Mettetevi comodi, perché il post è lungo. Il punto di partenza è uno status che a sua volta deriva da una trasmissione. Per chi detestasse andare su Facebook, lo riporto qui:
“Qualche tempo fa scrivevo da queste parti che era stato un gravissimo errore lasciare che il discorso sulla natalità fosse predominio di una parte politica o religiosa. Quel che accade oggi è che appena si affronta il discorso sui pochi bambini che vengono al mondo si viene accusati di essere Serena Joy. Ma l’errore che nel Racconto dell’ancella porta alla teocrazia è proprio non aver voluto vedere che il problema c’è.
Sono rimasta molto colpita dalla valanga di messaggi ricevuti oggi dopo due minuti di trasmissione che dava conto del calo di natalità (impressionante) nel nostro paese, e non solo nel nostro paese.
La stragrande maggioranza diceva una sola cosa: nel mondo siamo troppi, saremmo folli a voler fare figli. Come se la gravissima questione ambientale si risolvesse con l’autoestinzione, come peraltro più d’uno ha detto di desiderare.
Ora, c’è una quantità di motivi per cui le giovani persone non hanno figli: la scarsissima presenza di welfare serio per le madri (e per i padri, certo, ma sono quasi sempre le madri a pagare lo scotto in termini di lavoro e di tempo), l’incertezza economica, la precarietà.
Ma ho la sensazione che ci sia altro. Che ci si sia introflessi in noi stessi fino a non desiderare un futuro che non sia il proprio. Che, letteralmente, degli altri non occorre tener conto.
Di contro, mi sono stupita per chi sosteneva che abbiamo sostituito i figli con gli animali domestici: come se il futuro non prevedesse la convivenza tra umani e non umani. Come ci fosse una contrapposizione e non un’unione.
Insomma, non è ripetendo che siamo troppi che si affronta la questione, che è gigantesca: semmai è cercando di cambiare non il numero, ma il sistema che ha mostrato, più che crepe, voragini.
Qualcuno l’ha presa come un’esortazione a fare figli. Non è così. E’ che senza l’idea di futuro non andiamo avanti. E ho la sensazione che non ci interessi, appunto, quel che avverrà dopo la nostra morte.
Un ascoltatore mi ha gentilmente rimproverata perché ho detto che il mondo non finisce con noi: sono convinto, ha scritto, che il mondo finirà con me.
E’ molto probabile che sia così. Ma mi consola, e credo dovrebbe consolarci tutti, l’idea che dopo di me, di noi, ci saranno altri a camminare sulla stessa terra, e a immaginare bellezza, come milioni di altri prima di me, e di noi.”
Questo discorso viene da lontano, così come il rischio che stiamo correndo. Intanto, almeno da dieci anni il discorso sul materno è tornato rilevantissimo, senza però che venisse seriamente preso in considerazione. E’ come se, soprattutto da sinistra, si fossero fatte spallucce a livello culturale: non dico che non siano stati presi provvedimenti. Dico che si sono lasciate le madri, e i padri, praticamente soli. Volete mettere al mondo un figlio? Affari vostri, in soldoni. Il figlio veniva ovvero visto come una faccenda individuale e non comunitaria, per il semplice fatto che l’idea stessa di comunità stava scivolando via. E molto a lungo il discorso sulle madri è stato abbandonato da molti, moltissimi intellettuali.
E ancora: perché è diventato difficilissimo affrontare la questione senza che l’intervento venga preso come un’esortazione a riprodursi, o peggio ancora una colpevolizzazione? E perché, ancora, l’idea di un figlio viene vista come messa a rischio della sopravvivenza del pianeta, o non posso coesistere con l’idea della rete di cura fra non consanguinei (che è importantissima e che, infatti, porta di nuovo al concetto di comunità)?
Riporto qui il lungo commento lasciato al mio post da Maurizio Cassi, vecchia conoscenza di questo blog e statistico prediletto, che mi sembra centri perfettamente il punto. Evidentemente, occorre riprendersi il discorso, ampliarlo, affrontarlo senza tabù:
“Esito a commentare, perché temo di non essere la persona più adatta; come probabilmente non lo era l’ospite, che fa un mestiere simile al mio: noi quelle cose le guardiamo da un punto di vista che si sforza di essere razionale, cerchiamo di indagare le conseguenze prevedibili dei saldi demografici sull’economia e sulla società, ragioniamo in termini di PIL guadagnato o perso, di pensioni che potranno essere pagate in tutto, in parte o per niente, di scuola, di infrastrutture sociali. Ma è davvero questo il punto di vista di chi inneggia al calo demografico e si adonta con i giovani che magari lo vorrebbero anche, un figlio, accusandoli di contribuire al collasso del pianeta? Io non credo.
