Una tazza azzurra con una bambina, un unicorno e un arcobaleno: troppe cose, è vero, e per molti anche risibili. Ma era una tazza per bambini, o per adulti che ancora indulgono a certe dolcezze, ed è stata molto amata e poi dimenticata. Dal nulla, però, mi è tornata in mente ieri: come ho fatto a non ricordarmene?, ho pensato. Era di mia figlia bambina, forse piaceva più a me che a lei e si è catapultata dal buio della dimenticanza insieme a una biscottiera bianca con il coperchio rosso finita chissà dove, che ricordo di aver comprato in un pomeriggio d’inverno a Centocelle, passeggiando con mia madre. Mi ero appena sposata e le passeggiate con mia madre per via dei Castani, guardando vetrine e comprando piccole cose inutili, erano faccenda preziosa.
Gli oggetti sono importanti per me. Non certo oggetti costosi: le piccole cose di ogni giorno, che hanno senso solo per me, perché hanno punteggiato la mia vita, e ognuna di loro ha una parte nella storia. Per questo, quando scrivo, scrivo spesso attraverso gli oggetti.
E in alcuni casi hanno una funzione magica, che gli spregiatori che ghignano o s’indignano quando si fa una concessione a quella che chiamano superstizione, non capiranno. Faccio un esempio. Pochi giorni prima dell’incidente a Lagna e di altre e contemporanee complicazioni domestiche, ho rotto una tazza da tè, che usavo la mattina per bere il caffè della colazione: quella e solo quella, semplicemente perché l’amavo, con quei disegni indiani su fondo verde e un piccolo elefante con la proboscide alzata sul bordo interno. Una mattina, distratta e assonnata, ho centrato la sedia con la tazza piena, e addio. Mi era già successo anni fa (in quel caso facendole cadere addosso un piatto nel lavello) ma l’avevo ricomprata subito ordinandola in un negozio di Perugia.
Ora non era più disponibile. Non in quel negozio, non altrove, almeno in Italia. Ma mentre fronteggiavo i miei non lievi contrattempi, non ho smesso di cercarla, mese dopo mese. A metà dicembre l’ho scovata in un negozio di tè a Hof, in Baviera. Ho scritto al negozio (usando Google translate, non parlavano che il tedesco) e una settimana fa ho avuto la mia tazza, con una bustina di ottimo tè all’arancio in regalo.
Non che la mia vita sia improvvisamente rifiorita, ma io mi sento meglio: sapendo perfettamente che la tazza non ha poteri magici. Ma conterà per una storia futura, perché a ognuna di quelle piccole cose si lega un’emozione.
Non lo dico solo io. Lo ha scritto Shirley Jackson in Paranoia, dunque, almeno per qualcuno di noi, deve essere vero.
“Non ho alcuna pazienza per chi pensa che si cominci a scrivere quando ci si siede alla scrivania e si prende in mano la penna e si finisca quando si rimette giù la penna; lo scrittore scrive sempre, vede tutto attraverso una sottile nebbiolina di parole, crea piccole, rapide descrizioni per ogni cosa che vede, osserva di continuo. Così come un pittore non può bere il suo caffè mattutino senza notare di che colore è, uno scrittore non può vedere un piccolo gesto strano senza applicarvi una descrizione verbale, e non dovrebbe mai lasciar passare un istante senza descriverlo.
Una sera stavo giocando a bridge con un musicista, un professore di chimica e un pittore quando, durante una mano particolarmente tesa, una grande ciotola di porcellana che tenevamo sopra il piano è improvvisamente andata in mille pezzi. Quando ci siamo calmati, abbiamo riscontrato quattro reazioni completamente diverse. Io, guardando tutti quei frammenti sparsi, mi sono accorta per la prima volta di come una ciotola rotta possa diventare una metafora definitiva. Il professore di chimica ha osservato che qualcuno aveva vuotato dentro la ciotola un posacenere con una sigaretta ancora accesa, e naturalmente il calore aveva spaccato la porcellana. Il pittore ha detto che quando la luce colpiva i frammenti il verde della ciotola diventava più intenso. Il musicista ha constatato che la ciotola, rompendosi, aveva emesso un sol diesis. Poi siamo tornati alla nostra mano di bridge.
Un giorno avrò bisogno di quella ciotola rotta, lo so. Conserverò il ricordo dei frammenti sparsi sul pianoforte, e un giorno, quando vorrò un’immagine mentale di totale distruzione, quella ciotola tornerà da me, in un modo o nell’altro. Supponiamo, per esempio, che mi capiti di descrivere una casa distrutta da un’esplosione; la modalità della distruzione sarebbe diversa, ovviamente, però potrei ricordare i frammenti di quella ciotola che giacevano lì inerti dopo essere stati per tanto tempo una cosa sola e intera; nessuno di loro avrebbe ritrovato il suo posto, e la compattezza che li aveva tenuti insieme non esisteva più.
Supponiamo che voglia descrivere l’effetto di uno spavento improvviso: quando la ciotola si è rotta avevo appena giocato il fante di picche, e sono rimasta a guardare la carta per tre o quattro secondi, sconcertata, prima di riprendere fiato. Supponiamo che un giorno voglia descrivere il dispiacere per la perdita di un oggetto amato e prezioso; la mia ciotola verde non era particolarmente preziosa, se no non avrei lasciato che la gente ci svuotasse dentro i posacenere, però ricordo come mi sono sentita quando ho spazzato via i frammenti e li ho buttati nell’immondizia, quando li ho visti completamente distrutti.
Certo, l’atto di ricordare è già di per sé una cosa strana. Non pensavo a quella ciotola verde da settimane, finché non ho cercato un’immagine vivida per spiegare come qualunque oggetto sia un potenziale paragrafo per uno scrittore. È da un po’ di tempo che combatto contro uno strano effetto della memoria; forse se lo descrivo posso dimostrare più chiaramente cosa intendo quando dico che niente è inutile e niente va mai perduto”.
Buongiorno Loredana, penso che i piccoli oggetti abbiano una grande importanza nella nostra vita: ricordo, quasi con piacere, quando abbiamo disfatto la casa di mia madre e, con mia sorella e mia nipote, ci siamo divise piccole cose che avevano un significato particolare per ognuna di noi. Su questa onda perché non pensate di inserire, all’interno di “ Fahrenheit” un nuovo “ caccia agli oggetti” ?
Buona giornata.
Simonetta