Repubblica anticipa oggi parte dell’intervento di Michela Murgia in Parola di donna curato da Ritanna Armeni. Ve lo riporto.
Ho avuto la sfortuna di nascere quando il movimento delle donne non era più raggiungibile dalla mia posizione geo-anagrafica, se mai lo era stato. Negli anni ´80 l´eco delle voci femministe che invocavano rispetto e diritti si era già attenuata, mutando in discorsi complessi dentro stanze al di fuori delle quali lo si sarebbe udito in misura via via sempre minore.
La mia generazione intanto cresceva altrove, in un´altra ansa del tempo, attraversando la contraddizione senza riconoscerla. (…)
L´Italia era preda di una crescita economica ubriacante, che imponeva l´equivalenza tra vita e attivismo. Aprirono le palestre, perché il culto dell´efficienza aveva bisogno delle sue chiese. La produttività professionale divenne principio di senso, sfociando in arrivismo. Il benessere smise di essere uno stato dell´anima e divenne una merce acquistabile; la gioventù e la bellezza si scoprirono valori etici e il consumo assurse al rango di scopo finale dell´orgia sociale che fu quel decennio. Quella narrazione di mondo, benché profondamente mortifera, non aveva né poteva avere modelli di rappresentazione per la morte, se non in alcuni filoni di controcultura di nicchia. Il femminismo, se aveva riflettuto di morte, non ce ne aveva lasciato eredità. Restavano solo le collaudatissime traduzioni sociali degli imprinting religiosi del cattolicesimo, per i quali la morte è la conseguenza di una colpa ontologica. Una colpa, a voler essere precisi, tutta della donna.
(…) Per la donna c´era anche un´esplicita condanna a vita, alla vita, quella altrui a costo della propria, in una riproduzione compulsiva senza risparmio né possibilità di scelta. È stato così per secoli, finché le lotte femministe non hanno fatto a pezzi l´icona della donna fattrice. Gli anni 80 tradussero questo risultato civile in una rinuncia alla riproduzione tout court, perché la manutenzione ossessiva di sé sembrava già più che sufficiente.
Il debito ancestrale femminile non si può tuttavia eludere così. Aver stabilito che il dare la vita è una scelta e non un obbligo non cancella la colpa: la donna che non dà la vita resta in ogni caso un´addetta obbligata ai suoi aspetti problematici, quelli che più strettamente confinano con la morte: la malattia, la vecchiaia, la fatica e il dolore. È della natura femminile prendersi cura, dice la vulgata dell´unico paese d´Europa dove la donna è un ammortizzatore sociale; ma è solo un altro modo per ribadire che i difetti della vita sono i confini stessi della nostra colpa ontologica, l´unica che non sarà dimenticata in una civiltà che dell´oblio di sé ha saputo far cultura. Se dunque non vogliamo dare acriticamente la vita, occuparci del suo limite non solo è oblazione dovuta, ma va vissuta con l´aggravante paradosso di «non poter morire» a nostra volta, giacché non ci è permesso consumarci con dignità mostrando il nostro tempo. Non possiamo neanche invecchiare. Per questo di una donna che non nasconde i suoi anni si dice che sia «poco curata», rivelando come la «cura» in un mondo come il nostro non sia altro che la negazione del limite. L´uomo, il maschio, muore e lo sa; lo ha imparato da secoli di narrazioni che lo vogliono laicamente eroe, o religiosamente martire. (…) Ma per la donna la morte non è un luogo vivibile in prima persona, perché è ancora lo spazio della cura di qualcun altro. Nessuno ci ha raccontato che moriremo, ma solo che vedremo morire tutti. Dalla madre del crocifisso all´ultima delle vedove algerine, l´unica morte frequentabile è quella altrui, ai cui piedi piangere dolorose. Dopo aver lottato per non farci obbligare alla vita, la prossima battaglia sarà riprenderci la morte, la nostra.
Be’, l’abbacadora non si limita a veder morire gli altri, fa di più…
accidenti che bel brano.
Bellissimo – davvero. Non so bene quanto vero. Ci devo pensare. Esiste una solida iconografia di donne che muoiono. Nei libretti d’opera schiattano tutte eh! Incontrovertibilmente. Schiattano anche molte sante, e muoiono di dolore diverse madri e vedove. L’articolo lo trovo cioè forse un po’ forzato – ma appunto è benissimo scritto, il finale è da paura e nella sostanza dice cose su cui sono d’accordo.
@zaub. sì, certo, la povera piccina è condannata…
Onestamente, trovo questo articolo discutibile e impreciso, anche se parte da presupposti giusti. Come ha fatto notare Zauberei, la morte della donna (anche e soprattutto nell’iconografia religiosa) è molto presente.
