possibile, allora e oggi. Il che non significa essere miti e neanche buoni. Significa avere un’altra idea di convivenza sociale. Marco Pannella non è mai stato tenero con le parole: ma le sceglieva, eccome. Poteva esprimere concetti durissimi, ma aveva consapevolezza di quale potere le parole hanno. Mi piacerebbe che quella consapevolezza tornasse. Perché solo così si potrebbe sperare di contenerla davvero, la violenza, e non semplicemente di contarla, o di disperarci e indignarsi quando avviene, salvo dimenticarcene quasi subito.
“La violenza dell’oppresso, certo, mi pare morale; la controviolenza “rivoluzionaria”, l’odio (“maschio” o sartrianamente torbido che sia) dello sfruttato sono profondamente naturali, o tali, almeno, m’appaiono. Ma di morale non m’occupo, se non per difendere la concreta moralità di ciascuno, o il suo diritto ad affermarsi finché non si traduca in violenza contro altri; e quanto alla natura penso che compito della persona, dell’umano, sia non tanto quello di contemplarla o di descriverla quanto di trasformarla secondo le proprie speranze. Insomma, quel che vive, quel che è nuovo è sempre, in qualche misura, innaturale.
Perciò non m’interessa molto che la vostra violenza rivoluzionaria, il vostro fucile, siano probabilmente morali e naturali, mentre mi riguarda profondamente il fatto che siano armi suicide per chi speri ragionevolmente di poter edificare una società (un po’ più) libertaria, di prefigurarla rivoluzionando se stesso, i propri meccanismi, il proprio ambiente e senza usar mezzi, metodi idee che rafforzano le ragioni stesse dell’avversario, la validità delle sue proposte politiche, per il mero piacere di abbatterlo, distruggerlo o possederlo nella sua fisicità.
La violenza è il campo privilegiato sul quale ogni minoranza al potere tenta di spostare la lotta degli sfruttati e della gente; ed è l’unico campo in cui può ragionevolmente sperare d’essere a lungo vincente. Alla lunga ogni fucile è nero, come ogni esercito ed ogni altra istituzionalizzazione della violenza, contro chiunque la si eserciti, o si dichiari di volerla usare”.
Se la lotta rivoluzionaria presupponesse davvero necessariamente: morte di compagni, il loro “sacrificio” e questa esemplarità, la “presa” del potere; e, a potere preso, o nelle more della conquista, il ripetere contro i nemici i gesti per i quali io sono loro nemico, gesti di violenza, di tortura, di discriminazione, di disprezzo, consideratemi pure un controrivoluzionario, o un piccolo borghese da buttar via alla prima occasione”.
Il resto di quella meravigliosa prefazione per Underground a pugno chiuso di Andrea Valcarenghi è qui.

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