Provo così, perché non è semplicissimo spiegare il mio stato d’animo di questi giorni: non riesco a essere sollevata, non del tutto almeno, e continuo a pensare alle parole che prima o poi dovremmo trovare per raccontare quello che ci è accaduto. Per “trovare le parole” non intendo la diaristica. Ieri leggevo “Wuhan, diari da una città chiusa” della scrittrice cinese Fang Fang, pubblicato in Italia da Rizzoli pochi giorni fa, e certamente ero coinvolta, ma allo stesso tempo mi sembrava che non ci fosse nulla di diverso da tutto quello che ho letto in questi mesi sui giornali, o sui social. E, attenzione, viene da una grande scrittrice, non c’è nulla di improvvisato. Ma è comunque un documento, insomma, una testimonianza importante che resta invece di scorrer via come tutte le cronache, ma non mi basta per capire cosa ci è avvenuto nel profondo. Ci vorrà certamente tempo, e infine le parole verranno: mi chiedo però quale sarà la forma, e quale strada troveranno, dal momento che, rispetto agli altri grandi traumi del nostro passato, siamo molto più immersi nelle parole stesse, siamo abituati a consumarle in modo vorace e a dimenticarle subito.
Ci pensavo ieri, quando l’amico Girolamo De Michele mi ha mandato un testo degli studenti del laboratorio di filosofia del Liceo Ariosto di Ferrara. Era la primavera del 2009 e Paolo Fabbri era andato a parlare di Ariosto, Calvino e dei tarocchi. I ragazzi ricambiarono, come leggerete. Dicono esattamente quel che sto cercando: un immagine che ci concluda.
“Per dire la vita, cioè le opere e i giorni, di Paolo Fabbri bisognerebbe possedere un’immagine che lo concluda. Potrebbe essere il Cavaliere di Spade, con la sua lunga penna pronta a vergare pagine su pagine. Ma un chierico piemontese [Papa] l’ha nomato Abbas Agraphicus: e senza penna non resteranno i calamai [10 coppe] pieni d’inchiostro? Il calamaio, come insegna Lutero [Re di coppe], può servire a scacciare il Diavolo [Diavolo]: ma col diavolo Paolo Fabbri deve aver stretto il patto dell’eterna giovinezza, nascondendo da qualche parte un ritratto ad invecchiare in sua vece. Come raffigurare allora questo sapiente [Eremita] incessantemente impegnato a decifrare i segni del mondo [Stelle]? Come [Re di denari] il padrone dei segni? Ma i segni sono infidi e ingannevoli [Matto], falsi come il denaro [7 denari]: di loro bisogna sempre diffidare. Ma se le cifre sono mutevoli, non sarà in metamorfosi anche l’immagine del decifratore [Bagatto]? Non sarà il decifratore stesso un’enciclopedia, una biblioteca, un inventario d’oggetti, un campionario di stili, [Mondo] dove tutto può essere continuamente rimescolato e riordinato in tutti i modi possibili [Ruota della fortuna]? Non occorrerà la sommatoria di tutte le possibili combinazioni dei tarocchi, maggiori e minori, per definirne l’identità? E dunque, non esistendo la Carta di tutte le carte, non resta che fargli dono dell’intero mazzo”.