Sarà una mia impressione, ma ultimamente trovo Murgia non molto brillante.
Forse la Murgia intende riprenderci la morte vera, quella che arriva prima o poi, ma ora più poi che prima, dopo la vecchiaia. Quella per cui molti ancora, almeno nei paesi, distinguono il modo di morire di uomini e donne, perchè le donne, dicono, sono più pazienti e accettano meglio la propria malattia e la morte (ma, statisticamente, non so) .
“È della natura femminile prendersi cura, dice la vulgata dell´unico paese d´Europa dove la donna è un ammortizzatore sociale”:tremendamente vero anche in un altro senso(insieme al calcio)
http://kritter.jwnmedia.com/files/index.php?dir=Music/&file=Mammas%20and%20the%20Pappas%20-%20Are%20You%20Going%20To%20San%20Francisco%20.mp3
io ho interpretato le parole sulla morte non riferite al momento in se ma al percorso che porta a quel momento, se ci è vietato invecchiare figurarsi morire!!!certo la murgia spinge il concetto all’estremo però così facendo spiega anche la realtà di quel fenomeno donna=ammortizzatore sociale di cui anche loredana aveva già parlato.
@zauberei certo nei libretti d’opera schiattano tutte e pure le sante non scherzano, però se andiamo a vedere i motivi per cui schiattano uhh che attacco di orticaria!!!al primissimo posto troveremo la difesa della propria purezza e secondo a contrasto era un po’ di facili costumi ma con la morte si è redenta!!e grazie agli orchestrali o no?!!
Non ho mai pensato alla morte in questi termini, e anche ora che ho letto questo brano non sono mica tanto sicura di aver capito.
Ne ho capito i presupposti, meno la conclusione: “Ma per la donna la morte non è un luogo vivibile in prima persona, perché è ancora lo spazio della cura di qualcun altro. Nessuno ci ha raccontato che moriremo, ma solo che vedremo morire tutti”. Io ho sempre trovato la morte l’unica cosa che ci accomuna tutti, e questa distinzione della morte del maschio e della morte della femmina va la di là della mia comprensione.
Quando si rimuove il simbolico per far posto allo storico (non che entrambi non abbiano luogo nella cultura, ma sono complementari) si producono spunti velleitari come questo.
Qualsiasi mitologo sa che la Grande Madre (Ishtar, Iside ecc) non muore mai. E’ lo sposo-figlio che muore (Tammuz, Osiride ecc).
Simbolismo patriarcale? Non direi, visto che il vero oggetto di venerazione qui è proprio l’inesauribile fertilità dell’eterno femminino.
Uno scrittore che veramente ha saputo immergersi non solo nel folklore ma negli abissi dell’immaginario collettivo, l’ha ben descritto qui
http://valterbinaghi.wordpress.com/2007/12/31/il-commiato-di-ray-bradbury/
Ma so che a qualcuna farà incazzare. Impegnarsi in un duello non storico ma metafisico è una cosa che fa tenerezza, se non che poi i risultati sono miserevoli: si ripudia il mistero della fertilità per poi ritrovarsi accerchiate da giovanotte che aspirano all’immortalità televisiva per grazia ricevuta (nel talamo del satrapo)
Mi piace questo articolo, lo trovo vero.
“È della natura femminile prendersi cura, dice la vulgata dell´unico paese d´Europa dove la donna è un ammortizzatore sociale […] Ma per la donna la morte non è un luogo vivibile in prima persona, perché è ancora lo spazio della cura di qualcun altro. Nessuno ci ha raccontato che moriremo, ma solo che vedremo morire tutti.”
E’ più facile che ad incontrare la morte siano le donne; se la donna è quella che si occupa degli anziani, dei malati, dei disabili del nucleo familiare (e spesso non solo) è ovvio che con maggiore frequenza sarà presente nei momenti di “passaggio”.
Allo stesso tempo chiunque abbia frequentato strutture come hospice o reparti per malati particolarmente cronici, per non dire terminali, non può non aver notato la spiccata presenza femminile fra infermieri, OS, fisioterapisti, psicologi, assistenti sociali e volontari (i medici rientrano parzialmente nel discorso, perché come al solito i ruoli di responsabilità o maggior potere vedono la presenza femminile comunque ridotta) che sia un caso? Non credo.
Non so se è frutto del nostro sistema sociale o dell’educazione di genere se le donne si prendono cura dei corpi (cosa differente dal curare e spesso molto più faticosa), ma è un dato di fatto.