Dico da tanto tempo che queste reazioni devono essere spiegate dagli psicologi, dai sociologi, dagli antropologi; non dagli statistici come me o dai demografi come il professor Dalla Zuanna. Questa umanità invecchiata e incattivita mi pare perfino troppo brutta per essere vera, probabilmente reazioni così apocalittiche nascono da una grande sofferenza. Ma quale? Da non psicologo, non sociologo, non antropologo, tutto quello che posso azzardare è la spiegazione che tante volte abbiamo tirato in ballo per spiegare l’odio social: l’atomizzazone di una società che ci riduce alla dimensione di monadi, elementi che funzionano per se stessi (in realtà al servizio di un sistema troppo grande per poter essere davvero compreso), destinati a vivere e morire in sostanziale solitudine. Cosa accade alla società se all’improvviso tolgo la mia persona? Niente, continuerà a funzionare esattamente come prima. Questa irrilevanza è intollerabile forse per tutti, ma in alcuni genera una rabbia cosmica che non solo fa disperare del futuro, ma lo rende odioso. E quindi perché generare figli, perché generare futuro? Odioso è non solo il futuro in sé, ma anche chi si attiva per produrlo. E però diceva il mio professore di demografia: “quelli che dicono ‘siamo troppi’ intendono in realtà ‘siete troppi’, voi siete troppi”.
Nessuno di noi si sente di troppo, questa è una verità banale ma dirompente per le conseguenze che porta con sé: la mia irrilevanza discende direttamente dal vostro esserci, dal vostro occupare spazi che sento miei, dal vostro volume, dal vostro ingombro nella mia esistenza; e allora, se io non posso essere nessuno, perché altri dovrebbero poter essere qualcuno? Non generiamone più, di questi altri, e la si finisca qui: il mio fallimento diventi il fallimento dell’esperimento umano, un pozzo nero in cui il mio essere nulla si anneghi e si confonda in un annichilimento universale.
E ora, pagato l’obolo alla psicologia spicciola, per quanto inutile non posso non tentare di abbozzare il ragionamento razionale intorno a questo tema.
La denatalità non è una sciagura piovuta dal cielo, né il segno della decadedenza spengleriana dell’Occidente: è un portato prevedibile della civiltà industriale e post industriale in cui i figli, anziché essere le indispensabili braccia per coltivare poderi e portare animali al pascolo, sono un costo rilevantissimo a carico dei genitori; la riduzione della mortalità infantile, enorme conquista del secolo scorso, fa anche sì che non sia necessario generarne miriadi per garantire la sopravvivenza di qualcuno; e l’istituzione della previdenza sociale supera il ruolo della prole quale “bastone della vecchiaia”.
Detto questo, però, nessuna società dovrebbe scendere al di sotto del tasso di sostituzione (poco più di due figli per donna, in media) o alzare troppo l’età media al primo figlio, perché le conseguenze di questi fenomeni sono destabilizzanti: mancanza di lavoratori in età cruciali (tipicamente, tra i trenta e i cinquanta anni); eccesso di anziani che necessitano di assistenza in rapporto alla popolazione in grado di fornirgliela; carenza di innovazione; eccesso di risparmio a danno della spesa in beni e servizi e, quindi, a danno del lavoro. E tante altre cose che rendono la decrescita tutt’altro che conviviale, come vorrebbe Latouche (che però, in verità, si riferisce alla decrescita economica più che a quella demografica): si tratta di un avvitamento, un declino sempre più veloce verso una fine orribile, un mondo in disfacimento fatto di nuova povertà, di conflitti sociali e intergenerazionali, di rancori e solitudine ancora più esacerbata di quella che viviamo adesso.
La notizia è che non sto parlando del futuro: queste cose stanno già accadendo, sono qui, la carenza di lavoratori maturi c’è già perché la denatalità italiana è storia ultradecennale e se anche ci mettessimo, oggi, a figliare come conigli, non potremmo generare i quarantenni, i quarantacinquenni che ci mancano; prevengo la facile obiezione del “lavoro che non c’è neanche per quelli che ci sono”: il lavoro non è un giacimento che si trova nel sottosuolo, da sfruttare fino a esaurimento; il lavoro è qualcosa che si crea con l’innovazione, con la capacità di inventare cose nuove, di rischiare, perdere e riprovarci; tutte cose che non appartengono a un paese vecchio, povero di giovani come siamo diventati noi. Fossimo meno accecati, cercheremmo di correggere in ogni modo questa tendenza alla decrescita: sostegno alla genitorialità, congedi parentali, nidi, servizi per l’infanzia, mutui agevolati, quello che volete; ci faremmo carico, come società, di supportare chi vuole creare futuro e vita; non lo percepiremmo come un costo, si creerebbe una cultura che renderebbe inconcepibile licenziare una donna perché incinta, senza bisogno del controllo dell’ispettorato del lavoro.
