ILLETTERATI D'ITALIA

Quando parliamo di democrazia, di democrazia della rete, quando rivendichiamo competenze nella scrittura vaticinando la fine dell’editoria e l’avvento di un meraviglioso Nuovo, magari ricordiamoci di questi dati. Alcuni nuovi, altri no. Ne parla Simonetta Fiori su Repubblica di oggi (grassetti miei). Non è un horror.
È esagerato sostenere che siamo un popolo di analfabeti? Immaginiamo di essere convocati da un’équipe di studiosi, davanti a noi un questionario da compilare sotto lo sguardo vigile degli esaminatori.
Livello uno. La prima domanda riguarda un certo farmaco: per quanti giorni al massimo è possibile assumerlo? Il foglio riproduce l’etichetta del medicinale, che indica con esattezza il numero dei giorni. Non ci sono altre informazioni: solo il numero dei giorni, niente altro.
Livello due. Questa volta bisogna scrivere che cosa accade a una pianta ornamentale se viene esposta a una temperatura minima di 14 gradi o meno. Basta leggere un brevissimo articolo, sotto il capitoletto Come curarla: «Se la pianta è esposta a temperature di 12°-14° perde le foglie e non fiorisce più». L’informazione è chiara, con la sola differenza — rispetto al livello uno — che è preceduta da un’altra notizia sulla pianta.
Livello tre. C’è una pagina di un manuale di biciclette e viene chiesto cosa si deve fare perché il sellino sia nella posizione giusta. La risposta è contenuta in un paragrafo intitolato Messa a punto della bicicletta. Non è la sola informazione contenuta nella pagina. In sostanza, si tratta di farsi largo tra quattro o cinque informazioni diverse e scegliere quella giusta.
Questi sono i test di «prose literacy» predisposti dall’inchiesta All (AdultLiteracyandLife Skills), un progetto di ricerca internazionale che ha sondato le competenze degli adulti tra i 16 a i 65 anni in sette paesi: Bermuda, Canada, Italia, Norvegia, Svizzera, Usa e Messico (2003-2005). Gli esiti dei questionari nel nostro paese? Solo il 20 per cento di italiani è in grado di superare il terzo livello, ossia mostra competenze sufficientemente sicure. Per il resto, il 5 per cento della popolazione non sa rispondere alla domanda sul farmaco, ossia non supera le prove minime di competenza. Quasi la metà degli italiani si smarrisce davanti alla pianta ornamentale, mostrando una competenza alfabetica molto modesta, «al limite dell’analfabetismo», recita il rapporto All. E il 33 per cento non è capace di sistemare il sellino della bicicletta, ossia denuncia «un possesso della lingua molto limitato». E le cose non vanno meglio nell’esecuzione dei calcoli matematici e nella lettura di grafici o tabelle: anche in quest’ambito l’80 per cento degli italiani fa molta fatica. Siamo un popolo di illetterati, che però non sa di esserlo. E forse non vuole neppure saperlo.
L’analfabeta del nuovo secolo mostra caratteristiche assai diverse dal più malmesso progenitore, che non sapeva leggere né scrivere. La versione più aggiornata può vantare una pur minima scolarizzazione — talvolta anche molto più che minima — che però è andata polverizzandosi nel tempo, spazzata via da crescenti difficoltà nella comprensione di un testo elementare o nella più semplice delle operazioni. Ma se un tempo l’analfabeta assoluto era disposto anche ad uccidere pur di nascondere la sua vergognosa condizione, l’illetterato contemporaneo galleggia nella totale incoscienza, includendo nel proprio status categorie sociali al di sopra di ogni sospetto, anche felicemente confortate da buoni redditi. Un’illusione di civiltà destinata tra poco a essere infranta dall’Ocse, che renderà pubblica in ottobre la grande inchiesta internazionale sull’Italia (per la prima volta inclusa la popolazione immigrata) e altri ventiquattro paesi, tra Europa e America, Asia e Australia.
Le anticipazioni certo non rallegrano. L’indagine pilota promossa da Piaac-Ocse conferma l’alto tasso di illetteralismo italiano — più o meno i recenti dati All riportati sopra — ma con un nuovo rischio rispetto al passato, ossia la minaccia che il fenomeno possa drammaticamente contagiare le nuove generazioni. Il rapporto reso ora pubblico dall’Isfol — realizzato tra aprile e giugno 2010 e con un valore ancora parziale — ci dice in sostanza che, oltre al tradizionale serbatoio di pensionati e casalinghe (attenzione: non vecchietti e vecchiette, visto che il target va dai 16 ai 65 anni), la fascia più vulnerabile è quella che include i disoccupati dai 26 ai 35 anni. Finita la scuola, le competenze tendono a diminuire, specie quando non vengono avviati nuovi processi di apprendimento legati al lavoro. E l’analfabetismo di ritorno minaccia di inghiottire le leve più giovani, proprio quelle a cui è affidato il futuro del paese.
