IL TELEFONO DI PAOLO FABBRI: UN RICORDO

Paolo Fabbri non è stato il mio professore, e se non ricordo male non ci siamo mai neppure incontrati di persona. Però ci siamo sentiti al telefono infinite volte, e anzi il suo numero era il primo che trascrivevo, prima sulle agende, poi sul cellulare. E gli volevo bene, e gli sono grata. Perché per me è stato importante quanto lo fu, per la me ragazza, Ida Magli e le sue lezioni di antropologia: sia che telefonassi a Paolo per chiedergli un commento per un articolo sui vampiri o un intervento sull’11 settembre o un racconto su Ariosto, lui c’era. E quello che diceva mi aiutava, mi aiuta, a guardare il mondo da una prospettiva a cui non avevo pensato. Dunque, sì, è stato un maestro, e rendo grazie per aver incrociato, sia pure da così lontano, i suoi passi qualche volta.
Quando lavoravo a RaiNet e dovevo gestire il canale cultura, che venne chiuso dopo pochi mesi perché il Net, il Web, all’epoca, non venivano giudicati compatibili con la cultura, gli avevo chiesto di scrivere per noi un testo a settimana, che registrava anche in audio. Molto è sparito, ma non i testi. Eccone uno: era il 2000 e, accidenti, quanto funziona ancora adesso, professore!
“L’Apocalisse è certamente uno dei libri meno conosciuti della nostra tradizione religiosa, anche se fa parte della Rivelazione. Perché non lo leggiamo? Forse per la lentezza della storia, forse perché siamo piuttosto distanti dalle immagini che propone e dai suoi angeli intenti a divorare libri cosparsi di miele. Truculenze a parte, l’Apocalisse porta nella nostra cultura l’idea di una fine desiderata. Perché tale è l’idea dell’Apocalisse: la fine del mondo è necessaria perché rinasca un nuovo mondo, un mondo trascendente a cui tutti dovremmo in qualche modo aspirare. Ne abbiamo paura? Certamente sì: in generale, la cultura contemporanea teme la fine. Anzi, la esclude: nemmeno la morte individuale, in una certa misura, viene presa in considerazione come esistente.
Bisognerebbe, a questo punto, tentare una piccola tipologia delle culture: alcune sono culture che cominciano, dunque mettono l’accento sull’origine (la fondazione della città da cui si svilupperanno, per esempio), poi puntano la storia a partire da questo episodio e non finiscono. Laddove l’inizio è messo in evidenza, cioè, non ci si cura troppo della fine. Le culture contrapposte sono quelle che non si pongono il problema di quando e cosa è cominciato: niente Big Bang, niente formazione dell’universo, niente apparizione dell’uomo sulla terra. Marcano soltanto la fine, vivono in funzione del Big Crunch.
Infine, esistono le culture più savie: quelle che concepiscono sia i miti dell’origine che i miti della fine. E dunque l’Apocalisse. Poi c’è la cultura contemporanea: assolutamente straordinaria. Infatti, non si preoccupa del proprio inizio (inducendo gli studiosi ad interrogarsi su quella che viene chiamata perdita di senso della storia), non si preoccupa della fine, rimuove l’apocalisse. Al punto che un uomo straordinario come Franz Kafka ha potuto scrivere che il giorno del Giudizio tutti aspetteranno il Messia: che però sarà in ritardo e arriverà probabilmente il giorno dopo.
Questa è la situazione in cui ci troviamo: ammettiamo di utilizzare toni apocalittici quando parliamo di un mondo che potrebbe avere una fine, ma questa fine viene sempre differita. L’Apocalisse, però, non finisce di morire: qualcuno ha scritto che l’arte era morta, qualcun altro ha detto che dopo Auschwitz non era più possibile fare poesia. Nonostante tutto, però, questi annunci apocalittici sono sempre accompagnati dalla continuazione della pratica dell’arte e della poesia. Questo significa che l’Apocalisse non ha fine. Dovremmo, allora, cambiarle nome. Chiamiamola Ipercalisse”.

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