LA CANZONE DELLA NON APPARTENENZA

Goodbad Questa mattina Umberto Galimberti interviene  sul quotidiano a proposito della vicenda delle vignette danesi, in un articolo dal titolo “Ma il sacro esige rispetto assoluto”. Che, nella parte finale, dice:

«Gioca coi fanti e lascia stare i santi» dice saggiamente un proverbio popolare. Nel sacro, nel santo affondano, infatti, in modo pre-razionale, l´identità e l´appartenenza di un popolo. E proprio perché la matrice è pre-razionale non c´è argomento razionale che tenga.

Ora. Forse la mia memoria falla: ma mi sembra che su questi due punti, identità e appartenenza, si sia imperniata buona parte della discussione intellettuale e filosofica degli ultimi quindici anni. Laddove quello che appare, e forse è, il mio chiodo fisso della non-appartenenza, sembrava essere garanzia di libertà individuale (sbaglio ancora, o l’appartenenza veniva-viene?-identificata e definita come uno degli strumenti principi di quello che si chiamava-chiama?-potere?). Sempre se i ricordi non ingannano, mi sembra che una grande scrittrice come Anna Maria Ortese, in una intervista della fine degli anni Novanta, difendesse “l’eresia” del non appartenere (ad una nazione, ad una fede).

Chiaro, le cose cambiano.  Oggi a difendere quell’eresia scendono in campo gli scienziati. Per esempio, nella prefazione a Il matematico impertinente, Piergiorgio Odifreddi scrive questo:

Nel 1848, mentre un impertinente spettro si aggirava per l’Europa, il Vocabolario di parole e modi errati dell’Ugolini dichiarava: "Impertinente, per non appartenente, non può dubitarsi che non sia buona voce; ma siccome nell’uso più comune si adopera impertinente per arrogante e insolente, conviene essere molto cauti nell’usarla nel primo significato".[…] Considero l’impertinenza come un buon modo, e a volte l’unico possibile, di affrontare i problemi in maniera pertinente. Soprattutto in campi come la politica e la religione, in un periodo storico che potremmo descrivere come l’era delle "tre B": che non stanno a indicare, come nei tempi andati, il trio Bach, Beethoven e Brahms, bensì la triade Bush, Berlusconi e Benedetto XVI. Io sento l’impertinenza nei confronti loro e dei loro seguaci come un imperativo morale e civile, in entrambi i sensi dell’Ugolini. Anzitutto, come non appartenenza a una visione del mondo ispirata dalla certezza che, per dirla nella lingua del nuovo papa, Gott mit uns, "Dio è con noi": meno che mai quando questa certezza rigenera mostri che credevamo ormai definitivamente scomparsi, dalle guerre imperialiste alle crociate integraliste.

Non è la prima volta che qui si parla di passi indietro: della storia e del pensiero. Lo ha fatto Umberto Eco, in un’altra prefazione (al suo libro A passo di gambero – Guerre calde e populismo mediatico).
Lo ha fatto, in un recente intervento televisivo, Paolo Fabbri:

Siamo in un’epoca revisionista, sotto tutti i punti di vista. Ad esempio, abbiamo una sconsiderata passione per il passato, una tendenza a giudicarlo, e anziché pensare che uno dei modi di usare il passato è quello di dimenticarlo, e che forse aprire l’avvenire è solo possibile una volta che si è messo da parte il passato – era l’idea delle avanguardie del secolo scorso -, oggi la fine del futuro fa sì che abbiamo una straordinaria passione per il passato.

Dunque? Dunque niente e soprattutto niente di nuovo. Chi frequenta questi paraggi sa che vi serpeggia il timore, non ingiustificato, che di questo passo (di gambero o altra creatura) toccherà riprendere le fila di vecchi discorsi: lo si sta già facendo, in altro ambito, su questioni politiche e sociali relative a diritti dati per conquistati. Magari, uno di questi giorni, ci si ritroverà in pieni anni Sessanta, nelle atmosfere-tanto per restare nei dintorni di Eco-di Apocalittici e integrati. E toccherà persino tornare a difendere un old medium come la televisione (per il suo essere mezzo, non per i singoli contenuti) da qualche attacco di chi in essa vede  ancora il male assoluto (beh, esagero: mi sembra difficile che persino il gambero possa arrivare a tanto).