Ma chi sono gli illetterati italiani? E dove si concentrano? Lo zoccolo duro coinvolge le fasce anagraficamente più elevate, distribuito soprattutto nel Mezzogiorno e nelle isole, nei piccoli centri più che nelle grandi città. Ma le inchieste condotte da Vittoria Gallina — la studiosa che con pazienza certosina da oltre dieci anni monitorizza il popolo italiano — ci dicono che gli analfabeti di ritorno si annidano anche tra i piccoli imprenditori del Nord Italia, in Lombardia più che in Piemonte. E se la Campania è certo più in basso rispetto alla media nazionale, l’operosa Padania non si innalza più di tanto dalle cifre della vergogna italiana, che nelle zone industrializzate si concentra tra disoccupati e operai con le mansioni più basse ma non esclude i padroncini di aziende con qualche dipendente.
Anche un’inchiesta del Cede di qualche anno fa disegnava il profilo dell’analfabeta benestante, con un reddito personale superiore a 40 mila euro e proprietà di famiglia oltre i 140 mila. Persone che vivono come una minaccia l’invito allo studio perché non ne avvertono la necessità. Una tendenza che viene favorita dalla tecnologia, soccorrevole nel colmare — e dunque nel nascondere — le enormi lacune degli italiani somari. Non siamo più in grado di leggere una mappa stradale o di fare un calcolo? Navigatore e calcolatrice sono lì per aiutarci. «Il benessere economico ti risolve ogni problema», sintetizza Arturo Marcello Allega, autore del documentato saggio Analfabetismo. Il punto di non ritorno (Herald Editore). «Se devo far dei conti, vado dal commercialista. Se devo evadere il fisco, mi consulto con il mio notaio. E per i documenti mi rivolgo a un’agenzia di servizi. Questo è il nuovo modello di adulto e di felicità». Che si realizza però quando il reddito lo consente. E l’illetteralismo — ci aggiornano i sondaggi ai tempi della crisi — è un impedimento gravissimo, non più tollerato da una società complessa.
Il nuovo analfabetismo «funzionale » ci riporta a quel 70 per cento di analfabetismo assoluto che segnò il principio della nostra storia nazionale, miracolosamente battuto nell’arco di un secolo e mezzo. Un trionfale grafico dell’Istat disegna il crollo dai livelli altissimi del 1861 — 80 per cento per le donne, 70 per cento per gli uomini
— all’attuale uno per cento. Sembra definitivamente archiviata l’immagine del contadino che firma tracciando una croce. «Ma è molto difficile che un vero analfabeta ammetta di esserlo», obietta la professoressa Gallina, propensa a contenere gli entusiasmi. «Più verosimile che tenda a nasconderlo, affidando ad altri la compilazione del questionario». La letteratura gialla è ricchissima di omicidi perpetrati da analfabeti disposti a tutto pur di celare la propria condizione. Qualche anno fa il linguista Massimo Vedovelli si prese la briga di catalogarli e nella gran parte della storie — da Ruth Rendell a Bernard Schlink — l’analfabetismo assurge a generatore di morte, non solo e non tanto individuale ma del sistema sociale.
Quello di nuovo conio è invece socialmente accettato, anche perché protetto dall’inconsapevolezza. Chi è analfabeta di ritorno, in altre parole, ne è serenamente ignaro, condividendo la sua condizione con l’80 per cento della popolazione. Un’emergenza alfabetica causata anche dalla limitatezza della scolarizzazione in Italia: nel 2002, il 63 per cento con più di 15 anni aveva ancora al massimo la licenza media. È questo il dato che trasforma in patologia un fenomeno regressivo comune alla quasi totalità dei paesi avanzati. A ricordarcelo è Tullio De Mauro, lo studioso che più di tutti ha fatto della battaglia all’analfabetismo una missione civile e culturale. «Nel nostro paese», denuncia sulla rivista Il Mulino,«ai residuimassicci di mancata scolarità si sommano fenomeni di de-alfabetizzazione propri delle società ricche». La sua sintesi induce allo sconforto. «Solo una percentuale bassissima di italiani è in grado di orientarsi nella società contemporanea, nella vita della società contemporanea, non nei suoi problemi». Un grave deficit che è anche un limite nell’esercizio di cittadinanza, e dunque un temibile avversario per la democrazia, inspiegabilmente ignorato dalle nostre classi dirigenti. Quando non viene cavalcato con lucido discernimento.
Naturalmente c’è anche chi sta peggio di noi, ma per trovarlo bisogna volare in Centro America. È lo Stato di Nuevo León, in Messico. Noi e loro, gli ultimi della classe.

