IL FILO INTERDENTALE DI DFW: PRENDERE PAROLA POLITICA

Dunque, non ho intenzione di reinfilarmi nella polemica su Propaganda. Altre hanno scritto meglio di me, in queste ore, sulla questione della rappresentanza e rappresentazione femminile. Sabato ho provato a porre, su Facebook, un’altra questione, non minore a mio parere, che riguarda l’autorappresentazione di chi usa parola pubblica e, certo, politica. La questione è enormemente complicata quanto sempre meno affrontata. Come si fa, specie in tempi come i nostri, sempre più divisi in gigantesche dicotomie, a far sì che le proprie parole non cadano nel vuoto, ovvero vengano fruite solo da coloro che sono d’accordo con noi? Mentre galleggiamo nelle nostre bolle, non riusciamo a permeare le altre. Vale per la rete, vale per la televisione, per i giornali. E cosa possono fare, nel caso, gli scrittori? Ora, sabato ho postato un frammento di una risposta di David Foster Wallace nell’intervista a The Believer nel 2003. Molte reazioni ricevute prescindevano da quel frammento ed erano di pura difesa, spesso indispettita, di Propaganda. Non voglio seppellire Cesare né lodarlo. Non mi interessa. Mi interessa, invece, provare a capire come NON ci si trasforma in feticcio. Come NON ci si trasforma in pulpito. E’ lo stesso discorso fatto  proposito di Fedez dopo il 1 maggio. Il che significa, semplicemente, essere della stessa idea di Zerocalcare quando, sull’ultimo numero di Internazionale, dice: “la politica la fanno le collettività, non i singoli”, e “se manca questo confronto col collettivo, per me significa che uno sta lavorando per il suo ego o per svoltarsi una posizione nel mercato dell’opinionismo”. E infine che “facciamo un lavoro che ha a che fare col linguaggio e l’immaginario. Pure se non ci pensiamo, contribuiamo alla formazione di idee, spunti, sentimenti”.
David Foster Wallace si pose il problema quasi vent’anni fa. Ecco la risposta lunga che affronta il punto, in quell’intervista. Secondo me è valida ancora oggi.
“La ragione per cui scrivere di politica è così difficile, è probabilmente anche la ragione per cui la giovane (posso ancora essere incluso in questo genere di predicato nominale?) letteratura dovrebbe occuparsene. Nel 2003, la retorica del fare impresa è tutta a puttane. Il 95% dei commenti politici, sia scritti che orali, è al momento inquinato da quello che si crede dovrebbe essere considerato politica. Il significato è diventato totalmente ideologico e riduttivo: lo scrittore/oratore ha certe convinzioni o affiliazioni politiche, e procede col filtrare tutta la realtà e far girare tutte le proprie affermazioni secondo queste convenzioni e legami. Tutti sono incazzati, esasperati e indifferenti al dibattito da un altro punto di vista. Per opporsi a opinioni che non sono solo scorrette ma spregevoli, corrotte, malvagie. I conservatori hanno una atteggiamento di questo tipo più spavaldo: Limbaugh, Hannity, quell’orrendo O’Reilly, Coulter, Kristol, ecc. Ma anche la sinistra è stata infettata. Hai letto quel nuovo libro di Al Franken? Alcune parti sono divertenti, ma in genere è così astioso (del tipo, come potrebbero reagire gli esperti di destra ai violenti attacchi di Franken se non con ancora più rabbia e veleno?). O dai un’occhiata anche agli ultimi articoli di Lepham su «Harper», o la maggior parte della roba su «Nation», perfino «Rolling Stone». È tutto diventato come Zinn o Chomsky, ma senza quell’immenso corpo di dati concreti a sostegno dei loro sermoni. Non ci sono più dibattiti (o “dialoghi”) complessi, caotici, estesi a un’intera comunità; si tratta adesso di discorsi politici fatti in maniera stereotipata in cui si predica al proprio coretto e si demonizza l’opposizione. Tutto è inesorabilmente bianco o nero. Siccome la verità è molto, molto, più “grigia” e complicata di quanto un’ideologia possa comprendere, tutta la situazione mi sembra