Piccola postilla ho provato a pensare alle morti femminili a cui alcuni qui sopra alludevano e non me ne sono venute in mente di particolarmente gloriose, eroiche o eque. Violetta Valery muore rantolando davanti a un Alfredo che non ne ha fatta una giusta, ma tanto la peccatrice è lei e quindi ovviamente non può sopravvivere. Giovanna D’Arco non muore in battaglia e gloriosamente, ma bruciata, le varie martiri a partire dalle cristiane a me ricordano che il femminicidio è sempre esistito e gli si sono solo dati altri significati e interpretazioni, ma questa è una visione parziale e personale lo so.
Credo che al di là del morire abbia un peso (letterariamente e tradizionalmente) anche come lo si fa, tornando alla sopracitata Violetta, vero che ha Alfredo al fianco sul letto di morte, ma lui quasi non si accorge di quello che sta accadendo è ancora una volta concentrato su di sé. Di Alfredo e del padre è messo in evidenza il rimorso tardivo, di Violetta il sacrificio, tanto per cambiare fatto per amore!
Scusate mi son fatta prendere tastiera e pensieri da elucubrazioni varie ed eventuali!
Buona giornata a tutti
Donne che a mio parere sono morte eroicamente per ciò in cui credevano al pari degli uomini ci sono state e sono state tante nella storia se non nella letteratura (ma forse scavando certi esempi si potrebbero trovare): da Eleonora Pimentel Fonseca, morta per i suoi ideali, due croniste coraggiose come Ilaria Alpi e Anna Politkovskaja oppure pensiamo alle 683 partigiane fucilate o morte in combattimento.
Già Lucia, prendersi cura e curare sono due cose diverse.
Vabbè allora, e tutte le donne bruciate sul rogo (molte più degli uomini)??
No eroine, eh?
E’ vero, è scritto talmente bene, questo pezzo, che ti stordisce: è bello ‘dunque’ è vero.
Eppure c’è qualcosa che mi lascia perplessa e alla fine mi irrita pure parecchio.
Da premesse che condivido arriva a concludere che “Nessuno ci ha raccontato che moriremo, ma solo che vedremo morire tutti. Dalla madre del crocifisso all´ultima delle vedove algerine, l´unica morte frequentabile è quella altrui, ai cui piedi piangere dolorose”.
Mah, come ci è arrivata? Sì, l’iconografia è quella mitologica, riassumibile nel planctus Mariae e l’assunto reale, condiviso, è che noi donne siamo un surrogato degli ammortizzatori sociali, dunque ‘non possiamo permetterci di morire’, e va bene.
Ma che siamo mortali lo sappiamo bene, forse anche più degli uomini (uno per tutti: Roth).
O forse non ho capito quello che voleva dire o questa è una delle pochissime volte con cui non sono d’accordo con Michela Murgia.
Ecco una che della morte ha rivendicato tutto:
LADY LAZARUS
L’ho rifatto
Un anno ogni dieci
Ci riesco
Una specie di miracolo ambulante, la mia pelle
Splendente come un paralume nazi,
Il mio Piede destro,
Un fermacarte
La mia faccia un anonimo, pefetto
Lino ebraico.
Via il drappo,
O mio nemico!
Faccio forse paura?
Il naso, le occhiaie, la chiostra dei denti?
Il fiato puzzolente
In un giorno svanirà.
Presto, ben presto la carne
Che il sepolcro ha mangiato si sarà
Abituata a me
E io sarò una donna che sorride.
No ho che trent’anni.
E come il gatto ho nove vite da morire.
Questa è la Numero Tre.
Quale ciarpame
Da far fuori a ogni decennio.
Che miriade di filamenti.
La folla sgranocchiante nocioline
Si accalca per vedere
Che mi sbendano mano e piede
Il grande sporgliarello.
Signori e signore, ecco qui
Queste sono le mie mani,
I miei ginocchi.
Sarò anche pelle e ossa,
Ma pure sono la stessa, identica donna.
La prima volta sucesse che avevo dieci anni.
Fu un incidente.
Ma la seconda volta ero decisa
A insistere, a non recedere assolutamente.
Mi dondolavo chiusa
Come una conchiglia.
Dovettero chiamare e chiamare
E staccarmi via i vermi come perle appiccicose.
Morire
É un’arte, come ogni altra cosa.
Io lo faccio in un modo eccezionale.
Io lo faccio che sembra come inferno.
Io lo faccio che sembra reale.
Ammetterete che ho la vocazione.
È faccile abbastanza da farlo in una cella.
È faccile abbsatanza da farlo e starsene lì.
È il teatrale
Ritorno in pieno giorno
A un posto uguale, uguale viso, uguale animale
Urlo divertito:
“Miracolo!”
È questo che mi ammazza.
