LA DONNA NEL PICCOLO CASTELLO

Di questi tempi, quasi tutti scriviamo di noi stessi: direi fatalmente, e forse direi anche per fortuna: come diceva King, comincia da quel che conosci, ed è assai meno dannoso condividere un’esperienza invece di improvvisarsi virologi, biologi, medici, psichiatri, statistici, esperti in logaritmi (già). Dobbiamo, credo, prendere le misure del mondo partendo dalle nostre reazioni, e da qui provare a eludere i perduranti, ormai antichi narcisismi per provare a capire come procedere prima, come tentare di ricostruire poi. Al momento, almeno, non vedo altra possibilità, o quanto meno non la vedo per chi scrive e lavora coi libri. Troppa confusione sotto il cielo, mio buon Orazio, troppe contraddizioni, troppe verità contrapposte per fare altro.
Molti di noi pensano, in queste settimane, di essere stati felici senza saperlo, e di aver perduto, non si sa per quanto, quella felicità fatta di normalità: passeggiate, serate a teatro e al cinema, viaggi, festival letterari o anche sagre degli gnocchi con la papera per quanto mi riguarda, tuffi in mare, abbracci, abbracci, abbracci.
Penso che sia vero, e che al tempo stesso non lo sia. La mia memoria, che di questi tempi è abilissima a tirar fuori conigli dal cilindro e ricordi da sotto il tappeto, mi porge una giornata di maggio di trentaquattro anni fa. Una tavolata a una comunione, io incinta del secondo figlio che avrei perso come persi il primo, seduta vicino a mio padre, che ugualmente avrei perso entro i successivi quindici giorni. Ho scelto un vestito che non era adatto alla circostanza: un vestito nero con le perline, di seta, uno di quegli acchiappi che facevo allora nei negozi vintage, era degli anni trenta, era abbastanza largo per la mia pancia, ma certo non era primaverile, né tanto meno festoso. E’ che ho il pessimo dono di intuire le catastrofi: non nel dettaglio, evidentemente, ma nella forma di nuvolaglia nera che si addensa, e quella nuvolaglia la sentivo sopra la mia testa allora così come, confusamente, l’ho sentita nella pur bellissima notte di capodanno del 2020, in cima alle montagne, davanti al falò e con il vino caldo fra le mani, quando ho pensato, senza capire, che sarebbe stata dura. Fine della parte profetica, torniamo a quel maggio lontano. Ricordo di aver detto a mio padre, provando a scacciare la nuvolaglia, che avrebbe avuto un nipote finalmente e che si sarebbe divertito con lui così come si era divertito con me, e lo avrebbe amato come aveva amato me. Lui, che evidentemente condivideva con me il dono del presagio, mi ha guardato con i suoi bellissimi occhi grigi e mi ha detto: “Stavolta no, stavolta tocca a te”.
Così è stato. In quel terribile 1986 che si portò via mio padre e il secondo bambino,  avrei potuto lasciare che tutto mi schiacciasse, e certo ho pensato mille volte a una felicità perduta, a cose che non sarebbero tornate mai più e che non avevo capito quanto mi fossero care e indispensabili. Però è toccato a me, e ringhiando e incazzandomi e piangendo e scalciando alla fine sono andata avanti. Mio padre ha avuto due nipoti, infine, anche se mai li ha conosciuti, ma loro conoscono lui, dalle mie parole, e dal mio amore.
Serve, tutto questo? Oh, naturalmente no. Ognuno di noi ha storie simili e più dolorose da raccontare, e tanti giustamente lo fanno, perché questo è il momento non solo di ricordare quanto siamo stati felici, ma anche quanto abbiamo sofferto, tutte le volte che ci siamo piegati in due per il dolore, la paura, la sensazione di essere precipitati in un abisso senza possibilità di risalire. Eppure, siamo andati avanti. E, sì, siamo stati ancora felici. E, sì, lo saremo ancora, non sappiamo quando e non sappiamo in quale fin qui imperscrutabile modo.
Questo è quello che intanto posso offrire. Verrà il tempo in cui potrò offrire di più, e immaginare strade, nel mio piccolo, e tentare quelle astrazioni di cui molti sono portatori, quelle lucide analisi che però non riesco a percepire come lucide perché ci intravedo, dentro, la rabbia e la paura. Non sono affatto Zen, non interpello i Ching come Nobusuke Tagomi, il ministro del Commercio in The Man of The High Castle, non ho niente da insegnare a nessuno, sono lieta di ascoltare chi si sente in grado di insegnare qualcosa e al tempo stesso mi riservo di prendere con le pinze quell’insegnamento. Ho soltanto storie, per ora, quelle offro, quelle racconto.
Strani tempi, quelli in cui viviamo. Possiamo viaggiare dovunque ci piace, anche sugli altri pianeti. Ma per che cosa? Per starcene seduti un giorno dopo l’altro, mentre il nostro morale e la nostra speranza ci abbandonano.
Philip K. Dick, L’uomo nell’alto castello

2 pensieri su “LA DONNA NEL PICCOLO CASTELLO

  1. “Serve tutto questo? Naturalmente no” Naturalmente sì, cara Loredana, serve a far riemergere anche in chi legge ricordi senza nostalgia o rimpianto, ma con la dolente consapevolezza di aver vissuto.
    Sono in pensione dall’inizio dell’anno ma fino a novembre ho lavorato, come psichiatra, nel carcere di Piacenza.
    Adesso sono ad Aversa, tornata nel mio sud, a 20 metri da mia sorella dai miei amati nipoti? Chi avrebbe potuto immaginare la “fortuna” di tutto questo? Tornata a “casa”, vicina alla mia famiglia, lontana da una città che sta pagando un tributo altissimo al virus.
    Tutti i miei amici di Piacenza stanno bene e continuiamo, con Skipe, il gruppo di lettura.
    Ma vorrei raccontarle una cosa.
    Qualche notte fa ho sognato una psicologa con la quale lavoravo in carcere, l’ho sognata piangente. La chiamo, mi sono detta, mi ha chiamato prima lei, piangente, per raccontarmi di un dramma in carcere.
    Forse quando si è DAVVERO belle cose succede di avere premonizioni.
    Ed è molto zen

  2. È meraviglioso, è tanto, tanto; sinceramente (se di questi tempi è necessario esplicitarlo), mi rattrista tanto, tra l’altro.
    Solo poche parole e qualche lettera, dettate dal desiderio di compensare quell’enorme asimmetria tra chi riceve e chi dona (o, senza parafrasare, alcuni buffi pensieri che vorrei dirLe di persona, magari a qualche festival, pur con la mascherina, per provare a rubarLe un sorriso):
    Che forma meravigliosa ha la L maiuscola, stabile nell’andare avanti.
    Pupa mi ha fatto pensare a La casa con le luci, che avevo letto da ragazz(in)o: la morte è un po’ una presenza costante, anche se taciuta.
    È pur difficile fare stare tutta un’esperienza in un racconto, credo di non aver la minima idea di cosa significhi la perdita, anche se la mia compagna è passata per questa croce.
    Si, verrà il tempo.

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