non soltanto stupida, ma stupefacente. Guardare O’Reilly contro Franken è come guardare sport violento. Come potrebbe tutto questo aiutare me, il cittadino medio, a riflettere su scegliere chi debba decidere sulla politica macroeconomica del mio Paese, o anche solo per farmi capire a linee generali questa stessa politica, o su come ridurre le possibilità che il Nord Corea butti una bomba atomica sulla linea demilitarizzata e ci tiri dentro una straziante guerra all’estero. O su come fare per bilanciare la sicurezza nazionale con le libertà singole dell’individuo. Questioni come queste sono enormemente complicate, e buona parte di questa complessità non è affatto sexy e, beh, adesso il 90% dei discorsi politici è complice di quella sexy e semplicistica illusione secondo cui una parte è Unica e Giusta e l’altra Sbagliata e Pericolosa. Sicuramente è un’illusione piacevole, così come lo è credere che ogni persona con cui si è in conflitto è stronza, ma non conduce per niente a un pensiero concreto, a un dare e ricevere, al compromesso, o alla capacità che gli adulti hanno di funzionare in qualche maniera come una comunità. Il mio pensiero, forse un po’ utopico, è che siccome di solito gli scrittori di romanzi o di letteratura in genere sono persone con un particolare interesse per l’empatia, per provare a immaginare come sia essere l’altra persona, allora potrebbero giocare un ruolo utile all’interno di una dialettica politica problematica come la nostra. Se questo discorso non sussiste, forse dovremmo almeno elevare quei giornalisti politici di professione per farli diventare (1) educati, (2) desiderosi di prendere in considerazione la possibilità che delle persone intelligenti, ben intenzionate, possano essere in disaccordo con loro, e (3) capaci di tollerare che alcuni problemi vanno semplicemente al di là di quello che un’ideologia può rappresentare in modo accurato. Implicitamente in questa mia risposta, così breve e stridula, c’è l’idea che scrivere di politica dovrebbe essere platonicamente disinteressato, elevarsi al di sopra della massa, ecc.; e nella mia personale situazione questo è impossibile (e quindi sono un ipocrita, potrebbe dire un oppositore ideologico). Scrivendo l’articolo su John McCain che hai citato, ho visto delle cose (più precisamente: credo di aver visto delle cose) sul nostro presidente attuale, sulla sua cerchia, sulle primarie che hanno fatto, che hanno suscitato in me reazioni le quali hanno reso impossibile che mi elevassi al di sopra della massa. Io sono, al momento, un partigiano. Ancora peggio: provo una tale antipatia viscerale e profonda che sembra io non riesca a pensare, parlare o scrivere in maniera equilibrata e dettagliata sulla presente amministrazione. Per dirla in modo educato, credo che questa sia una condizione interiore pericolosa. Quando qualcuno si sente più forte, mosso a livello personale, allora più è tentato di dire la sua (“dire la sua” è l’attuale locuzione verbale per “fare una scelta”, così carica di retorica com’è). Ma è anche quando si è meno efficaci, o almeno così a me sembra. Ci sono un sacco di scrittori e giornalisti che “dicono la propria”, e scrivono di oligarchia, neofascismo e falsità e cecità terrificanti riguardo a quello che definiscono “sicurezza nazionale” e “interesse nazionale” ecc. Pochissimi di questi scrittori mi sembrano generare articoli utili o energici, o essere veramente persuasivi verso chi non condivida già le loro opinioni. Il mio piano per i prossimi 14 mesi è bussare a delle porte e riempire buste. Magari anche indossare la spilletta di qualche partito. Fondermi con gli altri in una massa demograficamente significativa. Provarci da matti per mettere in pratica pazienza, educazione e creatività con coloro con cui mi trovo in disaccordo. Anche usare di più il filo interdentale”.

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