C’è un prezzo da pagare
Per spiare le mie cicatrici,c’e’ un prezzo da pagare
per auscultare il mio cuore
Eh sì, batte.
E c’è un prezzo, un prezzo molto caro,
Per una toccatina, una parola,
O un po’ del mio sangue
O di capelli o un filo dei miei vestiti.
Eh sì, Herr Doktor.
Eh sì, Herr nemico.
Sono il vostro opus magnum.
Sono il vostro gioiello,
Creature d’oro puro
Che a uno strillo si liquefà.
Io mi rigiro e brucio.
Non crediate che io sottovaluti le vostre ansietà.
Cenere, cenere
Voi atizzate e frugate.
Carne, ossa, non ne trovate
Un pezzo di sapone,
Una fede nuziale,
Una protesi dentale.
Herr Dio, Herr Lucifero,
Attento,
Attento.
Dalla cenere io rinvengo
Con le mie rosse chiome
E mangio uomini come aria di vento
(Sylvia Plath)
si valeria forse in questo caso la murgia se fatta prendere un pochino la mano, è anche vero che questa è solo una parte del suo intervento, forse leggendolo tutto alcuni passaggi che qui ci sembrano forzati sarebbero più comprensibili. direi che ha volato un po’ troppo in alto e poi per tornare alla realtà ha dovuto compiere una manovra piuttosto spericolata.
ma andando oltre la parte poetico-mitologica del pezzo in esso ci sono alcuni spaccati di verità quotidiane, dall’eredità degli anni ’80, ai compiti assistenziali assegnati quasi esclusivamente alle donne, insomma c’è del materiale concreto su cui lavorare.
Il pezzo è così bello, sembra quasi un’eresia entrare nei contenuti. La Murgia confonde livelli teologici diversi – per di più tutti di matrice cattolica e mal digeriti con gli anni Ottanta. Nell’iconografia cattolica la donna morente è molto presente: martiri (non muoiono per difendere la loro purezza – quello solo Santa Maria Goretti e la sua antesignana di cui ora non ricordo il nome ma credo sia Sant’Agnese. Spesso sono uccise perché rifiutano il matrimonio in nome di una vita consacrata.) Comunque le sante muoiono in quantità industriale pari solo a quella delle eroine dell’Opera – lì non se ne salva una – schiattano da giovani, giovanissime. Di più – per secoli e proprio nel mondo cattolico – la morte è stata faccenda da uomini – le confraternite della morte erano composte solo da maschi, che si prendevano cura dei corpi insepolti e, in alcuni casi, di assistere le persone prima della condanna a morte. Fino all’Ottocento la morte è stata pubblica – non era un tabù – ed era questione di maschi: uomini i preti, uomini i becchini, uomini i medici – quando ce n’erano – chiamati al capezzale. La morte è diventata una faccenda da donne quando, come nel mercato del lavoro, è stata deprezzata -)))
Tu non mi caccerai via in nessun posto:
non si respinge la primavera!
Tu non mi toccherai, nemmeno con un dito:
troppo teneramente io canto verso il sonno.
Tu non mi diffamerai:
il mio nome è acqua per le labbra!
Tu non mi lascerai:
la porta è aperta, e la mia casa è vuota!
(Marina Cvetaeva, luglio 1919 – trad. di P.A. Zveteremich)
* * *
La mia strada non passa vicino alla tua casa.
La mia strada non passa vicino alla casa di nessuno.
E tuttavia io smarrisco il cammino
(specialmente di primavera!)
e tuttavia mi struggo per la gente
come fa il cane sotto la luna.
Ospite dappertutto gradita,
non lascio dormire nessuno!
E con il nonno gioco agli ossi,
e con il nipote – canto.
Di me non s’ingelosiscono le mogli:
io sono una voce e uno sguardo.
E a me nessun innamorato
ha mai costruito un palazzo.
Le vostre generosità non richieste
mi fanno ridere, mercanti!
Da me stessa mi erigo per la notte
e ponti e palazzi.
(Ma ciò che dico – non ascoltarlo!
E’ tutto un inganno di donna!)
Da sola al mattino demolisco
la mia creazione.
Le magioni – come covoni di paglia – niente!
La mia strada non passa vicino alla tua casa.
(Marina Cvetaeva, 27 aprile 1920 – trad. di P.A. Zveteremich)
MIchela Murgia dice che l’imperativo ad occuparsi degli altri e della morte degli altri è talmente categorico che veniamo obbligate alla rimozione del nostro essere creature finite. Dice che la rappresentazione della morte femminle e del nostro morire è insufficiente perché obbedisce ad altro simbolico.
