Ma come è possibile che ogni cosa si ripeta, o sembri ripetersi, senza che abbiamo memoria di quanto è avvenuto, non dico ieri, ma una settimana fa, a meno che non sia la funzione Ricordi di Facebook a ricordarcelo, o un anniversario, o il doodle di Google? Come è possibile che siamo mutati fino a questo punto? Me lo chiedo ogni mattina leggendo i giornali, leggendo i social. E torno indietro di sedici anni, quando il mai abbastanza rimpianto Paolo Fabbri scrisse questo.
“Si è spuntata la freccia del tempo. Chi sa se ci sveglieremo domani e sarà domani? Io sospetto che quando ci sveglieremo domani sarà oggi, cioè l’oggi del domani. È che probabilmente il tempo futuro, che una volta ci aveva tanto attirati e che sembrava il posto in cui avremmo avuto voglia di andare tutti ad abitare, è un po’ in crisi. Oggi tutto sommato vogliamo stare nel presente. Certo, l’obiezione che si potrebbe fare è che il presente è destinato a passare per definizione, ogni presente diventa subito al passato, come quando ho detto qualche momento fa presente, era già passato. Sì, è vero, però quando si perde la prospettiva del futuro è difficile pensare al domani se non come un oggi che si ripete.
Così è quando si perde la capacità e la forza dell’utopia: si passa sconvolti dal presente al presente, dall’oggi all’oggi, e allora non c’è ragione che venga il domani.
Forse la freccia del tempo non si è spuntata, diciamo che si è distorta. Ma si è distorta male, perché una volta pensavamo che ci fosse prima il passato, poi il presente e poi si guardava verso il futuro, verso l’utopia. Forse non guardavamo bene, il modo giusto di fare le cose doveva essere diverso, dovevamo collocarci davvero nel futuro e mantenere la tensione del futuro, poi dal futuro si guardava al passato, si sceglievano le cose giuste in funzione dei progetti del futuro e poi si tornava al presente. Cioè la freccia del tempo dovrebbe cominciare dal futuro, tornare al passato e venire al presente, carico di un futuro che avesse avuto conoscenza del passato. Ma la freccia del tempo si è storta di nuovo e andiamo sconvolti dal presente al presente.
C’era una volta il piano quinquennale: una volta si poteva pensare addirittura per anni la nostra società e costruire, come in momenti orgogliosi del massimo del comunismo detto reale e realizzato, organizzare una società per addirittura cinque anni, cosa che a me sembra del tutto inverosimile, e che nell’epoca del presente generalizzato, del presente in tensione ci sconvolge. Allora la programmazione, che un tempo era una problematica di società, è diventata una problematica di computer: la programmazione è, molto semplicemente, il modo con cui il programma del computer organizza la nostra giornata prima che noi intraprendiamo le nostre attività. Allora la questione è entrata addirittura nel vocabolario quotidiano. La gente dice: “mi sono programmato” per fare questa cosa. E di colpo la nozione di programma che è stata perduta dalla società è stata interiorizzata dai soggetti per via di macchina. Quando diciamo “ci siamo programmati” diciamo, molto semplicemente, “stiamo solo eseguendo le istruzioni del programma inscritto nel nostro PC”.
Siamo in un’epoca revisionista, sotto tutti i punti di vista. Ad esempio, abbiamo una sconsiderata passione per il passato, una tendenza a giudicarlo, e anziché pensare che uno dei modi di usare il passato è quello di dimenticarlo, e che forse aprire l’avvenire è solo possibile una volta che si è messo da parte il passato – era l’idea delle avanguardie del secolo scorso -, oggi la fine del futuro fa sì che abbiamo una straordinaria passione per il passato. Evidentemente questa passione per il passato fa sì che abbiamo l’impressione di noi stessi come di “nani seduti sulle spalle dei giganti”. Nessuno pensa che sia possibile un gigante seduto sulle spalle di un nano, e quindi è impossibile che nel futuro ci siano giganti che stimino il passato come un mondo di nani. Il risultato però è che inevitabilmente si pensa il passato nei termini dell’età dell’oro. C’è stata l’età dell’oro, quella dell’argento, quella del ferro, e poi verrà anche l’età del piombo: gli anni futuri potrebbero essere di piombo, tanto è vero che si parla molto di declino: le culture finiscono quando non riescono più a pensare il futuro e l’utopia, per pensarci come società costantemente minacciata dal declino.
Lo zero è un’invenzione recente: i latini e i greci non avevano lo zero. Ci sono voluti gli arabi, alla fine del primo millennio, che hanno inventato lo zero e ci hanno permesso di far sì che quella cosa che sembra che non conti niente conti tantissimo: basta attaccare uno o due zeri (che sommati non danno nulla) a una cifra e passiamo da dieci a cento a mille. Nulla è più potente dello zero, che apparentemente non conta nulla e in realtà ha un valore di calcolo immenso. Una di quelle grandi invenzioni della matematica che ha un peso così grande… Zero ha la stessa radice di “zefiro”, che vuol dire “soffio”, e in arabo vuol dire semplicemente nello stesso tempo “vento” e “cifra”, lo zero è per definizione la vera cifra. Così siamo oggi nel valore dello zero ma, più che nella cifra moltiplicante, nello zero alito e vento. Pensate alla “tolleranza zero”, allo “sviluppo zero”, al “grado zero” della politica”.
Intuiva bene l’importanza dello zero Trilussa, quando nel 1944 scrisse la poesia “Nummeri”
– Conterò poco, è vero:
– diceva l’Uno ar Zero –
ma tu che vali? Gnente: propio gnente.
Sia ne l’azzione come ner pensiero
rimani un coso voto e inconcrudente.
lo, invece, se me metto a capofila
de cinque zeri tale e quale a te,
lo sai quanto divento? Centomila.
È questione de nummeri. A un dipresso
è quello che succede ar dittatore
che cresce de potenza e de valore
più so’ li zeri che je vanno appresso.
Un saluto