14 pensieri su “LA CANZONE DELLA NON APPARTENENZA

  1. Dal Corriere della Sera di oggi:
    “V irginia Woolf concluse la sua attività di scrittrice domenica 8 marzo 1941, venti giorni prima di togliersi la vita, parlando di merluzzo e di salsicce. Le ultime parole del diario che compilava nella quotidiana mezz’ora dopo il tè lasciano «a bocca aperta» se si pensa al ritratto che della scrittrice emerge dall’appassionato film «The Hours», ovvero quella di una straordinaria ammalata capace di gesti autolesionistici e in disperata ricerca di un amore che, in realtà, non sapeva riconoscere quando c’era. «Tenersi occupati è essenziale. E ora, con un certo piacere, mi accorgo che sono le sette e devo preparare la cena. Merluzzo e salsicce. Credo sia vero che, scrivendone, ci si renda in qualche modo padroni del merluzzo e delle salsicce». Una frase nemmeno troppo da «Desperate Housewives». Eppure, dopo il merluzzo venne la fine. Della scrittura e della vita. Non è che una nuova pubblicazione del «Diario di una scrittrice» (minimum fax, pp.466, 12,50) – raccolta parziale degli appunti quotidiani pubblicati in prima edizione da Leonard Woolf otto anni dopo la scomparsa della «Signora Dalloway» – possa rivoluzionare l’interpretazione della Woolf, ma consente di ristudiarne la sua figura collocandola nelle dinamiche di una paziente borderline”.
    Forse finiremo i nostri giorni pure noi parlando di merluzzo e salsicce.

  2. … ahi, finirà che l’Islam – assolutamente incapace di comprendere la nostra modernità (che non sarà l’unica, ma è la nostra…) – con la sua esuberanza demografica ci spazzerà via…
    è un peccato, perché mi sembra una cultura con poco senso dell’umorismo…
    sarà una noia mortale

  3. Ahi, tocca stare, come sottintende Massimo nel suo blog, con il cattolico Givone e non con il laico Galimberti.
    La gamberitudine avanza.

  4. Altrettanto banalmente, a me vengono in mente gli spazi nomadi e le singolarità mobili di cui parlava Deleuze. Sono distratto io o di Deleuze non si parla più, o se ne parla poco?

  5. Givone lo definirei filo-cattolico, tutt’al più. Comunque meglio lui che Galimberti, per la banale ragione che Givone ha cose da dire, Galimberti è una vita che rimastica sempre i suoi primi libri, che erano divulgazioni di altri libri (scitti meglio): chissà perché leggere Anders provoca quest’effetto di coazione a ripetere in forma involuta, invece di aprire la mente? Chissà…
    @Iniuria
    hai ragione due volte: tutto il post di apertura della Lipperini potrebbe essere glossato con passi del cervello collettivo Deleuze-Guattari. Ed è vero che se ne parla poco, e spesso male: il più delle volte si rimasticano termini come “singolarità”, “imprevedibilità”, “nomadismo” solo per vedere l’effetto che fa (un po’ come Tognazzi con “antani” e “supercazzola”). Anche dell’uscita dell’Abecedaire in italiano si è poco parlato. Così va il mondo: a passo di gambero. Però, sottotraccia, Deleuze-Guattari continua ad essere pensato (ad esempio dalle parti di Rekombinant).

  6. Leggendo l’articolo di Galimberti ammetto di avere provato disagio. Insieme alla gamberitudine c’è l’avanzata dei “laici/atei devoti”. Che ci sia una corsa al centro anche fra gli intellettuali?

  7. Cara Loredana,
    perdonami se mi autocito, ma la seconda poesia del mio libretto Corpo esposto ha questo incipit: “Reclamo la mia inappartenenza / il barbaro richiamo senza terra / l’accoglienza al vento che devasta / e libera presenza”. A suo tempo ho rivendicato l’inappartenenza come principio ontologico, in un dialogo con Massimo/Azioneparallela (il dialogo – con il titolo Lezioni di anarchia 1 – si trova su http://www.millepiani.net, nella sezione ‘materiali’ ).
    Però io credo che se a sollecitare in appartenenza è chi non cessa di rivendicare la propria identità – e, peggio ancora, non cessa di farlo da posizioni di forza -, allora il suo scopo non è quello di far disappartenere per inappartenere, bensì semplicemente quello di annichilire l’identità altrui per imporre la propria.
    Occorrerebbe insomma tornare a ragionare marxianamente, ovvero materialisticamente. E ricordarsi, magari, del telegramma di Ems, dell’onore identitario offeso che fece erompere in un sol grido, A Berlino! A Berlino!

  8. Piuttosto d’accordo. Quasi ogni discorso mannaggia non faccio che finirperdire ovunque, con parole sempre diverse magari,
    Che occorre non appartenere neppure alla non appartenenza.
    Che anche ogni nome è un adesivo.
    Che persino la lotta è un tipo (dunque sbagliato) di riconoscimento (dunque sbagliato) di una qualche forma di “avversario”.
    Che le violenze sono figlie delle bibbie.
    (Mi autocito anch’io. Ma non appartengo a me.)
    Offtopicgrandicomplimentia
    Loredana,
    prima volta che ci vengo (linkata da NI che invece frequento pure troppo),
    notte.

  9. La questione dell’Islam a me fa pensare una cosa sola: non conosco quel mondo se non attraverso le parole dette da altri o attraverso le immagini televisive. Non voglio scegliere se stare con il laico Galimberti o con il cattolico Givone…Voglio poter ascoltare, discutere, valutare le posizioni. Ed è questa la mia appartenenza, la mia radice comune…

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