@Donatella
Credo di aver capito cosa dice la Murgia. A mio modesto avviso lo sostiene con argomenti storicamente errati e privi di fondamento. Precisato questo – non sono neanche d’accordo sulla tesi. Anche se resta un bellissimo pezzo.
@barbara beh le sante martiri e vergini sono una marea, però non è questo il punto. è vero che dal punto di vista sociale ed economico in passato la morte è stata una faccenda da uomini, però ad esempio come spiegare la figura (sebbene mitologica) di Antigone, costretta ad accudire il padre Edipo ormai folle, ad assistere alla morte di un fratello per mano dell’altro fratello, costretta dal potere a lavare il sangue di questa morte, rinchiusa in una grotta che non è la morte ma la vita sicuramente non è.
comunque come dice donatella ciò su cui sarebbe il caso di riflettere è “l’imperativo ad occuparsi degli altri e della morte degli altri”
E’ la Murgia che deplora una mancata rappresentazione di donne morenti, condannate ad occuparsi dell’altrui morte. In modo del tutto meno bello io sostengo che l’accudimento della malattia e della morte è diventato faccenda in esclusiva femminile quando la morte stessa è diventata un tabù (da un lato) e poco socialmente appetibili i mestieri connessi alla nera signora. E’ un imperativo abbastanza recente. Non che ci debba piacere neh. A me non piace per niente.
forse la Murgia sta cercando un modo per avere uno sconto dall impresa delle pompe funebri? poverina è senza morte…le donne sono derubate della morte!
che tristezza!
Che tristezza…
Ivabellini. Spero che sia un momento di idiozia passeggera, la tua. Alla seconda, cancello. L’articolo della Murgia tocca argomenti serissimi: dissentire va bene, postare stronzate no.
Non sono poi così convinta che il mestiere dell’infermiere o dell’OSS sia esclusivamente femminile, nei nostri ospedali (e io ho avuto la sfortuna di vedene diversi) ci sono parecchi uomini. Certo non li ho contati, ma non è che io abbia notato una differenza sostanziale (con la sola esclusine del reparto maternità). Diverso invece è il discorso della presenza femminile nelle case di riposo, dove effettivamente vediamo in gran numero le donne a lavorare.
Ma al di là di questo…tutti i miti citati risalgono all’antichità, possiamo davvero analizzare la “morte femmina” contemporanea sulla base di questo? Mi pare davvero qualcosa di strano!
In una società narcisista, egoista, adolescenziale e capitalista non c’è da sorprendersi che tutto debba essere sacrificato e sparire per l’utile e il redditizio.
Una società di vampiri. E l’analogia con il non-morto non è poi tanto metaforica.
Giulia, come mi sembra di aver già detto, preferirei si discutesse sulla base di fatti e non di sensazioni.
Quanto poi alla “stranezza” di analizzare la contemporaneità sulla base dei miti antichi, perdonami, ma è la seconda stronzata del giorno.
Scusate la durezza, ma mi sembra che questo articolo non meriti commenti del tenore di alcuni di quelli che ho letto qui.
Scusa Loredana ma Murgia scrive (ripeto, splendidamente) “Ma per la donna la morte non è un luogo vivibile in prima persona, perché è ancora lo spazio della cura di qualcun altro. Nessuno ci ha raccontato che moriremo, ma solo che vedremo morire tutti. Dalla madre del crocifisso all´ultima delle vedove algerine, l´unica morte frequentabile è quella altrui, ai cui piedi piangere dolorose.” Questo nessuno ci ha raccontato che moriremo è, storicamente falso: la narrazione della morte femminile è un topos del cattolicesimo, non solo dal punto di vista dell’iconografia. Mettici su le protagoniste dell’Opera – manco una che porti la pelle a casa. Al massimo esiste una doppia narrazione: la donna che muore e quella che assiste i morenti. Ma negare l’esistenza della prima mi pare un errore. La negazione della vecchiaia è un fenomeno recente. Avrà si e no una trentina d’anni. E’ degno della massima attenzione ma è nuovo.
Barbara, non mi riferivo a te, naturalmente. Mi riferivo alle battute imbecilli.
be…se ti è sembra una stronzata, allora scusa della stronzata Loredana.
va beh io “perdono”…però anzichè dire che ho scritto una stronzata qualcuno può anche spiegare il nesso, no?
Mi pare evidente che il contenuto dell’articolo non è del tutto compreso (quantomeno dalla sottoscritta), e io non capisco la mescolanza di questioni recenti (tipo l’esempio della donna non curata) con miti antichi.
Ma forse questo non è il posto giusto in cui esprimere un dubbio e attendersi un confronto. Mi congedo e lascio spazio a chi ne sa di più.