39 pensieri su “ILLETTERATI D'ITALIA

  1. Ora, molto probabilmente sarò anch’io parte di quella schiera di analfabeti di ritorno, ma penso che tanto non sappiamo leggere quanto non sappiamo scrivere, perché “Se la pianta è esposta a temperature di 12°-14° perde le foglie e non fiorisce più” non è chiara per nulla (bisogna salire o scendere di temperatura? Se uno non ne sa nulla di coltivazioni, è legittimo dubitare, d’altra parte se ne sapesse non leggerebbe il foglietto), e “Messa a punto della bicicletta” non si può sentire proprio. Scrivere e leggere sono due facce della stessa medaglia, con la differenza che per scrivere – talvolta, ancora – si viene pagati, dunque scrivere meglio, please, per far sì che la gente legga meglio.

  2. Scrivere meglio, certo. Scrivere meglio tutti. Ma è un gatto che si morde la coda (o un cane, o quel che volete): si scrive meglio quando si legge meglio. E se – come detto in altri post – il linguaggio dei libri per ragazzi sta precipitando verso il basso da anni, complici i personaggi-brand tanto carucci e tanto alla moda, da dove si riparte?

  3. Io sarei per la riproposizione del Nanni Moretti di Palombella Rossa: “chi parla male pensa male, e chi pensa male vive male”. Leggere, parlare, scrivere: la possiamo declinare in qualsiasi modo. Non è vero che il reddito basti a compensare le insufficienze cognitive, una volta fonte di vergogna e oggi, invece, da molti baldanzosamente ostentate. Non si può “vivere bene” senza essere capaci di decodificare il mondo intorno a te, e probabilmente anche il benessere economico è destinato a liquefarsi nel giro di qualche anno, o di una generazione al massimo. Perché in un ambiente di crescente complessità è inevitabile che venga spazzato via chi non sa muoversi con la necessaria fluidità. Secondo me non saper leggere bene denota innanzitutto confusione nei propri schemi mentali. Le persone che conosco e ho conosciuto che si trovano in questa condizione mi hanno sempre colpito per una evidente incapacità non tanto di risolvere i problemi, ma di formularli correttamente. Sono vittime inconsapevoli di una atrofizzazione delle capacità logiche. Non sono un esperto e mi piacerebbe avere il conforto di qualcuno che ne capisca di più, ma volevo condividere questa mia osservazione.

  4. Mi è scappato un pezzo di commento, lo incollo qui.
    Un altro punto, che qui purtroppo Simonetta Fiori tocca solo di striscio, è l’analfabetismo quantitativo, che è alla base delle favole tragiche che stanno affondando questo disgraziato paese. Se la gente sapesse far di conto capirebbe dove sono i problemi reali e non correrebbe dietro a Grillo, che sta facendo credere a un intero popolo che avremo tutte le risorse che ci servono rendicontando le spese di cancelleria degli onorevoli e chiudendo il ristorante di Monte Citorio. E non sarebbe corsa dietro a Berlusconi, che per vent’anni ha potuto promettere quello che non c’era proprio facendo affidamento sulla totale idiosincrasia degli italiani per i numeri. Allergia alla quale, purtroppo, non è immune nemmeno la stessa Simonetta Fiori, che dice: “nel 2002, il 63 per cento con più di 15 anni aveva ancora al massimo la licenza media”. Ora, se il diploma si prende a 18 anni, che senso ha includere nel campione quelli che di anni ne hanno di meno?