E poi c’è l’immigrazione: lo stesso Dalla Zuanna, anni fa, pubblicò un libro (“Quello che non vi hanno detto sull’immigrazione”) in cui mostrava plasticamente, con dati inconfutabili, che nel Nord Est (l’area che aveva deciso di studiare) gli immigrati erano andati a turare esattamente i buchi della piramide demografica che la denatalità aveva aperto. Come pongo che si adatti a una struttura che si sta sgretolando, e la ripari.
In conclusione, è insostenibile tanto la posizione nichilista di quelli che voglio chiamare “estinzionisti conviviali” quanto quella arcigna del fascioleghista che vorrebbe costringere la gente a figliare con la frusta, purché si chiudano le porte all’immigrazione: non reggono all’analisi razionale dei fatti, sono entrambe foriere di catastrofi.
Ma, come si diceva in apertura, il fatto che stiano di fatto spingendo il mondo un passetto più in là sulla via della propria nullificazione per costoro è irrilevante: sono altre le urgenze, egoistiche, che li spingono a pensare e agire in un certo modo. E qui, di nuovo, invocherei la troupe dei psico-socio-antropologi per cercare di dipanare la matassa. Ma devono essere bravi, bravi davvero per capire cosa si agita nel profondo di certe psicologie e di certi movimenti di massa”.
Vorrei dire che frequentare luoghi come questo dove le persone hanno opinioni distanti dalle mie è comunque utile, e in generale è utile ( quando te lo permettono) confrontarsi e dialogare con chi ha opinioni diverse. Facile a dirsi… anch’io ho sempre apprezzato la scrittura di Maurizio ma glielo dico solo ora che sono d’accordo con lui.. e probabilmente non legge neanche più il blog.. Non importa, sono d’accordo anche con la Lipperini.. ma su quanto letto mi piacerebbe fare un osservazione sugli animali domestici, perché credo che effettivamente ci siano delle afferenze con la crisi di natalità e in genere sulla capacità di amare… Quanti sentiamo, dicono di amare gli animali, il proprio cane o il proprio gatto, ma vale la pena far notare che questo tipo di amore ( se è amore) è asimmetrico unidirezionale, non so come dire: per quanti “sacrifici” si facciano per portarli fuori, nutrirli curarli, queste azioni sono sempre “decise” da una parte c’è una gerarchia sottesa che permette di “programmare la convivenza e di scegliere come quando e quanto “investire nella relazione. Non cosi tra le persone, dove qualsiasi tipo di scelta deve essere condivisa e comporta delle “rinunce, perché amare questo significa, dare più di quanto vogliamo e soprattutto più di quanto possiamo. Sembra impossibile ma anche chi ha provato a fare qualcosa di creativo come scrivere o dipingere, sa che il lavoro è davvero riuscito quando il risultato supera le tue aspettative, hai fatto qualcosa di cui credevi non essere capace. Così quando si vuole davvero bene. Forse la crisi della natalità ha davvero qualcosa a che vedere con quella falsa idea di amore, per cui accettiamo solo ciò che è gestibile e programmabile, ma il futuro non lo è un figlio nemmeno e neanche noi stessi ma possiamo farcela. Olè!!!!
ciao,k.
Misericordia”, continuò, “è liberare le donne dal fardello gravoso di far nascere e allevare un figlio; che possano essere allegre e produttive finché possono, contribuendo al benessere dei loro datori di lavoro. Misericordia è impedire che i giovani creino famiglie, fonte di preoccupazione e disagio, e battersi perché si godano invece la loro incoscienza il più superficialmente possibile. Più a lungo resteranno irresponsabili meno soffriranno per colpa della responsabilità. Misericordia è procurare bambini a degli adulti perché possano sfogarsi, o giocare, o li possano comunque usare per alleviare le loro frustrazioni, di qualsiasi tipo esse siano. Misericordia è far sì che gli uomini non vedano il male nei loro simili, ma considerino tutti buoni, tranne coloro che impediscono loro di fare quello che desiderano