Giulia, dal momento che non è la prima volta che arrivi con affermazioni plateali, e ti è stato più volte cortesemente chiesto di argomentarle, capita che si perda la pazienza. Dopodiche, ti chiedo scusa io per la ruvidezza.
@Giorgia,
grazie per aver postato la poesia di Sylvia Plath, perfettamente in sintonia con l’articolo Di Michela Murgia.
Anch’io ho notato una intepretazione sconcertante del suo articolo nei commenti e mi chiedevo cosa dire e come dirlo affinché questo flusso venisse in qualche modo interrotto. Dispiace perché le cose scritte in un blog restano e non nascondo la mia difficoltà nell’esporre qui quei sentimenti che Giorgia ha avuto l’intelligenza di riportare mediati dalla poesia di una grandissima.
Di fronte ad articoli di questo livello si ha voglia di condividere pensieri ed esperienze ma delle volte nei blog si rischia qualcosa di sé che non sempre si è disposti a rischiare. C’è un’ansia critica che può bloccare la libertà di dirsi, insieme ad altre e altri, nei blog. Bisogna tenerne conto ma chapeau, Giorgia, ancora, perché questo è un buon modo di condividere, di far sentire come si partecipa e cosa si mette nel gesto di costruire qualcosa insieme.
@donatella: grazie. Un post poetico chiama poesia.
Questa invece è una che della vecchiaia rivendica tutto:
SENILE BELLEZZA
Sono vecchia,
le mie mani sussurrano gesti
e tremori, ed è un pensiero
purissimo
come il mare che bagna più il cielo
che la terra,
come la neve che si dissolve nell’alba.
Sono vecchia
e lo sono fin dall’infanzia,
quando indugiavo sui battiti
e li custodivo nel mio
bisbigliare.
(Io fra qualche anno)
Non cercavo certo le scuse dato che questo è il suo spazio e tutto sommato sono io ad averlo invaso. Diciamo che devo imprarare ad entrare in punta di piedi. A mettermi in difficoltà è di certo una certa mancanza di formazione umanistica, ed è forse per questo che fatico più di molti altri qui a capire la catena di pensieri della Murgia ma anche di alcuni commenti.
Argomentare le mie “impressioni” è nei fatti difficile se non impossibile, ma dato che mi era parso che chi diceva che il mestiere dell’infermiere e dell’oss è quasi totalmente femminile non avesse portato prove in merito mi sono sentita erroneamente di dire che non è così. Di questo chiedo venia. Per quanto riguada il punto focale dell’articolo e dei commenti mi piacerebbe davvero capire in che modo si è partiti da miti lontani per giungere ad una visione della morte femminile di oggi. Io infatti mi figuro facilmente opere antiche nelle quali il ruolo del personaggio feminile era marginale (quando studiai l’Iliade rimasi sconvolta dal fatto che a Briseide non fosse lasciata pronunciare nemmeno una frase) e altrettanto facilmente opere più recenti dove invece il personaggio femminile è di tutt’altra leva, perciò mi viene da pensare che come c’è stata un’evoluzione sulla “vita” della donna (sia in letteratura che nella vita reale) ce ne dev’essere stata una anche sulla morte della donna (altrettanto valido sia in letteratura che nella vita reale). Poi ripeto che forse, pur avendo la volontà per capire, a mancarmi sono le basi, ma in tal caso da una discussione posso solo che trarre beneficio e nuovi spunti.
Giulia, diciamo che in un blog è difficile fare un riassunto dei miti e della letteratura. Posso però dirti che la mitologia ha sempre accostato la morte al femminile. Ci sono ottimi libri su questo da consultare: per esempio quelli di Ida Magli, antropologa di grande acume. Anche Simone De Beavoir ne parla ne Il Secondo Sesso. E di miti siamo tuttora imbevuti, anche se lontanissimi nel tempo.
@ Giulia
Non tratta in modo specifico del femminile ma ha come tema centrale la morte e i miti della e sulla morte: Massa e Potere di Elias Canetti. Il titolo fa impressione ma non è indigesto: lo giuro.
@Giorgia,
Questo “mare che bagna più il cielo che la terra” e la poesia intera, rappresentano molto bene i momenti di quel morire mentre si vive e in cui si tocca un’altra dimensione che percepiamo come assenza momentanea ma densissima di sentimenti e di pensieri. La morte ci è stata sottratta in tanti modi ma non l’esperienza che ne facciamo e della quale è così importante parlare.
Michela Murgia sostiene che non abbiamo eredità, da parte del femminismo di questo, ma non è così. Spero ci stia leggendo e che possa accedere ai documenti del Virginia Woolf di Roma, conservati nella biblioteca comunale, dove si possono consultare le trascrizioni delle attività dell’Università delle donne che dedicò un’intera sezione a questo argomento. Ebbe come titolo: “Parlare la morte”.