  5. Bellissima domanda irrisolvibile, forse. Io partirei da quella vecchia cara cosa che si chiama ‘professionalità’, o se vogliamo ‘maestria’, di cui anche lei tantissime volte si occupa qui. Insegnare a leggere, a scrivere, nel lavoro degli insegnanti, degli educatori, dei genitori e in generale degli adulti quando si parla di bambini, ma poi degli scrittori, dei giornalisti – che spesso e volentieri non sanno scrivere – degli autori, dei traduttori, quando si parla di tutti. Siamo messi così male in quanto a capacità di lettura perché siamo un popolo di scribacchini e di insegnanti che non educano, ma istruiscono e basta (quando va bene). Ripartiamo dai mestieri, la strada è lunga, ma io non ne vedo altre, per ora.

  6. Ok, la frase non sarà chiarissima, ma se hai comprato una pianta ornamentale che deve stare sempre AL DI SOTTO dei 12 gradi, l’unica cosa che ci puoi ornare è il frigorifero.

  7. I miei figli hanno 3 anni e mezzo, quindi non posso parlare per esperienza diretta, ma mi dicono amiche con figli alle elementari che le verifiche didattiche consistono ormai solo in batterie di quiz a risposta multipla: totalmente assenti i temi (se non su scaletta preimpostata), i riassunti (scritti e orali) e tutti quegli esercizi che creano le fondamenta per l’analisi di un testo. Questo mi spaventa molto, perché se fin da piccoli non si danno gli strumenti critici, altro che analfabetismo di ritorno, dal mio punto di vista siamo all’analfabetismo di partenza…

  8. Sicuramente il problema di chi scrive è molto grande, e molto articolato, oltre a quello di chi legge. Come al solito la regola dovrebbe essere: dovrebbe capirci anche la nonna. Però, a furia di adattarci al livello della nonna, questa non innalza il proprio livello di comprensione, e quello globale invece si adatta al suo, il che è una tragedia.
    @Federica: non bisogna nè salire nè scendere. 12°-14° gradi.

  9. Confesso che la prima cosa che mi è venuta di pensare è che un italiano “normale” (scusate le virgolette, ma sono volute) per sistemare il sellino della bicicletta non usa le istruzioni, maneggia un po’, lo aggiusta in un batter d’occhio e se ne è già andato quando il cretino che si ferma a leggere le istruzioni è ancora a metà del prezioso fogliettino. Gli italiani fanno quel che devono fare, soffrono, battagliano, si arrabattano e, sì, purtroppo credono che leggere e studiare siano una perdita di tempo. Eppure è colpa nostra, di quei tanti laureati con la puzza sotto il naso nei confronti degli analfabeti, di quelli che si scandalizzano dell’ignoranza altrui, che quando vanno a fare i professori si accontentano di fare il minimo indispensabile per portare i soldi a casa e non cercano di vivere le passioni e di comunicarle. Parlo della passione per Dante Alighieri, per la poesia, per l’umanità e la sua storia. Perdonatemi la tirata, ma io insegno in una scuola serale. Non so voi.

  10. Nelle sue accurate analisi, De Mauro segnala che una chance per risalire la china sarebbe una rete attiva di educazione degli adulti. Posso fare un confronto tra la realtà campana (la provincia di Benevento), dalla quale provengo, e quella toscana (la provincia di Pistoia), nella quale vivo e lavoro da diversi anni. Sembrano due paesi diversi, perché diverse sono le scelte politiche che sono state fatte per tenere elevata l’alfabetizzazione e il livello culturale dei cittadini, senza voler idealizzare per questo la realtà della Toscana, che pure non è affatto rose e fiori. Però. Però la differenza è enorme. Volevo poi segnalare una questione relativa alla scuola elementare e alle difficoltà di comprensione del testo che vedo talvolta nei miei alunni e alunne. Non è un problema da poco e c’è molta inquietudine tra le insegnanti sull’origine di questa difficoltà. Il prossimo anno io riprendo la prima elementare e con le mie colleghe stiamo già progettando un lavoro sulla comprensione dei testi molto più forte di quello fatto fino ad ora, perché bisogna anche mettersi in discussione come scuola. Però vi invito a pensare che non è solo un problema didattico, ma educativo, e imprescindibile dal contesto. I bambini e le bambine si stanno abituando ad una letteratura “per loro” livellata verso il basso, ai 10 secondi massimi di attenzione sul web, a giochi e cartoni animati molto meno “narrativi” che in passato. Su questo bisognerebbe ri-saldare la collaborazione tra scuola e famiglia.

  11. @Pina: mi fa molto piacere leggere del tuo/vostro impegno nella scuola elementare e sono d’accordo che si tratti di una questione educativa e non solo didattica. Il punto, però, è che dovrebbe esserci una convergenza famiglia-scuola che purtroppo spesso non c’è. Se le mie amiche passano le serate a far scrivere temi ai bambini o a far ripetere la lezione “con parole loro” (che a quanto pare i figli non trovano) è perché le scuole dei loro figli non forniscono strumenti adeguati; di contro, sono consapevole che nella maggior parte dei casi nessuno sforzo didattico potrà colmare un eventuale vuoto culturale presente nella famiglia. Come se ne esce? Non lo so, ma considerati gli ormai costanti tagli alla scuola pubblica (e in generale l’inesistente politica culturale da parte dello Stato) non mi aspetto certo una soluzione di tipo, appunto, politico. E a proposito di politica e della sua classe, francamente non ne posso più del turpiloquio continuo: anche questo, è a mio avviso (e cito anch’io il morettiano “le parole sono importanti”), spia e segnale di un degrado ben più profondo, di un declino delle capacità logiche e argomentative per cui gli unici strumenti che restano sono quelli dell’insulto e dell’aggressione verbale.

  12. a me sorge un dubbio, forse stupido. È possibile che alcuni di coloro che hanno fallito il test avrebbero forse potuto superarlo, se ci avessero tenuto abbastanza? (In fondo non credo che i quiz della patente siano più comprensibili e meno arzigogolati, e saranno pochi quelli che li svicolano passando a suon di mazzette). Cioè, è possibile che qualcuno si sia banalmente rifiutato di fare uno sforzino in più, trovando la cosa insulsa? Rientrerebbe nel disprezzo del lavoro intellettuale citato dall’articolo.

  13. Secondo me Pina ha detto una cosa giustissima sui prodotti editoriali per l’infanzia. Voglio fare un esempio: i miei coetanei conosceranno la collana per l’infanzia de I quindici. Nel volume ” fiabe” troviamo le classiche (Esopo, Grimm, Andersen); ma anche Kipling, Tolstoj, Gozzano, Calvino, Rodari.
    Anche nelle riduzioni il linguaggio è ricco e curato, e anche un adulto può leggere trovandolo piacevole. Ogni fiaba è illustrata con uno stile diverso, dal collage al dipinto alla foto ecc.: sfogliando questo singolo volume si incontra quindi un mondo di grandissima ricchezza e varietà.
    E’ un altro pianeta rispetto alle raccolte di fiabe che ci arrivano in casa oggi (ho tre figli, 7 anni il maggiore): tranne edizioni “di nicchia”, invece della ricchezza e della varietà si punta sul rincorrere e imitare ciò che ha già successo, sulla riconoscibilità di personaggi e illustrazioni (molti tratti da cartoni animati o giocattoli), sul “facile”, pagine appariscenti, inzeppate di colori (che non costano niente), e testi poveri e banali.

  14. Loredana, hai messo una bella apertura a questo post. Per non dimenticare che chi non valuta attentamente e non considera fondamentali questi dati, fa una grave ingiustizia verso tutti coloro che sono stati (e sono) in un certo senso, ‘vittime’ dell’analfabetismo, di ritorno o meno. In realtà questo problema ha fottuto tutti indistintamente (ma qualcuno può sempre trarre soddisfazione dall’essere ‘di nicchia’ con le proprie competenze intellettuali). Chi non ha mai vissuto il ‘rendersi conto’, la sorpresa benefica della consapevolezza ottenuta con la propria mente istruita e allenata, non capisce quanta sofferenza – non solo danno – può provocare l’ignoranza. Indubbiamente molti rimangono a lungo serenamente ignari…fino a quando? E tutti i danni indotti da questa situazione, lo sfacelo che si ripercuote a cascata…quindi sì, questi dati colpiscono, ma
    quel che conta è quanta democrazia in meno porta con sé ogni piccolo, invisibile gradino verso il basso.