@giorgia grazie per aver riportato qui le parole di Sylvia Plath, abbiamo così tanto bisogno di poesia…
MT parlava di vampiri e di non morti per come ho interpretato io la murgia (magari mi sbaglio) sono proprio queste non-possibilità ad attirare la mia attenzione, una donna non può non prendersi cura di malati, anziani ecc e contemporaneamente non può trascurarsi ed invecchiare, non può permettersi di non essere giovane e curata.
Queste imposizioni, queste gabbie mi ricordano il destino delle donne murate vive del passato, da qualche parte bisognerà pur cominciare a demolire?!!
@barbara si non possiamo negare che esista tutta una narrazione della morte femminile, sarebbe interessante vedere però come muoiono le donne? potrebbe dirci molto anche su come vivevano e aiutarci a dare qualche colpo di piccone che ne dici?!
Non lo so Laura, credo di non averci pensato abbastanza. A titolo personale, io ho qualche problema proprio con l’idea della morte e mi riconosco nel pensiero di Elias Canetti. Un buon psichiatra ne trarrebbe delle conclusioni adeguate -)))
Non riguarda la Murgia, in generale io sono un po’ allarmata da questo mondo che si occupa moltissimo di quello che capita prima che si nasca e di ciò che accade quando si sta per mettere il piede nella fossa, cancellando quando sta in mezzo. Ma è OT e non riferito all’articolo postato. Mi scuso.
Secondo me, lo ripeto, l’articolo di Michela Murgia è talmente abbagliante che se ne rimane come accecati.
L’ho riletto. Non è il cortocircuito tra il piano simbolico e il piano fattuale che critico, è che, nel caso in questione, non mi pare (= non pare a me, ‘io’ non riesco a vedere) il legame tra i due.
Capisco che cercare di affrontare quell’articolo sul piano meramente argomentativo possa essere irritante, ma non farlo per me sarebbe come subire un ricatto estetico.
Dunque o lo respingo del tutto o cerco di capirlo con gli strumenti che mi ritrovo a disposizione, che probabilmente sono pochi e inadeguati, ma questi ho e questi uso.
Provo a spiegare i motivi della mia perplessità.
.
“È della natura femminile prendersi cura”
Questo dice la vulgata, concordo. E’ sicuramente possibile che, qui da noi, questa vulgata sia di matrice religiosa: tu, donna che, mangiando la mela, hai reso l’uomo fragile e mortale, della sua fragilità e mortalità ti prenderai cura a vita.
Dunque – dice Michela Murgia, sempre se ho capito bene: ci siamo ribellate al ‘partorirai (con dolore)’ ma non al ‘ti prenderai cura’, che di quel ‘partorirai’ è comunque un corollario. ‘La malattia’ introdotta da noi donne nel mondo ci obbliga a non poterne uscire (= morire), costrette a lenire il male di cui siamo state causa.
Affascinante spiegazione teologica di un fatto: la donna è, fino a prova contraria, oggi più che mai, un ammortizzatore sociale.
Concordo sul fatto, posso anche concordare sulla spiegazione teologica, solo non capisco come quella spiegazione renda conto dell’altro lato della questione: “L´uomo, il maschio, muore e lo sa; lo ha imparato da secoli di narrazioni che lo vogliono laicamente eroe, o religiosamente martire”.
Entro quella cornice biblica, semmai, l’uomo ‘subisce’ la morte : la donna è costretta a rimanere, l’uomo ad andarsene, ma sempre di una costrizione si tratta, per entrambi, indipendentemente dalle eventuali diverse narrazioni, su cui mi pare siano stati espressi diversi dubbi.
Io credo che, almeno, in Occidente il ‘riprendersi la morte’, come esperienza individuale e collettiva, sia affare di tutti.
In un’altra cornice, il più famoso sillogismo imparato a scuola ci dice che ‘Tutti gli uomini sono mortali. Socrate è un uomo. Socrate è mortale’, e con questo ci ha indotto a credere, al netto di tutte le narrazioni, che a morire sia sempre e solo Socrate, ovvero che la morte sia sempre e solo ‘altrui’.
.