  15. Sono insegnante nelle scuole superiori e chiedo ai miei alunni di leggere molto e scrivere molto: mi sono sentita chiedere da qualche genitore se non poteva fare “qualche bel test a crocette” in modo che i figli potessero alzare la propria media.
    Christabel

  16. Aggiungo la mia modesta voce di maestra (sfinita).
    Lavoro da 14 anni nella scuola primaria e sono testimone diretta del declino inarrestabile e tragico cui è soggetta. E’ un declino generato non solo dai tagli devastanti di risorse economiche, non solo dalla svalutazione politica e sociale del ruolo che riveste, ma soprattutto da una lenta, sottile, morbidamente ostinata deriva culturale che la porta ad essere nozionistica e performativa, concentrata a quantificare obiettivi e risultati, ossessionata da verifiche e controlli, programmi e pagine di insulsi sussidiari che abbondano di fate e draghi e maghetti per inseguir le mode del momento. Le scelte politiche hanno un peso enorme ed ovvio.
    Ma sono le pratiche ad essersi totalmente inquinate e rassegnate. Anche alla primaria, che era il nostro vanto nel mondo.
    In un bellissimo articolo pubblicato da ReteScuole (se qualcuno volesse approfondire questo è il link: http://www.retescuole.net/contenuto?id=20121101122928), la maestra Claudia Fanti dice: “Al mondo dei centri commerciali, dei giocattoli usa e getta, dei video game, del tutto e subito, quel mondo che vede bambini trascinati come valigette a correre per le corsie di un supermercato ideologico, va opposto il mondo della “passeggiata” rilassata fra le cose, quella che sa guardare in alto verso il cielo o il mare azzurro e ancora chiede perché sia azzurro, e lo indaga tramite le scienze, le poesie, la letteratura, la filosofia, la storia, la geografia, l’arte, la musica, il racconto…”
    Solo che quella della passeggiata oggi è fantascuola e puoi incaponirti a farla, se sopravvivi agli strali di genitori e, purtroppo, colleghe.
    Annita

  17. Loredana mi scuserà la pedanteria, ma proprio non ce la faccio a non fare quella che in questo contesto è niente più che una puntualizzazione. Sì, perché come non essere d’accordo con chi solleva la questione fondamentale della perdita di autonomia e capacità critica sempre più rapida indotta dall’analfabetizzazione che avanza? Come non essere d’accordo con il passo riportato qui sopra da Annita: “Al mondo dei centri commerciali, dei giocattoli usa e getta, dei video game, del tutto e subito, quel mondo che vede bambini trascinati come valigette a correre per le corsie di un supermercato ideologico, va opposto il mondo della “passeggiata” rilassata fra le cose, quella che sa guardare in alto verso il cielo o il mare azzurro e ancora chiede perché sia azzurro, e lo indaga tramite le scienze, le poesie, la letteratura, la filosofia, la storia, la geografia, l’arte, la musica, il racconto…”.
    E però. Possibile che anche in questo passo così lirico, e in tutti i vostri interventi così puntuali, appassionati, densi di competenza e di professionalità quando a scrivere sono degli insegnanti – e qui non sono pochi; possibile che mai, ma proprio mai, emerga l’incultura (antica, questa) rispetto al sapere quantitativo? Parliamo, giustamente, di poesia, letteratura, racconti, narrazioni… qualunque cosa, ma mai di numeri. Ve lo chiedo: vi pare davvero così veniale, così lieve, così ininfluente la titanica ignoranza delle materie quantitative che dai tempi di Croce e Gentile affligge gli allievi delle scuole italiane di ogni ordine e grado? Non ne voglio fare neppure una questione pratica (e sì che ce ne sarebbero tutti i presupposti, nel giorno in cui Grillo proclama che esistono le risorse per abolire non so quale tassa, ben consapevole che nessuno gli farà le pulci agli sballatissimi conti); ne faccio, come per la poesia, la letteratura e tutte le altre arti, una questione di bellezza. Chiunque abbia minimamente approfondito la matematica, la fisica o altre materie quantitative sa leggere la profonda eleganza di queste creazioni della mente umana: perché accettiamo supinamente che questa bellezza ci venga sottratta da un insegnamento sciatto e poco appassionato, da risorse declinanti e dalla nostra stessa ignavia? Non saper leggere è grave, non saper fare le divisioni è pure grave. La nostra vita pubblica offre da sempre uno spettacolo desolante che è possibile soprattutto perché la maggior parte delle persone non approccia i problemi del vivere comune con spirito scientifico e con i mezzi che quello spirito ci rende disponibili; con il metodo di Galileo, che non a caso Calvino definì il più grande scrittore italiano di sempre. Perché a quel tempo (quello di Galileo, intendo) era ancora chiaro che il sapere è uno, umanistico e scientifico insieme, anche perché l’umanesimo è stato anche (se non soprattutto) scienza. E quindi lo chiedo soprattutto a voi, insegnanti che siete intervenute e intervenuti qui: possiamo davvero continuare a ignorare, nelle nostre preoccupazioni, l’analfabetismo scientifico e matematico? Mi piacerebbe, a margine della discussione principale, conoscere le vostre opinioni.