@barbara no io non credo che sia così OT e mi scuso con Loredana se dovessi finirci ma è proprio “quello che succede nel mezzo” ciò su cui dobbiamo lavorare, non credi?
ora mi hai messo la curiosità di leggere il libro di Elias Canetti e valeria mi ha fatto venir voglia di rileggermi l’Apologia di Socrate!!!
scherzi a parte credo che parte della confusione che l’articolo della murgia ha generato in noi derivi proprio dal trattare l’argomento tabù per eccellenza, tutti (o quasi) abbiamo un problema con l’idea della morte, forse perché difficilmente parlandone rimane un’idea e basta, si vanno a toccare certe corde personali, come diceva donatella, che qui è difficile spiegare:)
@Giulia Credo tu abbia letto con troppa fretta il mio intervento, non ho parlato del mestiere in generale, ho parlato di OSS e infermieri in particolari e circoscritte situazioni inerenti, proprio per riallacciarmi all’articolo, al fine vita “hospice o reparti per malati particolarmente cronici, per non dire terminali” lì per quella che è la mia esperienza in Umbria, in minima parte a Roma e in altrettanto minima parte a Bologna, di uomini rispetto alle donne se ne vedono un numero molto minore.
Te stessa scrivi che negli ospizi le presenze femminili in quelle categorie lavorative sono preponderanti.
Spero di essermi spiegata meglio.
Buona serata a tutti
P.S. @Paola Di Giulio in inglese è più facile rendere la differenza fra “aver cura” e “curare”, nel primo caso si usa “care” nel secondo “cure” due vocaboli che differiscono solo per una vocale nello scritto, ma enormemente nel significato.
Ri-buona serata
Si vanno a toccare corde personali, Laura, ma, una volta che si decide di rompere il tabù, o della morte si parla con franchezza o non se ne parla affatto.
Conosco donne che l’esperienza della morte hanno dovuto affrontarla, una volta avuta la diagnosi di una malattia potenzialmente mortale, e ho fatto fatica a collocare le loro storie nella cornice proposta da Michela Murgia.
Non so se abbia senso parlare di una peculiarità di genere nella rimozione della morte. Sono d’accordo con Valeria, questa rimozione riguarda tutti e tutti dovremmo “riprenderci la morte”. E’ vero che c’è una differenza, ma mi sembra che riguardi le dinamiche che la società mette in moto di fronte alla morte, una società, è vero, che ha fatto del benessere uno status symbol e della giovinezza un merito (di un certo tipo di giovinezza, aggiungo).
A causa di questa rimozione, come ha detto Barbara, la morte è stata svalutata, relegata più lontano possibile dagli sguardi. Alle donne è stato appioppato il compito di gestire questa patata bollente, loro devono prendersi cura di chi è vicino alla morte e allo stesso tempo lavorare su se stesse per non ricordarla agli altri.
@Valeria
Credo sia tecnicamente impossibile narrare la propria morte così come è impossibile farlo per la propria nascita. Si può solo raccontare di nascite e morti altrui. Regola che vale per i maschi e per le femmine. Avere una diagnosi di malattia – esperienza traumatica – non è la morte. Non ancora. Si può negoziare con l’idea della propria dipartita – dicono alcuni esperti psicoanalisti. Soprattutto quando si è vecchi/e. Tuttavia c’è qualcosa di insano nel “memento mori”, mi riferisco ad alcune regole di ordini religiosi cattolici – sia maschili che femminili – in cui tutta la vita è orientata alla preparazione della morte e alla meditazione sulla morte in generale.
@Barbara. Sì, certo, mi sono espressa male. Non ‘l’esperienza’ della morte, ma farci i conti, scoprirsi mortali, questo.
‘Scoprirsi mortali’ come se non lo avessero, avessimo, mai saputo. E credo che questo sia comune a uomini e donne. Il modo in cui si affronta questa scoperta, invece, credo sia diverso, ma posso parlare solo di quello che conosco, ovviamente.
Solo un particolare.
La Murgia dice che il peccato originale è una colpa ontologica tutta femminile con le conseguenze di cui parla.
E’ laureata in teologia: le sue ragioni per un’affermazione del genere saranno solide.
Personalmente l’ho sempre interpretato come il risultato del libero arbitrio. Ciascuno, sia uomo o donna, rimane comunque responsabile delle proprie azioni. Il fatto che, per prima, sia stata Eva a mangiare il frutto è assolutamente ininfluente: la bibbia in mio possesso dice che Adamo era lì con lei, consapevole delle sue azioni.
Forse Michela, come ha già detto Valeria, fonda le sue ragioni sulle maledizioni divine. Una specie di contrappasso nella pena della donna quando si dice “verso il marito ti spingerà la tua passione, ma egli vorrà dominare su di te”, nel senso “tu l’hai dominato obbligandolo a mangiare il frutto, d’ora in avanti lui ti dominerà “. Mentre l’uomo, tramite la maledizione del suolo, rimane per sempre vittima della propria dabbenaggine. Bella figura ci fa!