  18. Non riesco a vedere questo fenomeno in relazione alla preparazione della scuola dell’obbligo. Non nella misura diretta per cui si legge poco perchè nelle scuole si fa leggere poco. Tendo invece a pensare a una forbice sempre più ampia e sempre più allarmante tra saperi strutturati e quotidiano, per cui i saperi sono letti come braccia armate delle leggendarie kaste. L’indagine mi sembra sinistramente apparentata con le vicende tipo quella della piccola Sofia, dove i media le iene e quant’altro, hanno colpevolmente cavalcato malcontento e ignoranza, diffondendo l’idea che si possa valutare per esempio l’opportunità di una cura medica, evitando di capire cosa dicono i saperi su quelle cure mediche. L’italiano che non guarda il libretto di istruzioni, che se la cava sempre alla bell’e meglio, sancisce un divorzio definitivo con il sapere, e in generale rinuncia a una linea di continuità con le classi alte dello società, forse perchè l’ascensore sociale si è rotto. A scuola un sacco di gente aveva fatto invece il suo dovere – ma il brutto è stato quando la scuola l’hanno finita.

  19. Maurizio, hai ragione, credo almeno – sai che sono dovuta andare a controllare bene cosa sono le materie quantitative? ;-))

  20. la cara, vecchia retorica di sinistra che cerca sempre di minimizzare le differenze tra nord e sud in nome del volemose bbene dalle Alpi alle Piramidi. i dati ci dicono che in termini di capitale sociale il Nord è superiore al Sud praticamente in tutto, ma siccome al Nord (soprattutto in Lombardia e Veneto) ci sono tanti elettori di destra allora si cerca di dipingerlo come un posto popolato da burini.

  21. Ho la terza media e lavoro in fabbrica da quando avevo sedic’anni, mi sento dunque in dovere di fare il difensore degli illetterati, dellla dignità e del Valore di chi non riesce ( e nemmeno ha voglia..) di affrontare “i test davanti alle equipe di scienziati “. Parlo di dignità, che quella vabbè è propria di ogni essere umano, ma anche di valore, si , Valore dell’illetteratezza, perché la realtà, (qualsiasi sia l’opinione della “equipe di scienziati” che ci vuole analizzare) non è lineare come qualcuno vorrebbe illuderci , le intelligenze sono sempre state diverse, per cui non è detto che quello in grado di fare l’analisi grammaticale dei libretti delle istruzioni, sia poi capace di riparare la bicicletta con la gomma a terra o far crescere bene i pomodori nell’orto. certo le intelligenze non si escludono, si può saper fare l’uno e l’altro, magari. ma al contrario di quanto esprime l’articolo, credo che sia quest’ipertelia linguistica, la prima responsabile della eventuale limitata comprensione della realtà; blogs e facebucs stanno qua a dimostrarci di quanta bella gente col cervello infarcito di opinioni originali e corrette, sia magari incapace di riparati l’avvolgibile di cucina, ma peggio ancora ( qui sta il peggio) incapaci di vedere la sofferenza e i bisogni di chi gli sta vicino; quello da stigmatizzare maggiormente è proprio questa stupida associazione tra cultura ed etica, come se lo scrittore dovesse essere per forza moralmente superiore al raccoglitore di aranci. per dire, uno dei più grandi letterati italiani è stato D’Annunzio.. mentre invece conosco tante persone che non hanno mai letto un libro in vita, eppure intelligenti, capaci, svegli, buoni, in cui per es. i giudizi sulla condizione attuale politica economica dimostrano una consapevolezza di certo non inferiore a quella dei blogger alla moda, eppure non leggono gli editoriali di repubblica o del corriere. perché in ogni persona c’è una precomprensione della realtà, diciamo una saggezza che non ha niente a che fare con le strutture logiche grammaticali dei libri e dei libretti delle istruzioni. Forse ’origine del fallimento della scuola sta proprio qui, negli obiettivi sbagliati più che nei risultati scadenti.
    eppure le conclusioni di questa ricerca saranno lo stesso strumentalizzate per fare i soliti peana sulle maggiori “risorse per la scuola ” per l’editoria o per la cultura da festival, per qualcun’ altro potrebbero essere infine dimostrazione della necessità di un energica rasoiata.
    Buona Pasqua a Tutti.
    ciao,k.

  22. K, hai nobilitato coloro che fanno statistiche al rango di scienziati. Per me la statistica non è una scienza, anche se ho paura che ormai siano in pochi a pensarla come me (sento già le batoste per il mio commento):))

  23. Non te la prendere, Maurizio :))
    Mi viene da considerare la fisica e la chimica come scienze, la matematica come una poesia e la statistica, per smorzare un po’ il principio assolutista che ho espresso nel mio commento, la considero più come una “scienza” non esatta. Però ti assicuro che considero seriamente i dati statistici e che li uso per orientarmi ,) Ci mancherebbe!

  24. Davide, ma io dico sul serio: la statistica NON è una scienza, davvero. È un metodo che fa uso di modelli matematici e uno strumento di conferma e falsificazione a uso delle scienze vere e proprie. Tutto qui. Da statistico, questo mi basta e mi avanza.

  25. La statistica è una disciplina che fa uso di modelli matematici, appunto, come molte altre. La sua attendibilità è valutabile con opportune metodiche.
    A proposito d’ignoranza, può essere illuminante -per non rimanere alle generalizzazioni – qualche caso singolo.
    Questo l’ha raccontato Eco in una bustina di Minerva di due anni fa. Non riesco a rintracciarla e mi permetto di citare il post a commento, nel mio blog , pubblicato proprio il 1°aprile.
    http://virginialess.wordpress.com/2011/04/01/scuola-dei-nipoti-e-pesce-daprile/

  26. Lo so che è OT, ma non resisto. “La sua attendibilità è valutabile con opportune metodiche”. E come dovremmo fare per valutare l’attendibilità delle conclusioni di una disciplina che non fa praticamente altro che valutare l’attendibilità delle conclusioni di altre discipline? Ci serve una statistica al quadrato?

  27. Perché no, al cubo se occorre! Più seriamente, in relazione all’oggetto e al metodo dell’indagine, si ottengono, come saprà meglio di me, valori statistici più o meno attendibili.
    Tutto il procedimento è verificabile, mediante procedure anch’esse codificate.
    Giusto?

  28. Non proprio. L’unica verifica possibile, su un’indagine statistica, è quella a mezzo di un’altra indagine, pur sempre statistica. A parte ovviamente quella metodologica da parte di esperti, che potrebbero rilevare un uso sbagliato delle metodologie. Ma di verificabile in senso scientifico non c’è proprio niente: si può solo ripetere l’indagine alla luce di nuove informazioni, se ne arrivano, e cercare di capire se dei dati disponibili è stato fatto l’uso migliore possibile. Ma proporrei di lasciar perdere, non è questo il luogo di una discussione sulle metodologie, la nmatura e i limiti della statistica.

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